giovedì 4 dicembre 2008

Su Ma il cielo ci cattura di Ardea Montebelli


divagazioni letterarie e note di lettura
di Oreste Bonvicini

Il discorso esula forse oltremisura dalla poesia di Ardea Montebelli e spero che l’autrice scuserà queste divagazioni che poco hanno di poetico, ma trovano spunto ed esortazione proprio dalla sua poesia (di cui non conosco l’opera complessiva e perciò le intrinseche motivazioni che fin qui l’hanno suscitata). Talvolta si affrontano temi tanto importanti quanto poco poetici. Scrivere poesia e affrontare la verità, così come svolge la silloge, e affermo perciò verità assoluta, quella a cui aspira il poeta, penso sia compito a cui solo il pensiero possa dirigere lo sguardo, in quanto la poesia dovrebbe sempre rivelarsi scevra da ogni strumento di confronto dialettico…


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Confesso di aver sempre nutrito dubbi sulla poesia che si dichiara esplicitamente religiosa. E non me ne voglia lassù il buon Turoldo, che purtroppo assiste al silenzio sceso sulla sua opera, come una voluta distanza che gli uomini prendono dalla parola, non più mediata dalla voce, dalla presenza. Perché l’intermediatore del messaggio trascendente rimane l’uomo tra gli uomini. Oltre c’è l’assurto celeste. C’è il tempo del non tempo, dei non interrogativi, della negazione del dubbio.
Ora la poesia di Ardea non vuole valicare il tempo terreno, lasciando intatti i dubbi ovvero gli interrogativi dietro cui la lettura delle scritture media il confronto con i luoghi sacri che ne ispirano i versi. E su questo vorrei soffermarmi, in quanto ritengo che la sensibilità dell’autrice, unita all’unicità dei luoghi, esalti la misticità che da essi emana e l’insieme divenga motore della sua ricerca poetica. Il tutto rivela un moto profondo e desta l’interrogativo grande ovvero quello dell’umana insanabile ricerca della verità.
Scrivevo tempo addietro a proposito dei viaggi che ci portano verso luoghi sacri:

«Sappiamo come le emozioni colte in viaggio siano strettamente personali. Ciò che apparirà importante al nostro sguardo, per altri sarà superfluo o del tutto indifferente.
Gli appunti inoltre che raccoglieremo spesso soffriranno dell’artificiosità di chi aspira ad ogni costo ad un’emozione, ad un particolare memorabile che caratterizzi il viaggio…
Ma solo al ritorno, o dopo mesi immersi in tutt’altra realtà, rileggendo quegli appunti, scopriremo di non riconoscerli come nostri, ovvero non riconosceremo la mano che li scrisse, che pure fu nostra, e non riconoscendo le parole non riconosceremo i motivi per cui appuntammo quelle parole, eventi o particolari che in quei momenti ci parvero tanto significativi, mentre ad una ad una le sensazioni vissute, le emozioni che subito non avevamo colto, la casualità di altre circostanze di cui non avevamo preso nota, torneranno alla mente.
Solo allora cominceremo a scrivere, e sarà la prima volta, perché come ogni letteratura, un fondo di autobiografismo è innegabile, inevitabile e nel contesto della scrittura, brilla l’attitudine allo stream of consciusness, il flusso di coscienza che ci fa scrivere in prima persona ciò che sentiamo di aver vissuto con maggiore intensità, interiormente.

Blaise Pascal affermava che “la gente normale ha il potere di non pensare a quello che non vuole pensare…” (Pensieri, 259), ma sovente le nostre letture vanno verso ciò che già in noi, genera pensiero. Cerchiamo, scaviamo, indaghiamo, affannati passiamo da un libro all’altro, per ritrovare le connessioni logiche del nostro pensiero che come un viaggio senza arrivi né partenze, si realizza nella mente. Viaggiamo dunque per il piacere del viaggio e brilla nel presente l’idea di inseguire una meta da tempo agognata. Forse da sempre. E nella lettura, sentiamo di poter riallacciare i concetti a lungo cullati, talvolta per ore durante pomeriggi nell’osservanza dell’otium latino, benché ci sarà sempre imposto di rendere conto del nostro non fare, finché la sera ci consegnerà la possibilità di tradurlo in scrittura, ma che, nella confusione che fa seguito ai cento impegni che la quotidianità impone, sentiamo improvvisamente lontani, sfuggenti.
Il nostro cammino potrebbe apparire a tratti privo di chiarezza, forse soffrendo un’assenza di intenzioni, privo cioè di un progetto a priori che ne identifichi un’inarrivabile meta..

Temiamo di vedere svanire il nostro timido argomentare, consapevoli nel contempo che nulla e nessuno potrà riportare in vita quelle concatenazioni logiche che solo poche ore prima sentivamo nostre, eppure incapaci di tradurle in scrittura.
È così che, talvolta quasi con meraviglia, scopriamo aspetti ritenuti minori, ovvero secondari o forse completamente estranei al pensiero iniziale, come un itinerario improvvisato che svela inattese bellezze a cui mai avremmo dato importanza se non costretti da quella deviazione improvvisa, obbligata forse da un improvviso mutamento climatico, o dal sopraggiungere della sera, quando urge volgere prua verso un porto sicuro… e non saranno luoghi diversi né diversi orizzonti, città conosciute, vissute o solo attraversate, argentei inverni vissuti in campagna, il freddo pungere lo sguardo, sfondare oltre l’immaginabile e tutto senza sfasamenti, senza disorientamenti, certi che la vertigine del ricordo sarà intensa, più di ciò che saremo, trascorsi anni e anni, non riconoscendo il nostro profilo riflesso…

Marcel Proust, fonte per altro inesauribile di immaginario, metteva in risalto come la nostra saggezza inizia laddove termina quella dello scrittore. (“Giornate di lettura” in Pastiches e melanges)
Nella lettura vorremmo trovare la soluzione ai nostri interrogativi, mentre al contrario troviamo solo incitamenti, perché ci affascina quanto sa destare in noi nuovi percorsi, pensieri, interrogativi anche quando il nostro affanno agogna il desiderio di una risposta. Se la otteniamo ci affrettiamo a riversarla sulla carta e raggiungiamo quello stesso scopo che altri hanno raggiunto prima di noi. La nostra meta è un approdo a lungo vagheggiato e solo a fatica raggiunto, riparato dai venti e dal mare già levato impetuoso e diverrà il molo da cui i nostri eventuali lettori molleranno gli ormeggi alla volta di un nuovo e forse più ardito viaggio di conoscenza.
Dal loro pensiero scaturiranno nuove avventure.
Dunque noi pensiamo e diamo forma nella scrittura a quanto ci è più caro e importante, ma non solo, perché parlando di noi scopriremo ciò che ci sta accanto, ma soprattutto daremo ai nostri lettori la possibilità di scatenare quei pensieri celati negli anfratti bui della mente. Diranno come già era capitato a noi – ecco, questo è il concetto a cui aspiravo, ma nulla fino ad oggi mi aveva offerto l’occasione di comprenderlo con tanta chiarezza – e liberi, inseguiranno la loro meta.
Non saranno perciò le pirotecniche descrizioni di luoghi fantastici ad interessare il lettore, ma ciò che accade dietro agli eventi, dietro alle parole, nel cuore degli uomini perché non possiamo annotare le azioni dell’intera nostra vita, scriveva Montaigne, ma possiamo farlo dei nostri pensieri.

E solo allora, quando tutto avrà compimento, nulla e nessuno potranno obiettare, modificare, riscrivere… solo allora le pagine si sedimenteranno come sabbia prima erosa dalle acque, dal vento e poi depositata sul letto di un fiume divenuto asciutto per un cambio traumatico e improvviso del suo corso.
Leggerle sarà definitivo.»



Ma questo tempo, questo nuovo secolo che sentiamo già vecchio e stanco, così afflitto dai problemi che ci auspicavamo risolti o quanto meno compresi alla fonte e legati ad un passato ormai remoto, può condurci finalmente alla verità? O tutto resterà nel limbo delle conoscenze non verificabili? Qual è la verità? Esiste una verità?
Già, la Verità. Che cos’è la verità domanda la poesia di Ardea. E se da un lato c’è il tentativo di dare una volta ancora forma poetica ad una risposta, mediando sui concetti che da sempre angosciano l’uomo, dall’altra c’è il richiamo al Vangelo di Giovanni, quando Pilato rivolge questa domanda a Gesù prigioniero al suo cospetto.
Ma la stessa domanda non trovava risposta anche nel Ponzio Pilato di Roger Caillois (1961, ed. it. Einaudi 1982), la stessa domanda a cui lo scrittore e saggista francese aveva anteposto le parole di Cristo: “Chiunque è per la verità ascolta la mia voce.”
La letteratura può dunque ancora tentare di dare forma e concretezza a questo interrogativo? Nel saggio Babele – Problemi della letteratura – Compito della verità, Caillois affermava: “… non c’è niente di più imprevedibile dell’influenza di un libro sul pubblico. Molto spesso i doni di un’opera sono come quelli degli dei: funesti o salutari, a seconda dell’uso che se ne fa. Uno stesso libro può avvelenare o guarire, a seconda del soggetto che incontra…” (Roger Caillois, Babele, 1948, ed. it. Marietti 1983).

I messaggi quindi mutano al mutare dei destinatari. Il messaggio che Nino Di Paolo ha inviato intorno alle poesie di Ardea («Appena lessi, sull'homepage del sito di Fara, la presentazione del libro di Ardea Montebelli Ma il cielo ci cattura – scrive Nino Di Paolo – fui attratto dai richiami della Maiella e degli eremi, che mi evocarono subito la personalità di Celestino, ricordato, troppo spesso, soltanto come unico Papa dimissionario della storia») svela come l’opera letteraria possa diventare tramite di mille rivoli di pensiero, di mille ripartenze. E di parola in parola svelare gli aspetti reconditi che la parola del poeta non può, da sola, evidenziare, raggiungere.

Vola alta, parola, cresci in profondità,
tocca nadir e zenith della tua significazione,
… sii luce, non disabitata trasparenza…

Scriveva Mario Luzi (Frasi nella luce nascente, Per il battesimo dei nostri frammenti), nella sua opera intrisa di afflato religioso. E questi versi richiamati da Dom Bernardo Maria Gianni in occasione dell'incontro con in S. Miniato (Firenze), manifestano l’altro aspetto della poesia religiosa, che spinge a domandarci quanto la conoscenza umana possa coesistere con la spiritualità che dentro di noi, laddove ancora non imbavagliata, trasale.

C’è la consapevolezza che un percorso razionale non può che negare gli aspetti che non trovano spiegazione, così come lo scienziato nega le pretese scoperte scientifiche che non si possono confutare?
Ed in questo dualismo, scienza e fede, quanta attualità e quanta coerenza riconosciamo! Qualcosa si svela infine?
Si può affermare che la ricerca della verità sia mirata a dare una risposta ai problemi della società.
È verità lenire le pene, scacciare le superstizioni, cancellare le angosce irrazionali, distogliere l’aspetto puramente emotivo e incontrollabile che talvolta governa l’uomo e attraverso il quale sono stati commessi i più grandi errori della storia.
Non dunque perseguire un perché senza raziocinio e non verificabile, bensì volgerci verso le necessità reali, liberi da ogni preconcetto, da ogni supponenza ideologica che di per se già esprime separazione, distinzione, emarginazione, nonché prelude all’autoritarismo che limita il bene massimo e forse principale a noi concesso: la libertà.

La storia è il tempo intercorso tra gli errori commessi e quelli che ancora si commetteranno. Guerre di religione, intolleranza, irrazionali e pretestuosi confronti tra fazioni che in nome di fantomatici dei si confrontano sul piano delle superstizioni per occultare i veri interessi economici che li animano, in nome quindi di un dio denaro, e mai perciò ultraterreno. Un gioco di oligarchie arroccate su baluardi indifendibili basati sul nulla, sulle sabbie mobili del confutabile.
Dominati dall’irrazionale, dobbiamo liberarci per lavorare uno a fianco all’altro per il presente, unico tempo che continuamente affrontiamo. Non ci sarà domani se non affrontando l’immediato. E del passato gli errori resteranno in grassetto evidenziati come un peso che ancora sopportiamo, ma di cui saremo consapevoli.
La fede resterà comunque sul nostro cammino: siamo soli al cospetto di questa identità che rischia di perdersi nell’infinito? Non basterà forse l’osservazione dei fatti e della natura, ma al poeta l’intimo afflato della speranza.

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