venerdì 2 ottobre 2009

Emilia Dente in Legenda

recensione di Vincenzo D'Alessio

scheda de libro qui


Alla pagina 235 dell’antologia letteraria Legenda (FaraEditore, 2009) è stata inclusa la raccolta della poetessa irpina Emilia DENTE, Tarassaco e viole. Una raccolta di versi brevi, bisognosi di sole, assetati di ascoltatori, tersi come l’aria che quasi più nessuno respira in questa terra del Sud, piagata dalle sofferenze per la mancanza di libertà. Mancanza di lavoro per i giovani. Mancanza di accoglienza verso i portatori di idee diverse. Mancanza di spazio per affermare le “Speranze” che danno vita ai sogni e alle realtà migliori lontano da questi luoghi.
Il tarassaco è tenace e solitario. La viola è profumata e nascosta. La prima pianta/fiore rappresenta la volontà della poetessa di essere vicina a quanti intendono ascoltare e cambiare la terra dove vivono. Il secondo fiore, più delicato e prezioso, fiorisce come messaggio della primavera che giunge e che si apre dopo l’inverno. Purtroppo l’inverno del Sud della penisola non finirà per adesso. Come non finirà l’egemonia politica, mafiosa, clericale, degli interessati che sostengono questi personaggi che si annunciano nei versi della presente raccolta in questo modo: “nella mia terra / non sono solchi / le ferite lungo la via / non solchi / (non ci è concesso seminare) / ma fossi / fossi da saltare / fossi in cui cadere / fossi per seppellire / l’amara nostra speranza” (pag. 258).
Basterebbero questi versi per confermare che la Poesia sceglie un corpo umano per mostrarsi all’Umanità: il poeta scomparirà, la Poesia continua. La ricerca della parola come parte pura, innocente, dell’esistenza del genere umano è la ricerca poetica di Emilia DENTE. Una poetica che l’avvicina a tanti poeti del Novecento italiano ed europeo (basti pensare ad UNGARETTI o BAUDELAIRE). Vedo più consono il verso di UNGARETTI, per accostamento: “E la crudele solitudine / Che in sé ciascuno scopre, se ama, (Canto, 1932). Scrive la poetessa innalzando in sé la solitudine di tutte le donne del mondo: “non so morire / tra mura di ardesia e cemento / tra campi di papaveri e grano / non so morire / (…) / all’ombra del mio cuore / non so morire”(pag. 257).
Nessun lemma è sprecato. Tutto è rastremato nelle poesie che questa insidiosa e, all’apparenza, semplice raccolta di versi comunica. Antitesi e anafore si susseguono in un crescendo che invia un climax rovente di “forza civile” coniugato al femminile: nascosta nei fossi come le viole: profumi intensi e delicati, colori violenti e dolci, speranze che non possono più aspettare e morti inevitabili. Come la bellissima poesia dedicata a Peppino IMPASTATO a pag. 265 (e in lui a tutti i cuori, fermati dalla crudeltà della violenza mafiosa). Come il distinguo per le diversità mai accettate, nella poesia dedicata a Forrest Gump a pag. 262. Ci sono tutte le voci del Sud di ogni parte del mondo. L’emblema della femminilità che coglie, da madre, l’indefinita valenza della vita portata nel grembo dalla Natura: madre impossibile del genere umano: dolorosa e indispensabile per la continuità.
Più di me scrisse bene della Nostra il critico letterario Paolo SAGGESE nel suo saggio apparso sul quotidiano «Ottopagine» del maggio 2008: “Insomma, questa poesia, è specchio di un’anima, ma credo di tante anime, e al contempo testimonianza cristallina di impegno per la propria terra, per il mondo in cui viviamo. (…) Perché per Emilia Dente la poesia è cosa seria, è servizio per sé stessa e per gli altri, è dono altruistico pur nell’incertezza della speranza.”
L’uso continuo dell’anafora richiama il repetita iuvant dei classici latini: richiamo per quei sordi che non vogliono ascoltare; per quella gente che non vuole cambiare; per quanti uccidono “occhi mani parole sorrisi outletidee” (pag. 259), da troppo, troppo tempo.
Nulla è lasciato al caso, come recita il lavoro critico della giurata Antonietta GNERRE (pag. 273). Siamo di fronte alla vera poesia, che resterà dopo di noi a dialogare con il lettore attento, interessato all’armonia che governa il genere umano, quello dei più deboli, quello dei puri di cuore, quello formato da coloro che attendono “nel raggio obliquo della prossima stazione” (pag. 259) la scadenza del proprio tempo terreno. Tutti siamo in viaggio: c’è chi se ne ricorda e chi si crede eterno. La Nostra è mite e combattiva. Serena ed accigliata di fronte al Tempo, ai limiti, al caos, alle incursioni inaspettate degli accadimenti.
Il Sud della poetessa è carico di umanità; forte dei sentimenti contadini; unico nel tremore dei ricordi: “nei campi mio nonno miete a sera / sorride e mi saluta da lontano / oltre il recinto di paglia del ricordo” (pag. 271). Spero di addormentarmi dentro quel recinto con la bocca piena del sole che da questi versi muove il suo sereno cammino.

Settembre 2009

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