Assolo per mia madre, Edizioni L’Arca Felice, Salerno, 2014, pp. 45, s.i.p.
recensione di Marco Furia
Con Assolo per mia madre, Maria Pina Ciancio propone un (amorevole) tono espressionista la cui evidente cifra
verbale è la pronuncia “mia madre” ripetuta più volte nel corso della raccolta.
Un espressionismo composto,
capace di sfiorare sentimenti ed emozioni.
Ho usato, non a caso, il verbo
“sfiorare”, poiché la delicatezza mi sembra qualità tipica di una
versificazione che si posa, quasi
fosse una timida farfalla, sul suo argomento
con la preoccupazione di sciuparlo.
Siamo dinanzi a una scrittura
molto sensibile, ricca di elementi interni
ed esterni, tale da porre in essere un’immagine come
“Cerchiamo insieme
il tempo del sole e delle
stelle”.
Qui la sequenza poetica pare
arrestarsi all’improvviso per permettere al nodo della lingua di sciogliersi in
sembianze cosmiche ma anche umane.
Il “tempo”, il “sole” e le
“stelle” fanno parte della nostra vita e i loro reciproci rapporti sono degni
di attenta ricerca e grande ammirazione: un’ammirazione che, per la nostra
poetessa, consiste nell’affettuosa capacità di alzare lo sguardo lasciandosi
illuminare dal corso del pensiero.
Notiamo, poco oltre, l’emergere
di una vera e propria attitudine esplorativa:
“Entriamo e usciamo dal giorno
annodando tra le dita
la storia del nostro viaggio inesplorato”.
Il “giorno” è uno spazio in cui entrare e da cui uscire e
le “dita” annodano la storia della stessa esistenza.
Un’esistenza che, per Maria Pina,
è “viaggio inesplorato”, ossia percorso tendente a raggiungere maggiore
consapevolezza ma, in sé, non spiegabile.
Perché viviamo?
Domanda priva di risposta alla
quale la poesia può accostarsi per via di un linguaggio che nell’allusività del
cenno mostra la propria feconda indole.
Quando la logica incontra
ostacoli insormontabili, il dire poetico viene in aiuto: occorre, però, saperlo
ascoltare.
Si legge a pagina 19:
“Io stringo tra le dita la mia
piccola storia e i
segreti dello sguardo. Quelli che
non dico e che lei sa”.
Simile vivida messinscena, in cui
al segreto non svelato si unisce l’affettiva soluzione del medesimo da parte di
un’altra persona, invita a prendere atto di come la via della conoscenza non
sia unica: la quarta di copertina, non a caso, reca impresse, le parole
(scritte in corsivo)
“La poesia è l’esperienza di una
soglia,
dello stare nei difficili confini
del chiaro e dello scuro”.
E se non soltanto la poesia, ma
l’umano esistere tout court fosse “esperienza di una soglia”?
Sono propenso a credere che tale aperto quesito sia sotteso a una
versificazione che non tende a fuggire in un altrove pur assiduamente richiamato: lo spazio poetico, davvero,
non è compreso entro normali confini.
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