martedì 3 dicembre 2013

Sui versi di Francesco Filia in Labyrinthi Vol. 3 e altrove

AA.VV., Labyrinthi. Vol. 3 
a cura di Ivan Pozzoni
Limina Mentis, 2013
recensione di Vincenzo D'Alessio 



Nell’Antologia Poetica, curata da Ivan Pozzoni, è stata accolta una composizione del poeta Francesco Filia, dal titolo Le cose a pagina 85. Ancora una voce meridionale e meridiana che riscuote consensi. La sua raccolta La neve – edita da Fara nel 2012 – sarà presentata al pubblico milanese proprio in questi giorni. Quale meraviglia porterà la neve del Nostro nel Nord innevato?

La meraviglia del dialogo umano con le cose che ci circondano. Nel segno del pensiero greco che si è alimentato in questa bellissima parte dell’Italia che è il Sud. Permane l’ascolto della voce, o del coro, degli innumerevoli nomi delle “cose ”che ci circondano. È proprio il meravigliarsi, lo stupore di fronte alle cose, il percepire le tonalità dei colori e dei suoni che hanno plasmato dopo Aristotele la filosofia dell’Occidente. Un pensiero che è il pensiero del dialogo con il Creato e il fine ultimo al quale giungiamo mentre si vive: la libertà dell’essere.

L’autore ha testimoniato ampiamente questo percorso nella raccolta La neve quando scrive: “Correvamo con la neve in tasca per paura che svanisse ”(XXII frammento, Napoli 2007). Quanta necessità ci sarebbe oggi di tornare alla meraviglia di fronte alle cose del mondo! Nella poesia contenuta nell’Antologia Labyrinthi il pensiero poetico si rifà alle categorie di un ordine reale e nel contempo immaginario: “L’ordine delle strade e dei visi”; “La regola degli elementi” – come non avvertire l’invito del poeta di tornare ai canoni della Morale che danno significato “ai gesti” alla “(…) linea che separa / un sorriso da questo ghigno”.

La violenza si è scatenata nella società contemporanea per accaparrarsi il bene utile alla sopravvivenza e all’avere di più, per sé, per i propri figli, a scapito assoluto dei figli degli altri. Senza alcun rimorso: “(…) lo strozzarsi / Delle parole sulle labbra, quando un verso non è / Più pregare”. L’accadere è incessante e inarrestabile. La forza delle parole, cose messe in ordine poetico, sembra non bastare – dice con voce forte il poeta. I tuoni della corruzione scuotono i vetri delle finestre e i bicchieri sul tavolo: la quotidianità famigliare. La famiglia giunge distrutta dalla corsa al consumo, all’industrializzazione , all’avere in nome del Dio Denaro.

“(…) Solo la disperazione del mio sguardo / il timore / che possa sul serio accadere”. Cosa può accadere ad una voce poetica tanto intensa e vera? Che il buio degli eventi nasconda la solarità del verso che lo rende meridiano. La consapevolezza di abitare una Napoli, città delle città meridionali, ricca di storia, d’Arte, di bellezza e che il bello, la meraviglia, possa morire definitivamente in una notte senza fine. Secoli di pensiero si affollano nei versi di Filia, un pensiero greco ricco di Miti, come i diverticoli sotterranei della sua città. Il filo del pensiero tiene in vita la poetica e il timore che gli ascoltatori continuino a dormire di fronte all’ineluttabile fine della vita fanno sgorgare il dialogo con le cose: “Avrei dovuto ripararlo secoli fa (…) Il rubinetto semichiuso perde / Acqua e silenzio. / (…) Nelle tenebre smaltate del lavabo: / immense, imminenti.”

L’ossimoro riporta alla filosofia della scuola di Elea: tutto scorre. Come misurare e fermare l’eternità del silenzio? L’acqua componente essenziale del nostro corpo, delle cose che ci circondano e il silenzio dell’Eternità che con noi viaggia dalla nascita. Un continuo chiederci come raggiungere: “In un baluginio di sfondi e mare: / una felicità, un attimo, una fine”. Questo ci sorprende di Francesco Filia: dare corpo al desiderio della ricerca del bello per vivere. La felicità che si affaccia nelle cose che lo circondano, nei volti che si alternano lungo strade e vicoli, nei colori, come un canto intonato dalle sirene dell’esistenza per rendere sopportabile il dolore della salita verso la montagna di luce.

“Si stacca la malta del cielo, (…) La stanza in un’assenza. (…) Non saprei dire, / distinguere una sedia dalla sua ombra / da quest’impronta sul pavimento”. I versi ci pongono con la sinestesia iniziale di fronte all’eterna ricerca del vero, dell’ontologico, dal buio di quella caverna dove imprigionato l’essere cosciente vede passare le ombre delle cose che vorrebbe toccare, conoscere. La ricerca della sapienza, la ricerca del bene che perdura, della felicità degli attimi che calmano il male di vivere.

Ma, come accade da troppi secoli, i poeti non vengono ascoltati. Essi sono degli ingannatori perché scrivono dei sogni, delle utopie, del pensiero che non si realizza. Invece è proprio in questa costante ricerca della conoscenza, so di non sapere, che Filia ci conduce con i suoi versi alle soglie della meraviglia, della felicità, del bello, fosse anche per un attimo, per un intervallo equo dalla sofferenza. L’interrogativo ci ha portato al pensiero volontario della ricerca per colmare il vuoto d’ombra dell’Eternità.

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