martedì 30 dicembre 2008

Su Le mie scarpe son sporche di sabbia anche d'inverno

Dal portale culturale «L(’)abile traccia»


Una recensione a cura di Lorella De Bon

Il libro di Stefano Bianchi promette bene sin dalla copertina: un titolo corposo, capace di suggestioni visive in bianco e nero, e un’immagine semplice, quasi stilizzata, che accompagna e arricchisce il titolo con un tocco di colore rosso sangue. Si tratta di un volume di piccole dimensioni, ma dai grandi contenuti: ventitré poesie a misura di tasca, pronte per essere consumate in qualsiasi momento e luogo, senza scuse per abbandonarlo sul comodino!
I temi sono quelli dell’assenza (e) della quotidianità. “Mi mancano perfino le spille/ pure quelle che sfilasti dalla coda dei capelli/ raccolti/ col gesto più banale”. Potrebbero essere nostri i gesti descritti da Stefano, le nostre memorie, fonte di una pacata nostalgia per oggetti e persone lontani negli anni, ma proprio per questo presenti nel cuore del poeta. È un piccolo e prezioso manuale di sopravvivenza quello che stringo tra le mani, che m’insegna a conservare un’emozione per i tempi magri a venire, a non pulire le scarpe per assaporare anche d’inverno i profumi e i colori dell’estate. “Vivo d’un bacio imbucato via telefono./ Lento bacio che dura ancora/ e lungamente m’assapora”.
Non si trova un momento di stanca nei versi che lenti si snodano sotto gli occhi del lettore, come fossero un fiume in cammino verso il mare. Su tutto incombe l’inesorabile trascorrere del tempo, che è inutile cercare di fermare con stratagemmi o gesti scaramantici, con una foglia ancora verde inserita tra le pagine di un libro. È nell’immagine commovente di due anziani che camminano dandosi la mano l’accettazione del declino del corpo umano (non dell’anima, ché quella non invecchia mai). “E il male che li porta/ è questo tumore d’esser nati/ che tutti ci accompagna”. Eppure, la consolazione sta davanti ai nostri occhi, talmente piccola e umile da passare inosservata. “Mi tocca la fortuna./ Quella di tornare a casa la sera/ e riconoscere la porta, i rumori/ e le manie delle persone che l’abitano”.
Immagini ripetute, ma soprattutto versi, a comporre una cantilena, quasi una filastrocca, di quelle che solo le mamme sanno cantare con dolcezza infinita ai propri figli. Anzi, pare a tratti che il poeta tema di non essere ascoltato, di non farsi comprendere, e riscriva le cose già dette. Una paura infondata, ma che caratterizza un verseggiare fluido e dolce, privo di cedimenti al richiamo di una forma sterile. “La riva, i gabbiani, il sole e gli scogli/ sono nel posto che sai/ tu sola non sei arrivata”.
È un omaggio alla propria terra e alle proprie tradizioni la poesia di Stefano Bianchi: i luoghi di mare, il calore della gente, il profumo dell’estate e l’inverno mite, un dialetto cadenzato e rotondo come le donne di una volta, dai fianchi larghi e il seno prosperoso. Su tutto, lo scorrere delle età dell’uomo e l’elogio alla fanciullezza, capace di vedere ciò che da grandi non si riesce più a cogliere, come gli “agguati del gatto che imperversa nel cortile/ stratega di giochi e di cacce di cui a te non parla/ più/ da quando eri bambino”.
“E anche fosse solo morte che ci aspetta/ facciamola tutta questa strada!/ Passo a passo”. Facciamola tutta, seppure costretti a comportarci come automi, a perderci dentro gesti che sono automatismi acquisiti e non lasciano alcuno spazio alla creatività. Alziamoci, laviamoci, vestiamoci delle nostre innumerevoli paure e andiamo a lavorare, anonimi tra gli anonimi, poi torniamo a casa e mettiamoci a dormire (intanto, la vita prosegue, a nostra insaputa).
È una scrittura schietta e semplice quella di Stefano: una combinazione ottimale di parole e silenzi, una chiave di lettura dell’animo umano alla portata di tutti, un rimando continuo alle debolezze e alla fragilità dell’essere. Perché solo la “poesia della quotidianità” sa essere una poesia universale.


Nessun commento: