martedì 24 marzo 2009
Su Fashion di Alberto Mori
recensione di Vittorio Cozzoli
Il libro Fashion, se intendo correttamente, mi pare contemporaneo, testimoniando l’uno e l’altro modo di essere nel nostro tempo: quello che c’è e quello che dovrebbe esserci,
perciò lo riconosco interessante, giustamente concepito e felicemente risolto anche sul piano della scrittura. Nonostante forti concessioni (o cedimenti) al linguaggio “di moda”, che viene esaltato, servito, omaggiato (facendolo narcisisticamente godere), proprio questo linguaggio aiuta a capire quanto e come sia stato fatto uscire dall’orizzonte di senso (è perché il senso non ha più senso?) quello che più di altro non si separa dall’operazione
di “significato”. E tutti i grandi poeti, coloro che ogni secolo lascia in retaggio a chi viene dopo nel comune presente, hanno dato a noi da pensare:non solo a quello che nel presente storico-culturale va per la maggiore,ma anche ad “altro” ben più importante.
Sembra quasi che oggi il “linguistico” (che vorrebbe essere la totalità della realtà) la faccia da padrone e rifiuti di concedere spazio, presenza alla forza del significato da cui volenti o nolenti, dipende.Dico questo perché non si tratta solo di una questione filosofica, ma della sostanza piena della realtà.
Il fine vocabolarietto al servizio della moda, certamente utile, mi ha fatto però pensare ad un’operazione che ormai manca, un elenco di parole rese oggi impossibili: verità, bellezza, bene, luce, ecc. Se chiedi di che cosa si tratta, molti si mettono a sorridere (per ironia, più spesso). Eppure dovrebbero far parte della poesia. O no?
Se, dunque, questo libro doveva servire per “servire” per mezzo della sua lingua la Moda corrente, l’operazione è riuscita. Complimenti. Ma se alla poesia è dato (anche resistendo in nome dei destini umani) aiutare gli uomini a prendere coscienza della prigionia nella quale i dominanti di ogni tempo li tengono prigionieri, allora auguro di tenerne conto per uno dei prossimi. Questo, ripeto, nel suo proprio, è felicemente riuscito. Lo dico proprio perché l’incipit del libro parla di “apparenza” di “fantasma vacuo”, insomma di realtà che pone un problema: se debba essere o non essere lasciata nel suo “vuoto”.
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