vi segnalo alcuni eventi
*Presentazione del volume La poesia, il sacro e il sublime, a cura di Adele Desideri, Fara Editore, 2010.
Coordina il Prof. Gianni Mussini. Sono presenti i coautori: Natascia Ancarani, Maria Carla Baroni, Giuseppe Curonici, Antonietta Dell'Arte, Mariangela De Togni, Nino Di Paolo, Elisa Giangoia, Tomaso Kemeny, Eros Olivotto. Interviene Tito Truglia della rivista Farepoesia.
L'incontro, organizzato da Natascia Ancarani e dalla Biblioteca Civica Bonetta di Pavia, si svolgerà mercoledì 27 aprile alle ore 18, nella ex chiesa di Santa Maria Gualtieri, in Piazza della Vittoria, a Pavia.
ll volume edita gli atti del Convegno "La poesia, il sacro, il sublime" tenutosi a Milano nel novembre 2009. Il rapporto fra poesia e trascendente viene affrontato da prospettive diverse, laiche e religiose. Diversi sono anche gli stili di scrittura, le produzioni poetiche si alternano alle riflessioni teoriche. Gli autori del libro, come scrive la curatrice "espongono – ognuno con criteri e tonalità diverse – il modo in cui “sentono” il legame esistente fra la parola poetica e ciò che sta al di là dell'hic et nunc, che elude i sensi umani: il “totalemente altro”, reperibile, appunto, nel sacro e nel sublime.
L'incontro, che vuole mantenersi fedele allo spirito del convegno, prevede la stessa pluralità di approccio, si confronteranno diverse visioni del problema, alle riflessioni si alterneranno letture poetiche.
*Francesco Papa, giovane poeta affetto da autismo, poesie 2009-2011, a cura di Adele Desideri, pubblicate nel blog farapoesia marzo 2011. Allo Spazio Tadini di Milano (via Jommelli 24) il 5 aprile scorso, nell’ambito della manifestazione Calpestare l’oblio (a cura di Adam Vaccaro e Fabio Orecchini) ho potuto leggere le poesie di Francesco - che era presente e felice, accanto a me – e dare così voce alla sua grave, dolorosa impossibilità di comunicare oralmente
*Recensione di Adele Desideri a Daniela Dawan, Non dite che col tempo si dimentica, Marsilio, 2010, pubblicata ne Il Quotidiano della Calabria, 27 dicembre 2010, rubrica Libri e letture, pag. 44, in allegato
*Recensione di Adele Desideri a Sandro Montalto, Monologhi di coppia, Edizioni Joker, 2010, pubblicata ne Il Quotidiano della Calabria, 10 gennaio 2011, rubrica Libri e letture, pag. 24, in allegato
*Recensione di Giuseppe Curonici a Adele Desideri, Il pudore dei gelsomini, Raffaelli, 2010, pubblicata ne La Mosca di Milano, rivista di poesia, arte e filosofia, N. 23/2010, Edizioni La Vita Felice, dicembre 2010, in allegato
*Recensione di Ciro Vitiello a Adele Desideri, Il pudore dei gelsomini, Raffaelli 2010: Ciro Vitiello, Una tematica sentimentale, in www.retididedalus.it , Rivista on line del Sindacato Nazionale degli Scrittori, febbraio 2011, in allegato
Lieta con voi
Adele Desideri
Daniela Dawan, Non dite che col tempo si dimentica, Marsilio, 2010, pag. 151, euro 15
Daniela Dawan, nata a Tripoli, nel 1967 è venuta a vivere con la famiglia in Italia. Ha soggiornato a Roma, a Bruxelles e negli Stati Uniti. Ora, a Milano, esercita la professione di avvocato. Non dite che col tempo si dimentica - in ebraico “Ma tkelouch el denia nassiana” - è il suo romanzo di esordio, presentato, nello scorso maggio, da Marta Boneschi e Gad Lerner presso la sala Montanelli, Fondazione Corriere della Sera, a Milano.
Le vicende descritte da Dawan si svolgono a Tunisi, verso la fine degli anni Trenta. Cesare Orvieto, “illustre medico ebreo e autorevole esponente della comunità italiana” viene trovato morto, “avvolto in una bandiera sbiadita”: “un sudario, il tricolore scompigliato lo ricopriva quasi interamente. Un rivolo di sangue denso si era raggrumato all’altezza della testa”.
È il 20 novembre 1938, Cesare si è suicidato: dopo l’emanazione delle leggi razziali, egli è considerato “un miserabile ebreo tunisino, un twansa”, ed è stato allontanato malamente dall’ospedale. Tuttavia, poiché non ha mai nascosto le proprie simpatie per il fascismo, è inviso pure alla comunità israelita. Cesare non è più italiano, né ebreo. E nemmeno francese, visto che ha rifiutato l’opportunità di acquisirne la cittadinanza.
È morto, Cesare, distrutto nella dignità e nell’onore, e logorato da un amore impossibile per l’affascinante musicista Augusta Levi.
Ma i morti ritornano e il tempo non cancella i ricordi. Anna Orvieto e il suo giovane fidanzato Philippe - siamo a Milano nel 2008 - recuperano fortunosamente un bocchino d’avorio, con l’incisione di una scritta in arabo - Mabrouk - e di “due iniziali: C.O.”. E una lettera di Augusta, indirizzata a Cesare, spedita il 20 novembre 1938, che rivela un segreto: “Una foto di tua figlia. Anche se te la mando con ritardo. Col tempo non si dimentica”.
Così le tre storie - quella di Cesare, di Anna e di Philippe - si ricongiungono e si intersecano in un mosaico di alchemiche coincidenze, fino a formare un drammatico, seducente filo narrativo. Il passato riemerge, misterioso, avvolgente, come un magma che ribolle di sentimenti e nostalgie, di passioni e orrori, di compromessi inconfessabili e ancestrali timori.
Sullo sfondo, Tunisi, amministrata dai francesi, con “le viuzze umide della Piccola Sicilia”, “il quartiere ebraico” e “la Medina”, fra i cui “viottoli si spande un intenso aroma di caffè ai fiori d’arancio”. La parte europea, che “si stendeva rettilinea, aperta, attraversata da larghi viali dove il vento rinforzava negli spaziosi crocevia tra i grandi edifici”. E poi la “moschea as-Zaytunah”, “la cattedrale cattolica e la chiesa greca”. Tunisi, gli anni Trenta. Un incrocio di tradizioni e religioni diverse, di sensibilità sociali complesse e assetti politici instabili: mentre si incomincia a respirare un clima di sospetto e di intolleranza, si può però godere ancora di un humus culturale raffinato e cosmopolita.
Dawan si dimostra un’abile romanziera, capace di ritrarre le differenti psicologie dei personaggi, sfumandole attraverso i minimi particolari fisici, o le improvvise, melodiche, gestualità. Restituisce vigore alla memoria, disegnando un affresco delicato e suggestivo di un mondo ormai trascorso. Ricrea, con naturalezza e gusto, i costumi, gli stili di vita e le vicissitudini di una città, Tunisi, tra le più attraenti del Mediterraneo.
E ci insegna che quanto accade oggi rimanda sempre a ciò che già è stato, e che tutto torna, tutto tiene, nella storia dell’uomo. Perché ogni esistenza su questa terra non è che l’istante di un lungo viaggio, di un inesorabile esilio. E, allora, “Tisfer we titgharah”: “Viaggia e conoscerai il sapore dell’esilio”.
Adele Desideri
pubblicata ne «Il Quotidiano della Calabria», 27 dicembre 2010, rubrica Libri e letture, pag. 44
Sandro Montalto, Monologhi di coppia, Edizioni Joker, 2010, pag. 55, euro 10
Rappresentato nel 2008 al Piccolo Teatro Giorgio Strehler di Milano, Monologhi di coppia è un testo teatrale e poetico assieme: le algide tonalità di scrittura, le lunghe - meditate - pause, l’angoscia sottesa ai soliloqui incrociati dei due lunatici protagonisti generano un autistico proliferare di suoni, una drammatica impossibilità di comunicazione, eppure anche una sinuosa, modulata liricità. Montalto si inserisce - con le sue parole perse - nella tradizione del teatro dell’assurdo di Samuel Beckett ed Eugène Jonesco. Ne rivitalizza però la cifra stilistica, facendo lievitare il dialogo, sconnesso e caustico, verso le vette della sensibilità poetica: «“(…) La cosa più brutta è toccare il cielo con un dito e ritrovarselo sporco di terra” - “(…) Succede spesso, ma la gente dice che sono pezzi di nuvola”».
I due personaggi si chiamano Tweedledee e Tweedledum: il primo è irreparabilmente ipocondriaco, il secondo del tutto folle. I loro nomi sono attinti da Attraverso lo specchio e quello che Alice vi trovò di Lewis Carroll. Tweedledee e Tweedledum emettono frasi a singhiozzo, mai assertive, scivolando spesso in un dettato metaforico corrosivo, a volte esasperante, e tuttavia ludico: «Alludo, deludo, illudo… si fa quel che si può».
Una verbosità smembrata, quella scelta da Montalto, forse proprio per ricordare la sconfitta del sogno del filosofo Ludwig Wittgenstein, che, nel Tractatus logico-philosophicus, ha tentato invano di dimostrare la verificabilità empirica - e quindi la relativa validità epistemologica - di ogni proposizione del linguaggio comune. E forse per indicare, tramite l’umorismo del nonsense carrolliano, il mero resistere di un racconto frantumato, in cui i singoli significanti non rimandano più ad un’area di significati, e la realtà si spezzetta in una serie di percezioni senza continuità né logica. È il ritorno-involuzione alla fase della lallazione neonatale (lalangue per Lacan). Una sorta di delirante, ecolalico, balbettio: «La parola (…) si esaurisce nel momento stesso in cui viene enunciata, non è un messaggio orientato ma un tic, ed annulla ogni possibilità di reale dialettica».
In un panorama così desolato, così privo di riferimenti ontologici e semantici, non c’è spazio nemmeno per l’arte. La creatività non ha vis, respiro, cuore, e «il poeta è tale “solo nei momenti di debolezza”, senza nervo né efficacia».
Montalto definisce giustamente questa sua opera una «tragedia comica». Tragici, infatti, sono il vuoto, la noia, il fluire nei giorni sempre uguali del nostro insulso tempo, e comici appaiono «alcuni comportamenti e ragionamenti ridicoli che si svolgono nella quotidianità»: «”(…) Ma cosa c’è in fondo a quest’oggi?” - “Forse un… riccio impazzito” - “O un nulla che nulleggia” - “O un ulcera urlante” - “O il nostro scoglio, e noi siamo le ostriche” - “O le cozze”».
Monologhi di coppia fa riflettere. E, mentre induce a tristezza, motiva anche al sorriso, quando tocca le corde di un’ironia glaciale e vivace al tempo stesso: «“(…) Come definire il genere umano?” - “Semi di anguria”», «“(…) Dentro ognuno di noi sonnecchia un mostro” - “Oltre che un maiale…”».
E, infine, spinge a chiedersi se esista una qualche via di uscita, una strada per ritrovare nei diversificati orizzonti della post-modernità una nuova alba di bellezza, un semplice seme di bontà. Oppure se, ormai, la società che abbiamo costruito è malata in modo terminale:
«“Errare è umano…”, “… e perseverare è un verbo all’infinito. Ma non è una giustificazione”», scrive Montalto.
E vorremmo, davvero, potere dargli torto. Davvero.
Adele Desideri
pubblicata ne «Il Quotidiano della Calabria», 10 gennaio 2011, rubrica Libri e letture, pag. 24
Recensione di Giuseppe Curonici a Il pudore dei gelsomini di Adele Desideri, Raffaelli, 2010 in «La Mosca di Milano, rivista di poesia, arte e filosofia», n. 23/2010, Edizioni La Vita Felice, dicembre 2010
I temi di Adele Desideri emergono dal tessuto della realtà quotidiana, con prevalenza dell' interiorità degli affetti e soprattutto dell'amore, sia come dialogo di passioni e sentimenti con l'Altro, sia come esperienza personale propria, interna e profonda. Sorgono dall' unità esplicita di materia e spirito, corpo e anima, sensi sensualità sentimento e pensiero. La voce che detta i versi è animata da una conoscenza dell'esistenza umana che viene acquisita e compresa, lontanissima da ogni astrazione concettualizzante, attraverso percezioni delicatamente concrete (anche dolorose): intuizione e risposta interiore. Adele Desideri ci propone una immagine della vita complessa, carica di tensioni; tale molteplicità rimane evidente e dinamica anche nel momento dell'unificazione; la cronaca delle contingenze è minima, l'autrice rinuncia a disperdere l'attenzione fra i possibili elenchi di eventi fatti o subiti, e punta alla risultante essenzializzata fantastico-emozionale del vissuto. Intanto avviene un'operazione culturale assai densa, attiva pur sotto le apparenze di un'immaginazione-sensibilità pronta sempre a inebriarsi di immediatezza, di percezioni ed emozioni a fior di pelle. Tale riflessione-meditazione ha importanti risvolti. Il primo è la sua capacità di fornire solidità e durata a ciò che altrimenti sarebbe la fuggevole istantaneità di immagini e sentimenti. Poi, libera la lettura da una visione limitata individualistica per aprirsi a fratellanza comunitaria. Inoltre affronta i tempi lunghi e lunghissimi, quelli della storia della civiltà, di cui la vicenda qui e ora è soltanto una manifestazione attuale puntuale, anche se naturalmente per l'io della poesia è la più importante. Il pensiero soggiacente di cui stiamo parlando, è attestato a lampi e con tutta evidenza dal fatto che il discorso si allarga a idee, o immagini, di lontana provenienza, e di almeno tre origini diverse.
Intanto, è funzionale la continuità della tradizione classica nella civiltà occidentale. Per A. Desideri è necessario il nome di Edipo (Testamento), gli dei (Cementi surreali), le nicchie sacre dei Lari (Figli miei), l'assediata Itaca, l'assolata Tebe (Non ti aspetto), et alia. Un ulteriore sistema è la tradizione biblica ebraico-cristiana: Abramo, Isacco, il Tigri e l'Eufrate; i crocefissi, una croce, Pietro, Giuda, Lucifero, il vuoto sepolcro, fino alla piena evidenza dei nomi della Trinità (Monastero di Sanahin): “Cristo attraversa,/ lo Spirito inebria,/ il Padre accoglie.//”. Un altro insieme di vita-valori è la natura, che pullula da tutte le parti, specialmente nella vegetazione, in sottile interscambio con l'essere umano, come nei “ (…) petali intrecciati/ a labbra turgide,/” (Delirio). Così è avvenuta una macrometafora o metamorfosi fondamentale, la trasformazione dell'individuale nel cosmico-vitale, attraverso la presenza o la mediazione offerta dalla natura vegetale. Il titolo del libro si comprende alla fine: i gelsomini sono oggetti brevi e delicati, il loro pudore è presenza di qualità spirituali-psichiche, il profumo ha estensione sopraindividuale e impregiudicata.
Giuseppe Curonici
Il pudore dei gelsomini
Raffaelli Editore, Rimini 2010, pp. 76, € 10,00
di Ciro Vitiello
Una tematica sentimentale
1) La coscienza ha forza nel percepire (sentire, prendere) le cose e organizzarle razionalmente entro una struttura di pensiero – di modo da diventar sentimento che assume una caratura di senso precipuo, non impressivo e affettivo ma cognitivo e linguisticamente determinativo al fine di rappresentare idee, concetti, riflessioni nella consapevolezza dell’indagine che nel soggetto agente si connota come forma teleologica di avvertita predisposizione alla visione del mondo. Essa così agisce come ente di Wahrnehmung, volto al conseguimento della Wahrheit, verità della conoscenza che fonda, kantianamente, “l’accordo con l’oggetto”, quale prodotto sensibile di un soggetto, detto poeta (ed affini). Qui allora il termine sentimento è purificato dalle sfumature e dai toni psicologici e romantici per assurgere a valore di appercezione, ossia della capacità di riflettere sulle proprie condizioni esistenziali nonché di costruire l’assetto delle sensazioni e di predisporre razionalmente il linguaggio a contenere le immagini che si sprigionavano dal fondo naturale della psiche e si ristrutturano in virtù della ragione. Perché, essenzialmente, il linguaggio è tessitura voluta dalla logica possessiva dei sensi ed è forma delle cose (come l’acqua prende la forma dall’oggetto, così la poesia le caratteristiche dal costruito).
2) Tale premessa serve a sgombrare il campo da ogni sorta di ambiguità e di inganni. Il sentimento che attraversa il libro di Adele Desideri – Il pudore dei gelsomini – attinge vigore dall’universo personale ed è presentato come espressione di una esperienza di vita. Il testo presenta due ambiti differenti, anche se unitari nella intenzione, costituiti l’uno dal verso esteso e l’altro dal verso brevissimo. Il primo ambito, però, a nostro modo di vedere, è quello più efficiente, dotato di una riflessività tesa e coerente, e comprende varie poesie disseminate nello spazio testuale. Per una ricostruzione tematica necessita partire dal fondo del libro, da quel Testamento dove appunto – in bilico tra poesia e poetica – la Desideri dà il meglio di sé vedendosi in una prospettiva ideale, con un linguaggio marcatamente concreto pervaso tuttavia di spirito sensibilmente simbolico: “concubina”, “farfalla di una notte”, “cicale delle torride estati”, “luna calante”, “giovinetta”, “pioggerellina di marzo”, “girasole distratto”, racchiudendosi lei nella figura di Edipo: “Di Edipo seguirò la sorte, mi caverò / gli occhi che non hanno voluto / quei secondi tra l’utero e la fossa”. Di simile tenore sono Soverato, Cartaceo, Casta meretrix, Bambina (tenera e fantastica).
3) Merita un cenno a parte la poesia Pronto soccorso, soprattutto per comprendere il carattere (generalizzabile) del linguaggio desideriano e il comportamento discorsivo e atonale, piano e modale: l’autrice si tiene a debita distanza dalla materia che, proprio perché distante, sottomette con un accurato calcolo di soppesi a un ritmo privo di accenti primari: tra lo scenario di normale quotidianità (cucina, chef, piatti, forchette, carne macerata, vetri appannati) e una intima soavità (quasi asettica) resta in sospensione – in un’aura dilatabile ad libitum – una sorta di levità in disfacimento: “tra la pelle e il lino / ho lasciato desideri sbriciolati”. A conclusione dell’evento la sospensione invade la mente del lettore che è riportato in una sfera pneumatica.
4) L’altra area del testo, quella rappresentata dal verso brevissimo, è punteggiata di sintagmi vigorosi che – tuttavia – impallidiscono per la tendenza all’astratto, e quindi al dominio della significazione indeterminata, e pertanto appare meno persuasiva Questo stato echeggia un modico Ungaretti, per esempio: “Sei con l’uomo / nello spazio angusto / di una notte in trincea”. Qualche guizzo luminoso si incontra nel poemetto Elegia, dove è portato a una pura rarefazione il triangolo “padre-madre-figlia” fino alla insopportabile solitudine: “Non posso, non posso / restare quaggiù / senza madre né padre”. Perché sulla terra non le gioie ma i tormenti aggrediscono l’anima: “non credo, non credo / che la vita sia amore, / è solo bruciata, tradita, / in frantumi”, e tale sentimento si ferma sull’orlo di un invisibile dirupo, da cui non c’è possibilità di far ritorno.
Pubblicato in www. http://www.retididedalus.it, Rivista on line del Sindacato Nazionale degli Scrittori, febbraio 2011, recensione di Ciro Vitiello a Il pudore dei gelsomini di Adele Desideri, Raffaelli, 2011
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