Fenomenologia
della "poesia facile"
Dalla
neolingua alla neopoesia
Ho assistito
recentemente a una innovativa e coraggiosa trasposizione teatrale del famoso
romanzo "1984" di George Orwell, già immortalato nella
memorabile riduzione per il cinema del regista Michael Radford: inevitabilmente
uno dei temi nevralgici ripresi anche dalla pièce è stato quello
riguardante la cosiddetta neolingua inventata dall'autore
di fantascienza britannico per descrivere il lento ma inesorabile processo di semplificazione
del linguaggio, attuato dal partito del Grande Fratello, quale premessa per
una decostruzione del pensiero critico nei confronti dell'ideologia
dominante. Un'ideologia di regime bisognosa di pedine acritiche e non di uomini
e donne pensanti. Eliminare quanti più termini è possibile dal vocabolario
corrente per impedire sul nascere l'elaborazione di sillogismi e quindi di
critiche in grado di mettere in difficoltà la presa diretta del dittatore sulle
menti dei cittadini. La semplificazione del linguaggio per realizzare un più
efficace controllo del pensiero della popolazione non è purtroppo solo
un'invenzione di Orwell ma è stata nel corso della Storia anche una pratica
ampiamente applicata; alcuni esempi attualizzabili: gli slogan propagandistici,
le frasi a effetto per stupire l'elettore e parlare alla sua pancia, gli
annunci lapidari non verificabili riguardanti opere pubbliche che non verranno
mai realizzate...
È di questi giorni
l'uscita nelle librerie dell'ennesimo best seller di un noto "poeta
televisivo" che non fa mistero del proprio successo editoriale
attribuendolo principalmente alle sue doti comunicative dirette, sincere,
geo-onnipresenti, limpide, intorno a tematiche basilari, primitive,
"domestiche" e a un suo stile poetico che potremmo definire
"facile", semplificato, consolatorio, medicamentoso come la panacea
delle nonne realizzata con ingredienti casalinghi, non complessi, alla portata
di tutti. A ogni pubblicazione di questo autore ne consegue un putiferio
mediatico alimentato da critici indignati, da autori che non credono
nell'autenticità letteraria di certi successi editoriali pompati dal
marketing... A essere messa sotto accusa, ogni volta, è una non poesia
che viene spacciata per Poesia e che misteriosamente (poi mica tanto misteriosamente,
per motivi che diremo dopo!) riesce a raggiungere molti più lettori di quanto
non faccia la "poesia vera", quella riconosciuta dai manuali di
metrica e dalla storia ufficiale della letteratura; quella degli autori che
sgobbano su un verso per giorni e giorni, a volte per anni, (mentre il nostro,
a dire degli invidiosi — anzi, lo dice lui stesso! —, le sue poesiole le
concepirebbe in ascensore, in una sala d'attesa d'ospedale o in viaggio sul
treno tra un reading pubblico, una soppressata da affettare e una lectio
magistralis via Skype).
Il "poeta televisivo"
si è inventato un mestiere con cui dice di voler guarire i mali di un'Italia
interna desertica e abbandonata, un po' come faceva Giovanni il Battista,
l'ultimo profeta dell'Antico Testamento, quando nel deserto predicava l'urgenza
di una conversione prima dell'arrivo del Messia; si è inventato un folto
pubblico fedelissimo pronto a farsi battezzare dalla sua parola di fuoco (o
forse è il pubblico che ha inventato lui?) e che lo ha fatto diventare, secondo
alcuni immeritatamente, benestante e famoso. Si è inventato un modo di fare
poesia che asseconda — dal punto di vista "poetico" — i dettami di
quella neolingua orwelliana con cui abbiamo esordito in questo articolo:
semplificare il linguaggio poetico, anzi ignorarlo poetando a braccio; lasciare
ai pignoli frustrati l'irrisolta diatriba tra poesia prosastica e prosa
poetica; sintetizzare concetti complessi in immagini semplici, elementari
(sempre i maligni dicono: "da scuole elementari"),
primordiali, che parlano alla pelle prima ancora che al cervello; adottare l'accapismo
quale regola ufficiale di una neopoetica accettata dalle masse impazienti,
nevrotiche e troppo indaffarate per scervellarsi dietro i versi astrusi di
poeti onanisti, falliti, inascoltati e quindi invenduti.
Ma tutte le poesie
semplici sono anche facili? La storia letteraria della poesia
contemporanea ci dice di no: che dietro i versi apparentemente lineari di
alcuni poeti e poetesse ritenuti universalmente grandi, si nascondono abissi di
complessità interiore, labirinti esistenziali non subito rilevabili... Ma si
tratta di rarità: la maggior parte delle poesie semplici rimangono tali anche
dopo un'attenta analisi perché oltre che semplici stilisticamente sono anche
concettualmente banali.
Anni fa circolavano
delle micro-pubblicazioni di "narrativa da metropolitana": si
trattava di raccontini di poche pagine distribuiti nelle metropolitane — molti
di noi li hanno anche collezionati — e classificati in base al numero di
fermate che occorreva impiegare per terminarli. C'era il "racconto da due
fermate", quindi brevissimo; c'era quello da quattro o cinque fermate, già
un po' più impegnativo; c'era quello che durava l'intera tratta fino al
capolinea, quindi quasi al limite del racconto lungo. Quella del nostro
"poeta televisivo", secondo alcuni critici, sarebbe una poetica da
metropolitana talmente semplice e predigerita, da permettere all'uomo
qualunque di masticare facilmente temi universali e fondamentali quali il
sacro, la morte, l'amore, senza che questo si distragga mentre l'altoparlante della
metro gracchia in continuazione: "Prossima fermata: Cinecittà... Uscita
lato destro!". È una non poesia ulteriormente semplificata e a
prova di distrazione. Una non poesia che arriva subito, che consola,
guarisce, coccola, soccorre; che unguenta l'animo ferito delle donne, che unge
la fronte e le mani dei moribondi con l'olio santo dell'ovvietà, che agevola i
processi riparativi dello spirito offeso, che spiega il sacro — quello
elementare, quotidiano — alle "menti protozoarie" e distratte di
questa società allo sbando e senza più punti di riferimento.
Una domanda, però, mi
perseguita: se la neolingua orwelliana era prodromica a una semplificazione del
pensiero (e quindi al suo controllo) per fini politici e ideologici, la
neopoesia del "poeta televisivo" a quali processi sociologici
predisporrebbe? In fin dei conti politica e poesia parlano entrambe
all'umanità: la prima lo fa pubblicamente, la seconda dovrebbe farlo in
privato. Sono due rami derivanti dallo stesso tronco comunicativo: la semplificazione
di questi due linguaggi nasce dall'esigenza generalizzata di raggiungere senza
troppi sforzi il controllo di un consenso popolare (socio-politico o
sentimental-poetico poco importa!) per fini elettorali o editoriali. "È
la poetica di Twitter, bellezza!".
I due tipi di
semplificazioni sono sintomatici di un'unica situazione culturale generalizzata
in cui l'obiettivo emotivo ha definitivamente prevalso sulla forma. Il
"verso libero" è stato frainteso: le poche regole sottintese che lo
tenevano in piedi nel mondo dei grandi, sono state tradite dalle urgenze
comunicative del "poeta televisivo" a cui scappa l'aforisma poetico
suggerito dall'ipocondria, il pensierino albeggiante dettato dall'insonnia, il
culto di sé e dei propri malesseri, la puntuale prosetta sentimentale e
fintamente profonda sul fatto di guerra o sull'ennesima tragedia del mare... È
un'instant poetry di successo, che ha presa sui cuori di chi ha bisogno
di essere confortato subito, non domani, non dopo studi approfonditi sul
significato dei versi letti. Anche il "poeta televisivo" asciuga il
testo, lo semplifica, lo snellisce ulteriormente per penetrare — come un agile
slogan — ancor più velocemente nella mente di chi, per pigrizia, resiste alla
sua lettura; lascia fuori dalla pubblicazione pagine di testo che poi ricicla
sui social. Asciugare il testo, compiere feroci auto-editing, sono le
prime virtù di uno scrittore: l'importante è non semplificare per convincere
più facilmente, per diventare a tutti i costi prodotto democratico,
popolare, "piacione".
Ma perché prendersela
con il "poeta televisivo" per questa sua scelta stilistica vincente e
che non fa nient'altro che cavalcare coerentemente una situazione già in
fieri da decenni? Perché criticare l'offerta furba se è la
domanda del pubblico a essere debole? Perché criticare certi autori se sono
le case editrici per prime — per motivi economici e facendo pressione affinché
la scuderia di parolieri sforni robetta con cadenza semestrale — a
veicolare le loro "opere facili" cavalcando la richiesta impreparata
e bisognosa di semplificazione di un pubblico che non ha letto nient'altro che
la neopoesia del "poeta televisivo"? Perché incolpare gli autori dei
programmi televisivi del nostro vergognoso palinsesto generalista in prima
serata, se sono i telespettatori seduti sul divano, con il loro influente ditino
sul telecomando, a determinare lo share e quindi a compiere una precisa
richiesta qualitativa riguardante anche i futuri programmi? E sento già voci,
dal fondo della stanza, tirare in ballo le responsabilità educative e
propositive della scuola, dell'università, della famiglia, della Chiesa...
Degli alieni.
La ricerca, da parte
del lettore, di qualcosa di superiore nasce dal confronto, anzi dai
confronti che dovrebbero essere continuativi, innumerevoli, complessi,
eterogenei, esigenti. Quando non esiste una consapevolezza derivante dal
confronto, qualsiasi spacciatore di "bugiardini da metropolitana" può
diventare medico e farmacista delle anime sofferenti dei lettori.
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versione pdf: Fenomenologia della “poesia facile”. Dalla neolingua alla neopoesia
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Michele Nigro, nato nel 1971 in provincia di Napoli, vive a Battipaglia
(Sa) dal 1978. Si diletta nella scrittura di racconti, poesie, brevi saggi,
articoli per giornali e riviste. Ha diretto la rivista letteraria “Nugae
– scritti autografi” fino al 2009. Ha partecipato in passato a
numerosi concorsi letterari ed è presente con suoi scritti in antologie e
periodici. Nel 2016 è uscita la sua prima raccolta poetica – che ama definire
“raccolta di formazione” – intitolata “Nessuno nasce pulito” (edizioni
nugae 2.0). Ha pubblicato “Esperimenti”, raccolta di racconti; il
mini-saggio “La bistecca di Matrix”; nel 2013 la prima edizione del
racconto lungo “Call Center”, nel 2018 la seconda edizione “Call
Center – reloaded” e la raccolta “Poesie minori. Pensieri minimi”.
Nel 2019, per i tipi delle Edizioni Kolibris, viene pubblicata la raccolta di
poesie intitolata “Pomeriggi perduti” (collana di poesia
italiana contemporanea “Chiara”), che è anche il nome del suo blog. È del 2020
il volume 2 della raccolta “Poesie minori. Pensieri minimi”; nel
2021 la terza e ultima silloge dei materiali di risulta. Alcune sue
poesie sono state tradotte in portoghese, inglese e spagnolo.
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