giovedì 11 dicembre 2008

Su Bruciare l'acqua di Alessandro Polcri

Edizioni della Meridiana, 2008


T’accompagno nel viaggio
che nemmeno ho progettato,
ma mi muovo come paggio,
e ogni gesto è brevettato
dalla natura del mio diennea;
ti sto dentro sprofondato
e tu mi inguanti corpo
colle tue membra pieghevoli
provo fame e sete e spasimo
pei contorni delle cose percepiti
come augusti fini del mio agire,
e così attraverso mondi
e limacciosi fiumi
nascosto dietro il battito
delle mie gioconde-asciutte ciglia.



***


Traccio un cerchio sul bianco
foglio come usavano in antico
i geomanti sulla rena
e butto lì parole e le assedio col pensiero
per dar loro una forma che tenga.
Fuori del segno non c’è
commistione di verbo e di significato
ma solo il guazzo fonico prenatale,
un tempo sì angelico messaggio,
ora solo chiacchiericcio della mente,
occhio che si apre e non guarda,
scarpa slacciata infedele al passo
che si ostina ad avanzare,
labbro leporino che si oppone
al continuum della voce modulata,
incisivo sbriciolatosi
per troppo ingordo morso
su cui la lingua indugia
distratta dal suo vero corso,
albatros che canta,
malgrado l’amo nel suo becco
resto di un pesce sfuggito all’inganno.

***

Mi sfugge il fondo
e ciò che suol essere vita
è cono d’ombra che rimbomba
il quotidiano trobar prae-clus.

***

RISVEGLIO

Oggi è solo addizione
è giorno che s’aggiunge
e che mi vede e guarda e adest
al dipanarsi delle mie azioni
mentre il mondo ad est si accende,
all’unisono col mio sguardo mattutino,
sullo schermo della mia crespa fronte:
e anch’io intanto assisto,
con gli occhi della mente quasi ciechi
sicuro d’esser stato invitato
per inseguire delle impronte
sebbene nella selva disumana
delle res-stanti
“Io” sia poco più che scimmia
a cui il mondo sopravviverebbe
anche se non fosse lei a pensarlo.

***

Con la mano posso appena
coprire un lembo della terra,
e il palmo è poca cosa
se già tra le mie dita
rimane nuda zolla.
Se poi adagiassi
il corpo sul selciato
organo a organo accanto
posato, fegato e polmoni
milza e intestino prossimi
alle unghie ad una ad una
e ai peli, agli occhi e alle orecchie,
prima maschere, ma poi metonimie
di me, di quel medesimo un tempo
essente, allineati, disposti tra i sassi
come veli contornanti quello spazio
intorno posto,
che sarei capace di occupare?
Se mi aprissi come un fico
e spellassi le mie ossa
non potrei abbracciare niente
di più grande di un’aiuola
circondata dal muro della mente
che sa a stento separare.


***

Non troverebbero riposo
gli occhi miei
a percorrere di te
tutto l’intero confine
né potrebbe parola o pennello
ritrarti nella tua interezza.
E questo è ben noto pure
a chi s’ostina a negare
che sei stato tu, creatore e non creatura,
a volerti sottrarre gradualmente.
Avessi almeno lasciato
sotto alla crosta del muro
la sinopia del tuo passaggio,
ma nemmeno il profumo
della tua santità mi riesce
di avvertire tra gli ammattonati,
i cavalcavia, l’asfalto e la ghiaia,
le lussurie numerose della gente,
i deboli battiti dei cuori,
i passatempi e gli alibi
su cui m’è dato di trascorrere
con passo incerto inseguendo
il certo tuo incedere inascoltato.
Sono solo io a cercarti o siamo legione?
e gli altri scarsi guardano
dove anch’io esattamente punto?
o siamo a te attorno sparsi
invisibili tra noi e non vedenti
chi davvero attendiamo vedere?

Mi accorgo solo ora
che sto parlando rivolto
dove già tu non sei più.


***

DOPO UN SOGNO

Al risveglio ho messo insieme
schegge e momenti
lacerti resecati al tutto
e parti e pezzi e scarti
lasciati e ripresi con spezzoni occultati
tra passaggi e soste
tra incertezze e poste e decisioni
pentimenti e accelerazioni della mente.
Ma come in sonno della morte
l’apparenza è tradìta dal respiro,
così pure in veglia è tradìta dal pensiero
l’apparenza del senso.


***

ANIMA MUNDI

Ho afferrato un refo d’aria
e l’ho chiuso nella conca delle mani
per tentare la sua forma
mentre aderiva tutto al palmo:
l’ho lasciato andare dietro me,
nient’altro.
Vano lo scatto di voltarmi
per ritrovarne la presenza,
né più esiste prova alcuna
che quel puro groppo d’etere
mi sia per un istante appartenuto.

***

Temo sempre che sia l’ultima
delle volte che trovo
una parola adatta per parlare di te.
Così corro alla tastiera e batto forte
per tentare il gesto, già vano,
di possederti almeno negli spazi
intra verba o nelle pause sorgive
del tuo silenzio vivificante.
Spero che la mossa di inseguirti
significhi qualcosa e rompa l’ombra
che tu getti sopra me quasi ogni giorno
mentre passi e lecchi colla tua lingua d’aria
il sangue sullo stipite alla mia porta.
Sento di là dal muro che mi circonda
il tuo lambire fresco sulla pietra
e so che devo aprire ad intonare
in te di me la voce ancora roca
costantemente appressandomi alla pace
come il pezzo del troncone distaccatosi di netto
e arrivato finalmente all’estuario
quando si lascia alla stanca mareggiata
tra il salso flutto e la fiumana ancora dolce.

***

Ovunque io mi volga
di te incontro numerose
le sparse metonimie numinose.
È la condensata acqua dell’Inverno
dove il sole assente non si pose
o le arse messi dell’Estate
dove aleggia il tuo spirito soave
sulle cose vive e colorate.
Tu che sei e non sei
se solo il volere ti comanda.
Tu diserti il mondo,
non tu in lui, ma lui di te richiamo
tua perenne evocazione.


***

Sulle piume ammorbidite
è rimasta impressa l’orma di te,
fantasima en passant.
Tra l’informe massa ammutolita
dei dossi e degli avvallamenti
trovo ancora qualche traccia.
Abitasti, avvolta, tu quel luogo
sprofondando.
E sorprendo me ad osservare prono
quel magico imprimatur
e con le mani ne percorro vivo
il perimetro confuso.
L’impronta è un dono
buono il desiderio che provo
del perduto donatore.

***

Terra invisibile e confusa
è quella che sottostà del piede
alla pianta che si spande sulla neve:
l’occhio non la penetra
sfugge alla luce che rimbalza briosa
sul clangore del bianco,
ma il sasso vi s’acquatta
coperto dal mantello sensibile alle suole:
io lo fendo e lo imprimo di una traccia
che si scioglierà col primo sole.


***

BREVE CRONACA MARINA

Ho rotolato il mio corpo
sulla sabbia ben coprendo
ogni singolo centimetro quadrato
di epidermide rosata;
poi ho guardato verso il mare
e mi sono avvicinato alla riva,
sono entrato piano piano nella mareggiata
e, sentendo il sollevarsi dei minuti grani
dalla viva pelle battuta e lambita
e vedendone l’alone intorno a me,
ho sentito di sciogliermi con loro
e di ritornare libero e sformato
uomo di sabbia e di nulla,
indifferente.

***

CONGEDO

Ho cercato di te
tutte le immagini che ho potuto,
sei stata ogni evanescenza:
l’ombra che passa,
l’ultimo smalto di luce
sull’occhio del morituro,
la scritta erosa
sul muro millenario
e la cifra cancellata
sotto le parole vergate
sulla lista della spesa;
l’esile vita di una goccia
che toccando nella pozza
il fondo motoso si disperde
come fiamma invano immersa
a bruciare l’acqua;
ma sei sempre rinata altro,
altrove nascosta,
accennata appena
quando hai voluto concedere
di te un qualche sprazzo
della veste con cui adorni
le tue carni misteriose
che non lasciano orma
o traccia e non segno di passaggio
ma solo un’eco spirituale,
un maestrale di spiriti gentili,
di illuminanti amnesie
e di fiotti di energia
che doni a chi non sa
di ricevere, né può saperlo;
cosa sei e non sei
è tua esclusiva padronanza:
solo il mare possiede vera
la percezione della riva,
chi approda invece è accompagnato
dalla corrente proprio dove
il tocco dell’onda sulla sabbia
è palmare, estesa, sensazione preclusa
al piede che incide e non carezza;
quanto a me posso tagliare il tempo,
non altro, che mi resta con coltelli-parole
lame fendenti nel corpo vuoto del giorno,
ma a te sola spetta il lambire, lo struscio,
il tip tap
che s’appropria della superficie
senza mai manometterne
la pura pellicola invisibile.

***

nota di lettura di AR

Questo libro è di una elaganza classica e propone versi di taglio essenzialmente filosofico (a tratti mistico). Si tratta di un percorso in quattro stazioni (Fauces, Puteal, Perystilium, Exedra) che sono parti della domus romana, e questa parola latina può forse essere tradotta anche come "anima": il percorso di Alessandro Polcri procede infatti verso un estremo che non è solo spaziale ma è quel “luogo” in cui l'anima e la carne che la sostiene incontrano il divino, o quantomeno il mistero, e si sciolgono nell'abisso dello spirito invisibile ed eterno: «Ti diserti il mondo, / non tu in lui, ma lui di te richiamo / tua perenne evocazione» (p. 51); «Terra invisbili e confusa / è quella che sottostà del piede / alla pianta che si spande sulla neve: / l'occhio non la penetra / (…) / ma il sasso vi si acquatta / coperto dal mantello sensibile alle suole» (p. 57); «Ho rotolato il mio corpo / sulla sabbia ben coprendo / ogni singolo centimetro quadrato / (…) / sono entrato piano nella mareggiata / e, sentendo il sollevarsi dei minuti grani / dalla viva pelle battuta e lambita / (…) / ho sentito di sciogliermi con loro / e di ritornare libero e sformato / uomo di sabbia e di nulla, / indifferente» (p. 61). Tutti questi versi appartengono all'ultima sezione che rappresenta il climax della raccolta (a volte forse qualche verso ha un tono “esplicativo” o gnomico che potrebbe essere limato, ma nel complesso la forza delle immagini e l'emozione vitale che le sostiene sono notevoli), ma anche altrove troviamo passi di grande intensità: «Traccio un cerchio sul bianco / (…) / e butto lì parole e le assedio col pensiero» (p. 16); «sebbene nella selva disumana / delle res-tanti / “Io” sia poco più che scimmia / a cui il mondo sopravviverebbe» (p. 19); «Se mi aprissi come un fico / e spellassi le mie ossa / non potrei abbracciare niente / di più grande di un'aiuola» (p. 27); «Ma come in sonno della morte / l'apparenza è tradita dal respiro, / così pure in veglia è tradita dal pensiero / l'apparenza del senso» (p. 42).
L'ossimorico titolo rende bene la tensione, caratteristica di ogni uomo, fra desiderio e realtà: sono pagine, queste di Polcri, che danno al lettore parole che restano.


ALESSANDRO POLCRI è nato ad Arezzo nel 1967. Vive tra New York e Sansepolcro (AR). Si è laureato all’Università di Firenze in Letteratura Italiana del Rinascimento e ha conseguito il PhD in Letteratura Italiana alla Yale University nel 2004. È Assistant Professor of Italian alla Fordham University di New York. È redattore di Interpres (rivista di studi quattrocenteschi) ed è condirettore della rivista «Italian Poetry Review» (presso la Columbia University e la Italian Academy for Advanced Studies in America). Ha pubblicato, tra le altre cose, saggi su Luigi Pulci, Matteo Maria Boiardo, Marsilio Ficino, Martino Filetico, Cosimo de’ Medici e numerose voci del Compendium Auctorum Latinorum Medii Aevi (Firenze, Edizioni del Galluzzo). Sta ultimando un libro su Luigi Pulci e la Firenze dei Medici, ma si occupa attivamente anche di poesia contemporanea. Oltre al libro di poesie Bruciare l’acqua, ha recentemente pubblicato un racconto nell’ebook Italians. Una giornata nel mondo, introduzione di Beppe Severgnini, Milano, Rizzoli, 2008.

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