venerdì 18 gennaio 2008

Il pianto ardente della fisarmonica (Paola Renzetti)

«Lungo la strada / di montagna, / non c’è nessuno. / Solo i cespugli / spettinati e bagnati…»: nei versi di Paola Renzi è senz'altro evidente il rapporto fondante con la terra, la natura e le radici rievocate e incastonate in versi semplici che sembrano senza tempo eppure, nei punti che ci sembrano più vibranti e meno ispirati alla tradizione letteraria, efficaci e con immagini riuscite: «Il parcheggio schiera / le sue scatole vuote…»; «Case pietrose dove / i camini non parlano.»
Si nota uno sguardo attento ai particolari, all'umanità declinata in quegli universi unici e insostituibili che sono le persone, in ogni tempo e oggi forse ancora più fragili in “armature rap”·


Due ragazzi vanno al lavoro

Ragazzi appena svegli la mattina,
il sorriso di occhi ancora sonno,
e mani in fiamme, callose di lavoro.

Aprite il rubinetto e vi vestite:
di tenere armature poco adatte,
forse qualcuno vi ha fornito.

O è la vostra, che vi siete intessuta
di rap, fibra di rete adamantina
e sporca di nottate in birreria?

Ce la farete certo: un po’ di musica,
una canna, qualche ora all’Harry’s Bar
e via ritorno, la sveglia la mattina suona.

Lui cappello calato sulla testa, discorre
un saluto dalle scale e lei ti guarda,
con un sorriso in veste azzurra e oro.


Non c’è nulla

Io gelosa
dei miei luoghi?
Pochi oltre a me
li hanno visti, credete.
Non c’è nulla
che valga davvero
la pena di andare
fin là, per vedere.

Vedere che cosa?
Acqua di ruggine
fredda dal tubo
discende e si ferma.
Case pietrose dove
i camini non parlano.

L’asse su due mattoni
per fare una panca.
Un’oasi dove donne
ti guardano ovali
e pensose, vestite
di nero, col braccio
poggiato alla testa.

Ecco spaccata, la lapide
dell’impiccato si volta!
Ti sfiora il colchice,
con il suo fresco sorriso:
lì dove sei, non c’è porta.










Cvetaeva

Poeta mangiatrice di visioni,
le risputi a palle di cannone.
All’orizzonte divampano
Bagliori nella notte,
polveri nere di precognizioni.

Le rumini come fa la mucca.
Prima del giorno, sassi le rigetti
e secche rimbalzano nell’acqua.
Picchi la terra col bastone
e butta la fonte.

Hai sete, non bevi e te ne vai.
Un fragore di rocce scoppia,
di fiori appena nati,
sorridono alla strada.



Una cena inusuale

A tavola consumando
carne festiva
al sapore di ginepro
e nel camino la brace
scoppiettante.
Col pane si compiva
un giro lungo
intorno al piatto.
Sorrisi nel buio
improvvisi
spalancano la porta:
bellezze innominabili
e di felicità irruente
invadono la stanza.


Faiè

Dopo l’erta camminata
nel bosco, si arrivava
al verde prato, radura
vellutata, dove potevano
occhieggiare piccoli
cappelli bruni.

Ma prima si andava
a cercare l’acqua.
Sorgente un po’ ostruita
dalle foglie, con la mano
la pulivi per farla respirare.
Il fiato d’acqua ritornava
e una nuvola torbida
intorno si allargava.

Nell’attesa all’ombra
un brivido fresco,
già prima di bere,
intatte ci avvolgeva.

Si sfilava il pane dalla carta
mentre il sole alto,
dall’alto monte ci scaldava.


Sultano

Un nome affascinante
per un cane.
Al mattino era lui
che ti svegliava.
Al carretto lo legavi
e forte tirava.
Portava il peso vuoto
dei bidoni, ballare
nella strada.
Ma poi di latte
li riempivi e lui sudava.
A bocca aperta, ma tirava,
il tuo fedele amico,
nella piana bassa di Varano.


La miniera

Il vento della Manica
ti diede voltastomaco,
ma peggio fu discendere
lungo il cratere nero.

Al piccolo pony amico
era affidata intera,
la giovane scorza dura
tutta da custodire,
nel tempo senza sole
angusto della miniera.


Una vicina di casa

Lei, viso di bambola
mi guardava tenere
in braccio, l’oggetto
bello e prezioso.

Sotto distese onde
di morbida stoppa,
si chiudevano secchi,
occhi mobili e neri
su gote arrossate.
Una bianca fettuccia
di cuori segnava,
il panno verde e tarlato.

Seduta sugli scalini
sfioravo le mani
scheggiate e i tondi
polpacci di cartone.

Attenta a non sciupare
il nume di quella casa,
lasciato per un po’
il suo cielo di noce
e sceso con me a giocare.


Apprendere

Nella pioggia,
calciando sassi
alla strada.

Lungo i muri a secco…
seguendo itinerari
di rose d’erba,
amare e più scure
dove la mano
le schiaccia.

Su piccole cime di sole
a seguire Icaro,
farfalla azzurra nel campo.


Il lupo

È tornato!
Sui monti si muove
lungo i sentieri.

Va a cercar
la compagna
per fare famiglia.
Se guardi in su
verso il monte,
un brivido lungo
ti piglia.

Perché dopo tutto
il lupo, con gli occhi
rossi di brace,
ha anche qualcosa
che fa paura e ti piace.

Ai deserti paesi
forse lui si avvicina,
non trova nulla
e allora risale la china.

Risale la china del monte…
Vi prego, lasciatelo in pace!


Ritorno nella sera

Il cielo inatteso, di blu smeraldo
vuol far fredda ogni cosa.

Ma niente rabbrividisce
Alla luce della piccola luna,
dopo che il sole ha giocato
i suoi raggi ai bambini
nel verde giardino.

Senza di loro, morta è la terra!

Amo la nera incombenza
Di questo paesaggio
Senza variazioni,
perché so che li ospita.

Mi lascio stasera portare
Da risa di ragazzi salenti,
Al cielo profondo di sempre.

Saturo di silenzio,
chiama senza una voce,
di fremito che nasce lontano,
non odo, ma so che ci attende.



In alto

La luna ti si offre
sottile guancia,
in luce d’argento.

Per un istante
di puro pensiero,
un bacio terso vola.



Nell’orto

Piantavo semi di fiori
nella poca terra,
incurante delle unghie
sporche, per far bello il muro.

Vedevo lei nell’orto,
alzar la rossa barbabietola
scavata, scrollando
a grumi la restante terra.

Il fazzoletto sugli occhi
un po’ calato e alla nuca
stretto, sorrideva
ammirata delle radici
il fiore, già profumarsi
vedeva sulla tavola altrove.


Densità

Lungo la strada
di montagna,
non c’è nessuno.
Solo i cespugli
spettinati e bagnati,
le fronde spoglie,
madido il terreno.
Odi uno scricchiolio:
Il bosco proclama
la sua voce.

Qui in città
dentro le case,
la gente si assiepa.
Il parcheggio schiera
le sue scatole vuote
e ferme sotto l’acqua.
Perché può esser disertato
un luogo così bello
e insieme tanto popolato,
un altro reso così brutto?


Feste

Mio nonno
di Romagna,
danzava ridendo
su assi di legno.

Il bicchiere rosso
e pieno cantava,
saldo trofeo, sulla testa
del re per un giorno.

Il pianto ardente
della fisarmonica
quei semplici giochi
vibranti, cullava.


Stessa natura

Narrar vi voglio di quel capriolo
chinato il capo a terra nel saluto,
la zampa ungola a terra e chiede:
“Perché son io ed anche tu non cedi?”
Aperto il labbro, respiro di tra i denti
fattosi tutto nel parlarmi adesso
articolar in lingua più che umana,
mi pianta in faccia l’occhio,
tutto arrossato a lato e piange
come a cavarmi un cenno di parola.
“Perché sei tu ad anche io resisto?”
Di rimando a faccia la parola getto,
che tanto avrei aspettato quest’incontro,
ma se rigetto così grande la domanda,
io proprio temo il di lui fuggire.
Egli ristette e non si andò ma volse
e più vicino venne, come a cercar
ancora più umana vicinanza,
tutto compreso nel dolor che chiede
una risposta e insieme lenimento.
Il fiato suo e il mio uniti, insieme
l’aria di vapore riscaldavano nei fumi.
In quella nuova trovata comunanza,
stettero le bocche così mute e assorte,
ché nell’impossibile trovarono risposta.


«Sono una poetessa autodidatta ed estranea ai circuiti della poesia ufficiale. Scrivo da sempre e le mie poesie sono ispirate alla mia terra d’origine (Appennino Tosco Emiliano), alla natura, al processo creativo dello scrivere, alla ricerca di se stessi, al sogno, ad affetti ed incontri. Sono nata a Corniglio (PR) il 2.4.1955 e abito a Pieve Emanuele (MI) dove insegno. La mia cultura è legata agli anni ’70 e ha origini contadine ed operaie. Ho frequentato la scuola degli Artefici dell’Accademia di Brera. Ultimamente ho raccolto le mie poesie, facendo una selezione di tipo tematico» Paola Renzetti

1 commento:

manu44 ha detto...

molto belle le poesie, brava Paola
Manuela