Pablo López-Carballo, La precisione dell'indifferenza, Carteggi Letterari 2016, testo spagnolo a fronte, traduzione di Lorenzo Mari, disegni di Francesco Balsamo, nota di Sergio Rotino, pp. 112, € 14,00
recensione di AR
La versificazione di Pablo López-Carballo è precisa nella sua apparente indifferenza (come suggerisce il titolo dato a questa avvincente antologia che raccoglie poesie tratte da tre raccolte dell'Autore: Su alcune rovine incontrate, Chi manda uno e La dittatura della prospettiva). La sua poetica mi pare giocata, più che sull'indifferenza, su una stoica atarassia unita comunque a una ironica (e quindi a suo modo partecipe) lettura della realtà, delle nostre pulsioni, dei nostri rigiri mentali, di quanto è accaduto (e rovinato) e accade e potrebbe accadere magari in modo un po' diverso. Il poeta stesso si ritova tuttavia per le mani un linguaggio destrutturato (riflesso di una una terra e di una umanità in decomposizione?) e paratattico ma anche mercuriale e inquietante (“Imporre dei limiti implica / una certa instabilità emozionale”, I panorami non sono più quelli di una volta, p. 15) che si offre ad orecchi oggi perlopiù distratti e poco vogliosi di ascolto (v. ad es. a p. 9): “I simboli, ripeto, non sono altro / che rovine le rovine dovrebbero essere / rovine e su queste ancora altre parole / che le abitano saturando ogni spazio aprendolo: / nomadi tra pietre.”
Parole nomadi che riempiono i vuoti di un mondo rovinato… e lo stesso poeta può correre il rischio di pronunciare parole vuote per cui deve farsi pozzo e raccogliere le vene d'acqua migliori, con pazienza, con fatica, con umiltà: “Guardare dentro alla poesia / farla inciampare quella è veritcale / o quasi. / Innalzarla scoscesa / (…) / cartografarla ma presto / si diluisce si allaga” (p. 11).
Frequenti le immagini spiazzanti che solleticano con finezza il nostro pensiero e lo turbano: “… Contrappongo / il lago e l'autostrada / ma in realtà sono uguali / mancano di altezza. …” (p. 25); “Ridotte linee rette tra le cinture, / acceleratore di parabole. Nel letto / ti dibatti appena pescata. Sconforta / vedere come ti essicchi …” (p. 31);
“… Si stupisce / della fluidità umana / l'acqua nel suo cammino / verso il sottosuolo.” (p. 35); “l'aria senza polmone non è aria / è corteccia che si rompe / sullo schermo, filo e plastica / come in frattura.” (Saltare dopo l'aria, p. 49); “non sono abbastanza pieno / per scoppiare di ambiguità, d'iconografia / oppure d'afflizione e veemenza.” (dalla raccolta Chi manda uno, p. 57); “Paolo Uccello morì, come pochi muoiono, / per aver troppo guardato. Seppellirono / il suo corpo quando ormai non era più al suo interno” (dalla raccolta La dittatura della prospettiva, p. 67).
Il poeta sa che abbiamo tutti una ferita, che è solo nostra, solo da noi percipita in quel modo anche se può assomigliare alla ferita di altre persone: “La ferita ti accompagna / non puoi separarla da te / se l'ignori sanguina. È principo / e fine. / Non tutte sono la stessa, / possono assomigliarsi, non ce ne sono due uguali. / Altrimenti tutto sarebbe simbolico.” (p. 41).
C'è un desiderio di presenza, di presenze che durino “oltre”: “Dammi più vita per raggiungerti.” (Casa al fiume o allucinazione della presenza, p. 75); “La mia mano che rimesta nel tuo stomaco. La mia mano che rigira / nel tuo stomaco. Commuove non sapere dove va questo spazio.” (In cammino per altrove, p. 77); “Lasciamo / le reti sul pantano, / prorogando / la decisione di vivere per episodi / oppure nella contingenza.” (ivi, p. 81).
La realtà ci si presenta liquida e sfuggente eppure in fondo anche fascinosa e stimolante (se si adotta un approccio zen): “Tutto si adombra quando lo guardo. Definire / come strisciare tra somiglianze. Nella carenza / resto quieto. Aggiusto i parli / e appare il paesaggio. / (…) / Dolgono anche a me gli oggetti.” (Allucinazione degli appezzamenti, p. 83).
Il poeta leonese è tendenzialmente anguilloso, ci immerge in paesaggi laterali, lascia alla parole molteplici via di fuga sintattiche e semantiche, un po' provoca e un po' si ritrae, pare avere sempre un sorriso orientale e parla con levità di cose non da poco – sì a volte gioca in primis con sé stesso lasciando comunque sottoraccia vene di nostalgia, malinconia e frustrazione che vanno a insinuarsi nelle viscere e stimolano una presa di coscienza, una reazione: “torniamo a tollerarci di nascosto. / Chiunque si avvicini / lasci la porta nel silenzio. Il suono / è un punto di fuga, uno strascinarsi fuori / dalla poesia. Calce per i volti. Contropotere degli oggetti / per allontartene.” (ivi, p. 85); “… Ormai le cose si fanno soltanto / non si descrivono. // Coltiviamo l'ignoto per timore di perderlo, / (…) / guardare è proiettarsi?” (Cestello, p. 87); “Indicammo i percorsi: / quelli di andata erano chiari, / quelli di ritorno no. / (…) / Alcune cose non cambiarono mai, / continuammo a ucciderci, pochissimi frenarono la voglia / (…) / il vento smise di essere strada di emancipazione / per travasarsi nei cuscini. / (…) / Tenemmo tutto, quando non avevamo nulla, nelle cose / affinché ciascuna fosse qualcosa di più. Così l'immaginario / e quello che vedemmo erano la stessa cosa e parlavano, anche / di qualcos'altro.” (Tirare il filo, pp. 91 e 93, da questo lungo e partecipe poema che chiude il libro, è tratto anche il verso, a p. 95, che appare nel titolo di questa recensione).
Come osserva nella postfazione Sergio Rotino, c'e in questo libro “una ipotesi di teoria del palinsesto. Una visione del presente, che sorvrascrive quanto resta del passato…” (p. 105). Fose più che sovrascrivre, López-Carballo ci invita a renderci consapevoli della odierna condizione umana, fatta di virtualità omologanti che tentano di ingabbiare tutto e tutti, di glossolalia che cerca di riempire il vuoto con il vuoto a cui possono/devono porre il loro argine, minimo forse ma imprescindibile, tutti coloro (e in prima linea i poeti) che sanno la forza delle parole (perché l'hanno provata intensamente, fino a ustionarsi, sulla loro pelle), sanno che chi parla è responsabile di quanto dice, che i fatti e le scelte incidono sulla vita di ciascuno e sull'intero ecosistema, che si può proseguire il cammino solo ricostruendo, reintrepetando in modo nuovo e creativo le rovine del passato, riconoscendoci reciprocamente esseri umani degni di attenzione, rispetto e cura (rispetto che dobbiamo anche al nostro pianeta), può sembrare tardi ma il poeta mantiene un filo di speranza: “Adesso è tardi per far sì che tutto esploda. / Tardi forse per lamentarsi, per decidere. / Tardi per molte cose ma non così tante / da rinunciare a sapere / a che scopo / sia tardi. // Ci sono declivi che confermano / l'esitenza. Siamo stati qui, / questo è un segnale, una tacca di presenza. / Ora iniziamo a sparire.” (ivi, p. 99).
Il poeta sa riconscere le “tacche di presenza” anche se molto profonde e nascoste e dolorose. E lancia come un faro lampi di luce che indicano il pericolo del naufragio. Siamo sicuri che qualcuno ne terrà conto. Le parole vere trovano prima o poi orecchi attenti.
recensione di AR
La versificazione di Pablo López-Carballo è precisa nella sua apparente indifferenza (come suggerisce il titolo dato a questa avvincente antologia che raccoglie poesie tratte da tre raccolte dell'Autore: Su alcune rovine incontrate, Chi manda uno e La dittatura della prospettiva). La sua poetica mi pare giocata, più che sull'indifferenza, su una stoica atarassia unita comunque a una ironica (e quindi a suo modo partecipe) lettura della realtà, delle nostre pulsioni, dei nostri rigiri mentali, di quanto è accaduto (e rovinato) e accade e potrebbe accadere magari in modo un po' diverso. Il poeta stesso si ritova tuttavia per le mani un linguaggio destrutturato (riflesso di una una terra e di una umanità in decomposizione?) e paratattico ma anche mercuriale e inquietante (“Imporre dei limiti implica / una certa instabilità emozionale”, I panorami non sono più quelli di una volta, p. 15) che si offre ad orecchi oggi perlopiù distratti e poco vogliosi di ascolto (v. ad es. a p. 9): “I simboli, ripeto, non sono altro / che rovine le rovine dovrebbero essere / rovine e su queste ancora altre parole / che le abitano saturando ogni spazio aprendolo: / nomadi tra pietre.”
Parole nomadi che riempiono i vuoti di un mondo rovinato… e lo stesso poeta può correre il rischio di pronunciare parole vuote per cui deve farsi pozzo e raccogliere le vene d'acqua migliori, con pazienza, con fatica, con umiltà: “Guardare dentro alla poesia / farla inciampare quella è veritcale / o quasi. / Innalzarla scoscesa / (…) / cartografarla ma presto / si diluisce si allaga” (p. 11).
Frequenti le immagini spiazzanti che solleticano con finezza il nostro pensiero e lo turbano: “… Contrappongo / il lago e l'autostrada / ma in realtà sono uguali / mancano di altezza. …” (p. 25); “Ridotte linee rette tra le cinture, / acceleratore di parabole. Nel letto / ti dibatti appena pescata. Sconforta / vedere come ti essicchi …” (p. 31);
“… Si stupisce / della fluidità umana / l'acqua nel suo cammino / verso il sottosuolo.” (p. 35); “l'aria senza polmone non è aria / è corteccia che si rompe / sullo schermo, filo e plastica / come in frattura.” (Saltare dopo l'aria, p. 49); “non sono abbastanza pieno / per scoppiare di ambiguità, d'iconografia / oppure d'afflizione e veemenza.” (dalla raccolta Chi manda uno, p. 57); “Paolo Uccello morì, come pochi muoiono, / per aver troppo guardato. Seppellirono / il suo corpo quando ormai non era più al suo interno” (dalla raccolta La dittatura della prospettiva, p. 67).
Il poeta sa che abbiamo tutti una ferita, che è solo nostra, solo da noi percipita in quel modo anche se può assomigliare alla ferita di altre persone: “La ferita ti accompagna / non puoi separarla da te / se l'ignori sanguina. È principo / e fine. / Non tutte sono la stessa, / possono assomigliarsi, non ce ne sono due uguali. / Altrimenti tutto sarebbe simbolico.” (p. 41).
C'è un desiderio di presenza, di presenze che durino “oltre”: “Dammi più vita per raggiungerti.” (Casa al fiume o allucinazione della presenza, p. 75); “La mia mano che rimesta nel tuo stomaco. La mia mano che rigira / nel tuo stomaco. Commuove non sapere dove va questo spazio.” (In cammino per altrove, p. 77); “Lasciamo / le reti sul pantano, / prorogando / la decisione di vivere per episodi / oppure nella contingenza.” (ivi, p. 81).
La realtà ci si presenta liquida e sfuggente eppure in fondo anche fascinosa e stimolante (se si adotta un approccio zen): “Tutto si adombra quando lo guardo. Definire / come strisciare tra somiglianze. Nella carenza / resto quieto. Aggiusto i parli / e appare il paesaggio. / (…) / Dolgono anche a me gli oggetti.” (Allucinazione degli appezzamenti, p. 83).
Il poeta leonese è tendenzialmente anguilloso, ci immerge in paesaggi laterali, lascia alla parole molteplici via di fuga sintattiche e semantiche, un po' provoca e un po' si ritrae, pare avere sempre un sorriso orientale e parla con levità di cose non da poco – sì a volte gioca in primis con sé stesso lasciando comunque sottoraccia vene di nostalgia, malinconia e frustrazione che vanno a insinuarsi nelle viscere e stimolano una presa di coscienza, una reazione: “torniamo a tollerarci di nascosto. / Chiunque si avvicini / lasci la porta nel silenzio. Il suono / è un punto di fuga, uno strascinarsi fuori / dalla poesia. Calce per i volti. Contropotere degli oggetti / per allontartene.” (ivi, p. 85); “… Ormai le cose si fanno soltanto / non si descrivono. // Coltiviamo l'ignoto per timore di perderlo, / (…) / guardare è proiettarsi?” (Cestello, p. 87); “Indicammo i percorsi: / quelli di andata erano chiari, / quelli di ritorno no. / (…) / Alcune cose non cambiarono mai, / continuammo a ucciderci, pochissimi frenarono la voglia / (…) / il vento smise di essere strada di emancipazione / per travasarsi nei cuscini. / (…) / Tenemmo tutto, quando non avevamo nulla, nelle cose / affinché ciascuna fosse qualcosa di più. Così l'immaginario / e quello che vedemmo erano la stessa cosa e parlavano, anche / di qualcos'altro.” (Tirare il filo, pp. 91 e 93, da questo lungo e partecipe poema che chiude il libro, è tratto anche il verso, a p. 95, che appare nel titolo di questa recensione).
Come osserva nella postfazione Sergio Rotino, c'e in questo libro “una ipotesi di teoria del palinsesto. Una visione del presente, che sorvrascrive quanto resta del passato…” (p. 105). Fose più che sovrascrivre, López-Carballo ci invita a renderci consapevoli della odierna condizione umana, fatta di virtualità omologanti che tentano di ingabbiare tutto e tutti, di glossolalia che cerca di riempire il vuoto con il vuoto a cui possono/devono porre il loro argine, minimo forse ma imprescindibile, tutti coloro (e in prima linea i poeti) che sanno la forza delle parole (perché l'hanno provata intensamente, fino a ustionarsi, sulla loro pelle), sanno che chi parla è responsabile di quanto dice, che i fatti e le scelte incidono sulla vita di ciascuno e sull'intero ecosistema, che si può proseguire il cammino solo ricostruendo, reintrepetando in modo nuovo e creativo le rovine del passato, riconoscendoci reciprocamente esseri umani degni di attenzione, rispetto e cura (rispetto che dobbiamo anche al nostro pianeta), può sembrare tardi ma il poeta mantiene un filo di speranza: “Adesso è tardi per far sì che tutto esploda. / Tardi forse per lamentarsi, per decidere. / Tardi per molte cose ma non così tante / da rinunciare a sapere / a che scopo / sia tardi. // Ci sono declivi che confermano / l'esitenza. Siamo stati qui, / questo è un segnale, una tacca di presenza. / Ora iniziamo a sparire.” (ivi, p. 99).
Il poeta sa riconscere le “tacche di presenza” anche se molto profonde e nascoste e dolorose. E lancia come un faro lampi di luce che indicano il pericolo del naufragio. Siamo sicuri che qualcuno ne terrà conto. Le parole vere trovano prima o poi orecchi attenti.
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