lunedì 13 settembre 2010

Su Colibrì di Anna Maria Tamburini

Fara Editore, 2010
recensione di Germana Duca Ruggeri pubbicata su «L'immaginazione» n. 262, aprile-maggio 2011 (Anno 28°)

Nel cielo di parole di Anna Maria Tamburini si è librato in volo Colibrì (Prefazione di
Gianfranco Lauretano, postfazione di Loretta Iannascoli; pagg. 52, 10 euro), meditata raccolta io lei e la romagna di esordio. Tardivo, si direbbe, ma annunciato fin dagli studi universitari, compiuti dall’autrice sotto la guida di Ezio Raimondi, con cui discusse la tesi sull’opera di padre Agostino Venanzio Reali. Un interesse vivo per la poesia, che lei ha coltivato anche in seguito, da studiosa di letteratura contemporanea e teologia, come attestano innumerevoli articoli e saggi, spesso interdisciplinari,
quale il recente Campi immaginabili, sulla comparazione di prestiti biblici nei versi di Padre Reali,
Margherita Guidacci, Emily Dickinson.
Se tale dedizione, ora, muove felicemente i primi passi verso la scrittura poetica, scegliendo
il segno di una alata meraviglia, “il colibrì / fuoriuscito da strati di  vissuto”, si è tentati di
pensare a un percorso inarrestabile di perfezionamento, ovvero all’effetto di un istinto amoroso che Anna Maria, cercatrice di verità, ha saputo rinnovare e orientare nel tempo.
L’elegante dotto libriccino, con la copertina incisa dai colori luminosi di Enrica Rossi, è suddiviso in quattro sezioni, i cui titoli (sull’equoreo seno, affiora l’adamàh, alle superiori acque, puro fuoco) già suggeriscono una dinamica interiore che è parimenti riflesso di una ampiezza naturale, cosmica.
Di tale fusione ci si accerta procedendo nelle pagine, entro un variare sommesso di motivi, fra correspondences di sguardo e visione, già care a Baudelaire e, prima ancora, a Foscolo; come a tanti poeti del Novecento (si pensi a Rebora, richiamato in Prefazione da Lauretano, oppure ad Antonia Pozzi).
Sullo sfondo di queste liriche, troviamo delineati sorprendenti scenari, ove leggi fisiche, allusioni scientifiche, cenni a botanica, ornitologia, entomologia, legano e liberano il corpo-anima di ciascun essere vivente e il portato mistico di una scrittura in versi tutta in battere e levare.
Così l’intera raccolta, mentre restituisce il brusio dell’universo, il suo solfeggio, – “Da un capo all’altro / non un frullo si perde / non battito d’ala // di farfalla palpebra pinna / non ticchettio di sfera / d’ogni specie. Non si perde.” -, celebrando la resistenza dell’amore di Dio, diviene movimento di pupilla che, nel contemplare, comprende e loda; eco di pensiero che vuole “dire bene / se non si può dire bene dire”
l’ape e la libellula, l’ippocampo e i delfini, il merlo e l’orso, la mortella, l’orchidea.
Lo stesso colibrì, in tale scorcio, potrebbe essere figura dello Spirito. Simbolo di energia vibrante nel fuoco
pentecostale, nel vento ascensionale, silente o fragoroso, che spira quando e dove vuole: “È frastuono d’oceano nel silenzio // vasto il pieno d’orchestra / delle orbite celesti / e lo Spirito non sai /donde venga dove vada // solo avverti - del destino - / in nome del padre, / la vita e il compimento / in nome della madre / l’abbraccio di un grembo / e il nutrimento”.
Questo uno dei possibili sensi della silloge tersa e iridescente di Anna Maria Tamburini, specie nei passaggi in cui, rammemorando maestri e maestre, sostiene l’intima occorrenza di comprendere la vita.
Quasi non bastasse osservarla da ammiratori un po’ sordi e distratti quali spesso dimostriamo di essere.
Quasi fosse troppo poco anche il solo fatto di amarla.

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