venerdì 6 giugno 2008

SOLILOQUI (Alessandro Canzian)

«È destino il traliccio della luce / che rinnega i suoi fuochi d'artificio», «E sono queste le tue albe, che / meno inutili di me, ti porti dentro»: mi pare ci sia un tono tra l'ironico e l'elegiaco in questi versi di Alessandro: frequente l'uso dell'endecasillabo, sapientemente intercalati da versi di altra e varibile lunghezza. Bello l'uso di imagini che danno una “personalità” agli eventi: «La storia che privatamente assente / ci rimase incagliata nella tenda». Il tono generale e le strategie retoriche di questo poeta mi ricordano per certi versi quelli di Stefano Bianchi.



Ombre di luce che d'aprile, in un
vento, si spezzano di gelo.
È destino il traliccio della luce
che rinnega i suoi fuochi d'artificio
appena implosi all'orizzonte.
Non altro delle fronde, che un
flash mutilato tra le ore, un
pianto, una nebbia tenera di notte.


***

E sono queste le tue albe, che
meno inutili di me, ti porti dentro.
Nell’ordine disciolto del tuo corpo
dolceamaro di sole che si spegne
attardandosi a un tramonto
– un più vasto vuoto, nel mondo –.
Ma non risolve l’eco la sua pioggia.
L’umido che nell’aria ci discosta.


***

La storia che privatamente assente
ci rimase incagliata nella tenda
di notti e giorni insufficienti
a resistere alla bora – Trieste
era lontana ormai da tanto-, fu
a noi eco, amore in mezzo al vento
d’un inutile reazione, al tempo.
E rinunciammo a sopravviverne.


***


È nel lungo soliloquio delle carte
di versi che non ricordano se stessi
-sarebbe inutile, in fondo-
la certezza che esistere non vale
oltre il fossato amaro di cemento
e gambe, di mani e assalti
assottigliati dall’amore, senza pace.
Uno sguardo, non altro delle strade.


***


Il nome che ti diedi è un vuoto
che mi porto ancora dentro. I corpi
incastonati in mezzo ai corpi, il mio
come un esilio tra i tuoi piedi e
le lamiere della vita, senza forma,
senza tempo per resistere all’inverno
– appena sotto alle mani d’un tuo gesto
il significato del vanire in un’attesa
spasmodica e dolcissima, e spenta –.


Alessandro Canzian è nato a Pordenone nel 1977. È redattore della rivista online www.whipart.it e recensore per la rivista www.progettobabele.it . Si occupa di poesia a livello critico nel blog alessandrocanzian.leonardo.it/blog . Oltre ai volumi in versi (Christabel, ed. Del Leone 2001; La sera la serra, Mazzoli 2004) ha curato il saggio Oppure mi sarei fatta altissima (Terra d'ulivi, 2007) sulla figura poetica di Claudia Ruggeri, e l'antologia online Nel cristallo un vino astrale (Whipart Onlus, 2008) contenente alcuni dei maggiori poeti italiani (Cucchi, Spaziani, Conte, Ruffilli, Cavalli, e altri).

4 commenti:

Unknown ha detto...

Ti ringrazio Alessandro per aver inserito questi miei versi... chiamarle poesie è veramente troppo.. la vena ironica che dici di intravedere mi è, almneno a livello conscio, ignota.. una sorpresa che però, a fronte della tua intelligenza, mi porta a riflettere più a fondo sulle dinamiche anteriori dello scrivere in versi.. nel particolare del mio scrivere in versi.. in sintesi mi chiedo se tu possa avere ragione e se la drammaticità del verso non sia molto più semplicemente ironia velata.. comunque grazie, e attendo qualche commento...

Alessandro Canzian

Alessandro Ramberti ha detto...

In effetti penso che specie in poesia tutto, se è vera poesia e non semplice diario autoanalitico, sia velato, rivelato, svelato. Anche gli elmenti tragici o passionali non possono mai essere solo (auto)evidenti, ma devono essere espressi in modo allusivo e aperto all'aratura di più campi semantici: qui risiede la forza creativa e metaforica che (magari a livello inconscio) danno forza e verità ai versi.

Unknown ha detto...

Bè... oltre ogni dubbio apri un argomento interessante e molto stimolante.. spero anche altri si vorranno accodare..

.. intanto dico altre due parole..

"velato svelato rivelato".. il rischio di tutto questo mi pare sia, retorica a parte, l'equilibrio di consapevolezza che l'autore (ora a prescindere da me e da questi miei testi) deve avere quando scrive in versi..

.. in sintesi: quanta consapevolezza deve avere un autore su ciò che scrive?

perchè prendendo il discorso al contrario si potrebbe dire che innanzitutto l'autore deve avere la consapevolezza storica dello scrivere.. deve conoscere la storia passata e quella più recente per vedere dove ora siamo.. a che punto..

.. fatto questo l'autore deve avere la consapevolezza.. la padronanza potremmo dire.. del messaggio da una parte e del linguaggio all'altra..

.. questi due elementi sono gli strumenti portanti da cui poi nascerà il verso..

.. ma è anche vero che la sola consapevolezza porta a un verso artificioso.. poco naturale..

.. quindi direi che una certa dose di incoscienza sia necessaria all'autore per scrivere una verità, estetica o esistenziale che sia..

.. in sintesi chi scrive non credo dovrebbe essere l'autore ma il "genio interiore" (il "daiamon" si potrebbe ardire) e in seconda battuta l'autore dovrebbe prendere consapevolezza, o parte della consapevolezza, necessaria al labor limae sul messaggio e sul linguaggio..

Alessandro Canzian

Vincenzo celli ha detto...

.. in sintesi: quanta consapevolezza deve avere un autore su ciò che scrive?
bella domanda. In queste tue mi sembra abbastanza, nel senso che le sento con i piedi ben piantati per terra. Si denota anche una parte di incoscenza, ma non nel stupire, direi più al servizio dei messaggi, per renderli più introspettivi, ma non astrusi. Il concetto del "lasciarsi prendere" mi affascina molto e a volte personalmente cerco di seguirlo, o meglio, di esserne vittima, per trovarmi un pò spiazzato nel rileggermi, come il resoconto delle cose fatte durante una sbronza e che non si ricordano bene. Grazie per averle postate.
Vincenzo