venerdì 29 febbraio 2008

Su Padri della terra di Vincenzo D'Alessio

recensione di Narda Fattori

v. il libro Pubblica con noi 2007

Quando leggo Vincenzo D’Alessio mi viene da pensare a Rocco Scotellaro, poeta limitrofo nei luoghi, nei temi, nel coraggio della denuncia, nell’amore per la terra del Sud e, soprattutto per la gente del Sud. Mi si può accusare di scarsa fantasia, l’incipit del libro è dedicato a questo poeta. Ma leggendo si capisce che c’è qualcosa di più. Anche Dolci scriveva di rivolta e di ingiustizie, ma scriveva da politico militante, Scotellaro scriveva solo per amore. Appartengo, geograficamente, al settentrione, ma la mia storia s’affratella a quella di D’Alessio per il comune amore della nostra gente, i suoi “cafoni”, i miei contadini.
Siamo forse di troppe parole, ma chi ha vissuto il silenzio forzoso di chi non conosce le parole davanti all’arroganza dei “padroni”, parola che ormai non si usa più, quasi fosse una bestemmia e che il poeta si arroga il diritto di usare, perché le cose hanno il proprio nome e non si può edulcorare tutto perché l’amaro ci resta pur sempre in bocca.
Tutto il libro annoda vicende personali e vicende sociali, un sentire condiviso e una vicinanza che va oltre la fratellanza, direi che mira alla sovrapposizione.
Io apprezzo questo poeta meridionale che non s’arrende ai beceri mercati di qualche conterraneo, che assume il dolore e l’amore come solo può fare un poeta. E pazienza se c’è qualche déjà vu, déjà senti. La poesia che apre la raccolta ha la perfezione di un ulivo contorto, non certo quella del cammeo; ma dall’ulivo traiamo pane e companatico; D’Alessio dalle sue donne trae la storia, il passato, il presente e il futuro, trae anche la sorte «a rovistare lungo gli argini / dei solchi in cerca del verde / da cuocere con l’aglio… Ritorneremo saggi senza lutti / padri di madri senza tempo / saremo immensi quanto il cielo / rosso che ride del nostro tormento».
Credo che poche siano le poesie dedicate alle donne che hanno questa intensità e questa complessità necessaria nell’umiltà. Hanno la biscia nell’occhio e il latte nel seno: sono Madonne.
Ogni poesia rimanda ad un intero mondo e non ci basteranno tempo e fogli per dire l’armonia anche dei versi torniti, degli endecasillabi ben costruiti, della rottura dell’ordine perché necessita: «Tempo che mi urli dentro / non hai pace…»; «L’erba che muore sotto i camion / piange verità di anni chiari / illesi nelle nostre menti a salvarci».
Credo che queste brevi citazioni forniscano la temperie che agita questa poesia dedicata ai “padri della terra”, questa terra male amata, vituperata, dilaniata, disprezzata, venduta e comprata. E noi, figli della terra, ogni volta che compiamo uno di questi gesti di violenza, ripetiamo queste violenze su noi stessi, se non provassimo a «camminare camminare ancora / fino all’oasi che disseta amore».

Ci sono poesie dedicate a paesi geograficamente riconducibili all’orizzonte dello sguardo del poeta che ha sofferto l’esilio per “mangiare”, che si è affrancato dalla situazione di “cafone” per riassumerla ora, quasi che allora avesse compiuto un tradimento.

Qua e là si trovano felicissime intuizioni «i ratti afflitti / dall’insonnia dei motori», e ai politici corrotti «Torneremo soli il Sabato / con Rocco e Leonardo / resteremo sempre distanti / partigiani meridionali.», mentre le «rane / recitano inni al silenzio… il Dio che tace / l’anima sversa nell’iride / sale» ; «Noi scalzi sul molo lievi balliamo / insieme, a tempo con le onde».
Mi perdoni D’Alessio per questi furti di pietre preziose.
E anch’io invito a leggervi e a soffermarvi sulla poesia A Dante che mentre piega le stelle ci affida il mare, quasi a dire che lui, Dante, torna a riveder le stelle, a noi è rimasta la meraviglia e la fatica del mare. Ma amo molto la poesia A Maria Giovanna dove forse c’è un verso di troppo (secoli esploratori della vita) ma il resto è poesia nel suo, dettato limpido. E rispettiamo il suo, che è il nostro dolore quando dice di suo nonno Vincenzo e questa incorreggibile fame di vita.

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