lunedì 17 settembre 2007

Su Poema dell'esilio di Gëzim Hajdari


Fara, Santarcangelo di Romagna, 2007, v. scheda libro

Dal sito culturale «L(’)abile traccia» http://www.labileabile-traccia.com/rivista_00006d.htm



recensione di Marisa Napoli

L’explicit di ogni strofa ripete la stessa parola: “esilio”. È come se tutto il poemetto fosse una lunga enumerazione dei perché l’attuale condizione di Gëzim Hajdari (Lushnje, Albania, 1957) è tuttora l’esilio e precisamente l’esilio in Italia: “È per questo che sono in esilio, amici miei”. Ma nel verso di coda non sono enunciate solo le cause dell’esilio, bensì è articolata una variegata fenomenologia dell’esilio, con i suoi drammatici vissuti, di sofferenze, umiliazioni, rabbia, nostalgia, disconoscimenti e riconoscimenti ecc.
Sempre, in epifora, a conclusione di ogni strofa, il vocativo “miqtë e mi” = “amici miei”, l’apostrofe ai suoi interlocutori ovvero noi lettori e anche il suo popolo (almeno così lui spera) a cui si rivolge e a cui sembra fare una confessione; “È una confessione in senso agostiniano questo Poema dell’esilio, che adotta stilemi anche prosastici e non facilmente catalogabile in un genere poetico: pamphlet, elegia, lirica di denuncia?”, dice nella prefazione Alessandro Ramberti.
In realtà del poema questo libro ha i caratteri peculiari: il verso, che trasborda la misura in nome di un’esigenza narrativa-espositiva-argomentativa e che spesso rasenta l’invettiva, il sarcasmo, la denunzia. Nessuno spazio, poi, all’autocompiacimento narcisistico dell’io, piuttosto ampi scorci di lirismo puro, di accoramento, di forti sentimenti di amore (per la madre, per la patria, per la cultura) o, viceversa, di disprezzo, per chi viola i valori più radicati per interessi personali, per sete di potere, per orgia consumistica, per prostituzione intellettuale ecc.
Come in ogni poema campeggiano eroi e antieroi, e sullo sfondo, veri protagonisti l’Albania e il suo popolo, con le loro sofferenze, i loro valori, le loro tradizioni.
L’eroe, la cui unica, potente arma per denunciare gli abusi del potere è la “parola”, s’identifica col poeta che paga la sua audacia con l’esilio: “La mia unica colpa è stata di non aver accettato compromessi,/ denunciando gli abusi e i crimini del vecchio regime/ e quelli del nuovo regime di B./ sulla stampa locale e nazionale./ È per questo che mi sento felice in esilio, amici miei”.
Gli antieroi sono rappresentati dall’innumerevole teoria di politici corrotti, la vecchia nomenklatura di regime del dittatore Hoxha, che l’attuale pseudodemocrazia ha riciclato e inserito nelle maglie dell’amministrazione pubblica. Ma i peggiori, fra gli eroi negativi, sono gli intellettuali asserviti al potere. In merito, le imputazioni principali gravano proprio sui poeti di Tirana che celebrano il “palazzo” e non fanno niente per ridare dignità all’Albania.
“Ho saputo che ieri ha chiuso l’ultima libreria nella città di Kukës. A Kukës/ città delle Alpi Albanesi, non c’è più libreria. Un’intera città senza libri!/ Mentre i poeti di Tirana scrivono a pagamento, libri per gli imprenditori ladri e per i mafiosi./ Come ricompensa, gli imprenditori donano terreni e ville ai poeti di Tirana!/ È per questo che abito nel Sud dell’esilio, amici miei”.
Colpisce subito la singolarità di questo volume, che l’editore ha sottolineato con l’orientamento orizzontale della pagina, piuttosto che verticale. Questa scelta editoriale costringe a leggerlo con modalità diverse, ma anche con sguardo diverso. Le pagine pari sono in lingua albanese, le pagine dispari sono in italiano: quasi metafora della posizione geografica dell’Albania, contigua e opposta all’Italia. E dall’Italia il poeta lancia parole, parole come pietre. Sassi contro vento, proprio come recita il significativo titolo del volumetto di poesie dello stesso autore, nella bella e curata edizione del 1995, uscita a Milano nella collana “Integrazioni” del Laboratorio delle Arti. A differenza di quei versi, scabri ed essenziali, questa poesia è come un fiume in piena ma altrettanto “lapidaria”, per usare l’espressione con cui Amedeo di Sora la definisce. Già in quel testo è preannunciato il contenuto del poema: “Partiamo di notte/ dimenticando che siamo ciechi/ per raggiungere un territorio nudo/ del quale ha bisogno la nostra voce./ Andiamo al mare per parlare/ e lanciare sassi contro vento”.
Il testo bilingue sollecita a leggere con sguardo obliquo anche l’altro idioma. Si scoprono così corrispondenze lessicali a livello di suono e si comprende che il significato a cui rimandano non solo si decifra immediatamente ma veicola valori (e disvalori) su cui concorda il nostro comune sentire di cittadini europei: “diktaturës” (“dittatura”), “demokratik” (“democratico”), “nomenklatura” (“nomenclatura”), “krime shteti” (“crimine di stato”), “ezil” (“esilio”).
È un libro in progress (questa è una seconda edizione, ampliata) e verrà aggiornato di anno in anno parallelamente all’evolversi della situazione in Albania, la patria amata e crudamente radiografata dal poeta, che si immerge e ci immerge “tra le fiamme dell’Inferno shqiptar (albanese)”. Come dice Hajdari: “Questo poema è il mio testamento morale, sociopolitico e letterario. Un omaggio a tutti coloro che hanno sacrificato la propria vita in nome della libertà e un atto di accusa per tutti quelli che si sono mascherati dietro questa nobile parola, commettendo atrocità e crimini inauditi”.

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