recensione di Elena Varriale
Dopo aver letto il bel libro Immagine convessa del poeta irpino Vincenzo D’Alessio si ha la sensazione
precisa di un lampo di luce che attraversa l'aria, si specchia nel mare e si scinde
in due raggi: uno riflesso dalla superficie e l'altro rifratto dalla profondità.
Nel raggio riflesso, il verso si fa eco
di paesaggi, di solitudini e di assenze, il ritmo è incalzante, musicale, p. 14: “Tornano i lupi / sulle montagne / ovili vuoti
si cibano / di miti, muoiono solitari / nei boschi di faggi, strilla / la campana
nel borgo / sveglia nidi di passeri / unico residuo di fede”. C’è tutta la
consapevolezza dell’anima che si è specchiata in sé stessa, che ha sfiorato la
carne, la pelle, gli abissi e le risalite, nutrendosi solo di elementi
naturali, p. 62: “Respira in me il
falco / con il cuore di uomo / l’urlo della tempesta / il fuoco nel sole / saetta nelle
nubi / dove il mondo mostra / un limite di luce”.
Lo scrittore catalano Joan Fuster ha
scritto: “Perché l'occhio possa
vedere sé stesso ha bisogno di uno specchio. Anche la coscienza ne ha bisogno.
Noi vediamo e conosciamo noi stessi solo guardandoci negli altri.”
E in questo gioco di riflessi, il
verso di D’Alessio dialoga e cerca gli altri per rivelare il senso proprio
della vita e della storia, p. 20: “Ti vide
salire i gradini / del ritorno l’uomo nuovo / l’ombra di tuo nonno”. La
circolarità dell’esistenza che si rinnova donando la vita.
Infine, nel riflesso del verso c’è
sempre il riverbero di un dolore che trafigge senza dare pace: la perdita del
figlio a cui il libro è dedicato, l’innaturale destino che Dio ha consegnato al
poeta, p. 34: “Ho spento un mare / di lacrime
nel vuoto / della solitudine e tu / hai sorriso sul filo / del tramonto / dal suolo
sono nati / figli i tuoi suoni”.
Nel libro
prende poi forma, consistenza un raggio rifratto che si spezza, devia, si
espande e sfiora i confini del mondo, dove il verso si fa specchio del reale.
Le immagini convesse raccontano allora il tormento di chi non sa dare
spiegazione all’orrore umano dei campi di concentramento, p. 40: “Non ho mani / d’argento e cumuli / di stelle
per accoglierti / bambino di Auschwitz / vulcano di cenere”, all’ingiustizia di
chi è nato nel Sud e deve convivere ogni giorno con l’impotenza, l’immutabilità
del sistema sociale e di potere, con la bellezza struggente di una terra abitata
anche da demoni, ombre, paure, silenzi. Si fa un vero e proprio grido o canto
dell’anima, p. 22: “c’era un Cristo appeso
al legno / un bell’organo a sostegno / dagli antichi canti corali / gente vecchia che
intonava / tragico blues meridionale”.
Ma il Sud,
non può che richiamare il pensiero di un altro Sud: quello dei disperati,
quello di chi non ha nulla oltre la sabbia e la violenza tribale, quello di chi
affronta i pericoli di una traversata su uno scafo o su un gommone, con la
speranza nel cuore e la paura negli occhi. Il verso di D’Alessio si riempie così
d’umanità, di amore, di rispetto e si fa richiesta, preghiera, anelito,
speranza nella speranza, p. 36: “Ti chiedo
un sogno / che sfiori le cime / si tuffi negli occhi / di cristallo del
fiume / abbracci gli ordini / diroccati delle chiese / un soldo di sogno che / sfami il
terrore di chi / viene dal mare”.
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