Claudia
Piccinno, Ragnatele cremisi, Il cuscino di stelle edizioni, Pereto,
2017.
recensione di LorenzoSpurio
Una delle
caratteristiche che denotano la poesia di Claudia Piccinno, assieme allo
spiccato interesse verso il sociale, è l’anamnesi del mondo circostante che
fuoriesce da uno piglio descrittivo attento e da un’osservazione partecipata,
premurosa verso le forme, le dinamiche e i rapporti che legano l’essere in
quanto tale al vasto contenitore di cui è parte, il popolo.
Il punto d’analisi
è quello di una donna matura dotata di prodigalità e fiducia verso il bene e
forte di credenze, punte di diamante che svolgono, per mezzo dell’opera
poetica, anche una curiosa funziona pedagogica o comunque di monito alla
riflessione. Nella poesia “Al davanzale di Dio”, sorretta da un rapporto ben più
materico di quanto si possa intendere con la divinità, la Nostra così scrive: “Esitante
e guardinga/ nell’incedere randagio/ solco i mari della memoria”.
Basterebbero questi pochi versi, dalla struttura lineare e dall’adozione di una
sintassi semplice e al contempo ricca di significati, per rendere in maniera
concreta il procedimento visivo e attuativo della poetessa: come vede e come si
comporta o, in sintesi, chi è. Mi sento di dire, proprio per questo motivo,
che, al di là dei rimandi a vicende di cronaca o della buia attualità che
riguardano noi tutti, nelle sue poesie fuoriesce distintamente, al di là dell’empatia
col narrato, la vera inclinazione emotiva, sensoriale, affettiva, di una donna
che non ha a cuore il semplice bene personale, l’effimero o il ristretto mondo
che la concerne, ma l’universo tutto.
L’incedere
non è sempre retto e privo di falle, ma è di varia natura, a seconda delle
realtà con le quali viene a confidenza; il deambulare apparentemente vago od
ondivago non si ascrive a un randagismo conoscitivo, vale a dire di sbandamento
o di perdita di consapevolezza, piuttosto sembra essere l’unica andatura
realmente possibile, in uno scenario sì complesso e vorticoso di vicende
collettive che non solo chiamano all’enunciazione ma necessitano una vera
condanna.
Tra
le varie liriche, spesso dal ridotto numero di versi, sfilano immagini di un
passato felice che si ricorda con piacevolezza nonché momenti amorosi e di
condivisione, resi sempre mediante la scelta di un lessico comune e un ricorso
oculato a immagini-simbolo che possono avere una plurima lettura.
L’esperienza
sensoriale umana è tracciata da Claudia Piccinno in modo puntuale a rendere
molte sfumature e derivazioni dell’amore, del tormento, del dolore per la
perdita di qualcuno, non celando neppure la realtà della debolezza umana o la
persistenza di episodi di violenza e dell’abuso (“Non aveva peso/ il suo
corpo”) con una singolare fascinazione a sprazzi per l’elemento cromatico
che ritorna nelle sue tonalità e negli scontri o sbalzi cromatici.
Varie
poesie hanno come retroterra ispirativo quello del conflitto armato, momento di
cruciale violenza tra razze e popoli capace di rompere anche l’ordine naturale:
“tra morte e distruzione/ di un giorno che non nasce”. Dinanzi all’obbrobrio
della crudeltà umana il cielo è come se non volesse comparire, impossibilitato
a farlo, per non dar luce a quel palcoscenico di morte. Il sipario sulla strage
ha da restare chiuso, privo di luci della ribalta, lontano da presenze e
minacce, ma ciò è pura utopia e l’inciviltà dilaga nelle immagini apocalittiche
dei “resti scomposti” dei bambini siriani così come negli occhi neri
delle giovani spose-bambine, ormai divenuti inani e inespressivi “schegge d’ebano”.
L’inquietudine
si affievolisce e, dunque, come scrive la nostra, “trova pace” solo
mediante un’azione decisa e consapevole, “senza se e senza ma” dacché,
per usare altri versi particolarmente significativi, “il coraggio si
sperimenta”. Rarità nei costumi di oggi dove è più facile mostrare l’intenzione
al coraggio che è patina di una vigliaccheria senza pari.
Una
poesia dai toni agrodolci, sicuramente molto riflessiva, che non conosce la
scontatezza delle immagini che pullulano in tanta poesia d’oggi dove la
ricercatezza espressiva, anche dinanzi a materie non sempre lievi, risulta
rimarchevole al punto da invitare lo stesso lettore a carpire o a domandarsi più
argutamente sui velati significati dei testi, qualora essi non siano
palesemente fruibili. Identità e coscienza collettiva, memoria e ricerca di sé,
confessione e radiografia sentimentale consegnano al lettore avido di
circospezioni poematiche e contenuti consistenti, un volume che non ha nulla di
bellettristico e che s’iscrive a pieno nei fasti della poesia contemporanea che
s’interroga e sa comunicare anche quando non dice: “Linfa nuova/ porta il
mattino/ e rimescola le ansie/ dell’insonnia”.
Jesi,
01-06-2017
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