Il poema teatrale che da dignità agli umili
Il nuovo testo di Cucchi rientra in questa fenonelogia. È un'opera importante, efficace, poeticamente e teatralmente riuscito. Racconta una storia tragica, piena di luci e di ombre, propone un personaggio discusso, discutibile, ma appassionato e appassionante, un personaggio che si sdoppia continuamente. La sua immagine di eroina perseguitata, di folle delirante, si alterna con quella di una donna pura, santa, ingenua. “Ma questa luminosa demenza verticale/ non è che un anno,/ una lama./ Un’idea, è stata. Tu non sei storia”. Giovanna in carcere sente finalmente di appartenersi: “Io sono questa nuca che accarezzo,/ e quieste mani, la salute dei fianchi…/ il petto… le caviglie…/ Posso almneno racciogliermi, assaggiarmi,/ annusarmi, essere mia… toccarmi…”. Passa dall’esaltazione per l’ipotesi del grande destino alla calma di una ritrovata carnalità. Non sopporta di essere imprigionata e incatenata. Così si sdoppia e rivive in altre situazioni. Si distacca veramente dal suo presente, consapevole che di sé non resterà traccia, se non come ricordo negli umili che l’hanno adorata e seguita. È strano come il destino li abbia accomunati - scrive Cucchi in un passaggio – ma Gilles de Rais è lì incombente, malefico, compiacente del suo blasfemo gusto del sangue innocente. Ed è l’aspetto insondabile, nascosto, impossibile da accettare della stessa Giovanna, donna in realtà senza nome e senza storia. “La sua non era un’anima/ insanguinata, ma un gorgo nero/ una vertigine assoluta, un’ossessione, o forse l’incessante riprodursi del terrore infantile”. E comunque lei, la donna, non la strega, avanza verso il sacrificio.
Trascrivo qui il quadro penultimo, che amplifica tutti gli aspetti d’immagine e di sostanza della giovane donna conscia dell’imminente, tragica, “fiammante” fine, che comunque ha un senso nella fede di una realtà superiore, del Dio che scende a occuparsi di lei (e non il contrario).
Il corpo era lassù,
era come planasse sulla folla.
Osservava le cime degli alberi, i campanili, il cielo,
sentiva il poco vento nella primavera.
Gridava, poi, nel soffoco, nel fumo:
“Erano vere, erano Dio,
le mie luci, le voci!”
I soldati ridevano.
Quelle lingue leccavano
i suoi piedi la camicia
salivano ai capelli.
Attorcigliata gli occhi rovesciati
la fiamma mangiava spalle e mani, le gambe…
la esponeva e la mangiava…
Cercava di chiudere sul petto
le braccia a croce,
ma le cadevano.
Si inabissava
tutto il suo corpo formidabile…
Però il suo cuore
era incombustibile…
Maurizio Cucchi
Da Jeanne d’Arc e il suo doppio (Guanda, 2008)
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