AA.VV. Chi scrive ha fede?, a cura di A. Ramberti, FaraEditore, 2013
di Vincenzo D'Alessio
Solchiamo le pagine inquiete dell’Antologia Chi scrive ha fede pubblicata dalle Edizioni Fara di Rimini, curate da Alessandro Ramberti, come i contadini scrutano il cielo alla ricerca delle risposte dal vento, dal sole, dal volo degli uccelli: avete notato che da un po’ di tempo a questa parte sono aumentati i rapaci? : taccole maggiori (corvi), gazze ladre e cani randagi? Tutte bestie che vivono saccheggiando i nidi di volatili più piccoli e delle tortore dal collare, che pure sono in forte crescita.
Ebbene quando il contadino arava o zappava, il proprio campo era quella la stessa terra degli avi; trascorrevano le stagioni alla stessa maniera; la fatica si ripeteva. Eppure l’attesa dei raccolti, i germogli che spuntavano lentamente, era una gioia interminabile a quel sudore dato alla terra da secoli. Davide Valecchi, nell’ascolto che diamo ai suoi versi, è paragonabile alla civiltà contadina che abbiamo rappresentato. Nella precedente raccolta: Magari in un’ora del pomeriggio (2011), pubblicata presso lo stesso editore, aveva dato prova della ricerca di un linguaggio poetico degno di fede: la costruzione della maieutica che conducesse il lettore al disvelamento della trama “del mio scrivere” (pag. 97).
Alcuni critici non sono concordi quando si prende a piene mani dal testo in esame. Noi siamo del parere che bisogna comunicare al lettore, che non ha sottomano l’intera raccolta, “la chiarità delle cose oscure”, la valenza infinita della poesia in quanto: “risposta a un’esigenza innegabile di indagine e comunicazione con piani diversi dell’esperienza della vita, dove le relazioni lineari fra spazio, tempo, luoghi, memoria, immaginazione, sogno, oggetti, suoni e parole non seguono più gli schemi della realtà contingente ma si sovrappongono e si intrecciano dando vita ad un altrove che per essere detto necessita di un linguaggio altro” (pag. 97).
“L’altrove” scandito da Valecchi è il contatto con la Natura (in greco physis), forza che ha nutrito schiere di poeti (vedi “l’inno” di Friedrich Hölderlin) dove il luogo vicino all’origine è rappresentato dalla patria a cui appartiene: “Difficilmente ciò che abita vicino all’origine abbandona il luogo”. Questo sentimento profondo di comunione con l’altrove genera “il segreto singolare” proprio della poetica dell’autore.
Scrive il Nostro nell’introduzione alla raccolta di poesie contenute nell’Antologia: “Questo piccolo viaggio cronologico all’interno della mia scrittura dovrebbe quindi, almeno nelle mie intenzioni, rappresentare la testimonianza di un percorso iniziato in età adolescenziale e che, molto prevedibilmente, è ben lontano dall’essere concluso” (pag. 97).
Il viaggio è sinonimo di esperienze, di crescita, di allontanamento dai luoghi reali o immaginari, fonti della propria gioia, dolore, incubo. La crescita è l’esercizio volontario di condividere il segreto della parola con gli altri, i lettori. La sacralità di un gesto antico come la semina e l’attesa dei germogli. La consapevolezza che il buio sotterraneo darà alla luce le essenze del seme che si è sacrificato. Quindi il gesto poetico è sacro. Sacralità che affonda nel divino, proprio come sostanza luminosa che diventa parola. Proprio come scriveva Martin Heidegger negli anni Cinquanta del '900: “Il motivo del confronto di Heidegger con Hölderlin è (…) un cammino che apre al nuovo, nuovo inteso come il das Andere, l’altro del pensiero fino adesso pensato” (T. Bettini, Sacro, spazio e divino in Heidegger, 2009).
Il primo corpo poetico di Vallecchi è datato 1993, il capoverso recita L’estate nei tuoi occhi e il luogo preso in considerazione è formato da “acque torbide / dove se ne stanno nascoste / esistenze private dei sensi” (pag. 98). Chiude il contributo in versi Ce ne vorrebbe di tempo datata 2012 (pag. 107).
In questi versi ho ritrovato il contatto con la Natura, l’uso dell’ossimoro quale disvelamento del segreto che muove la ragione poetica del Nostro: “(…) gli schianti delle pietre / triturate dal metallo alimentano / il pensiero di diventare pietra, / viva senza vita anche se fatta polvere” (Le macchine penetrano la terra, 1995, pag. 99). La poetica di Davide Valecchi è alimentata dall’energia dell’origine che ogni poeta ha nascosta in sé: “(…) Le voci dove mi trovavo allora / sono da qualche parte ad aspettare / il ritorno del suono del rimbalzo / del pallone” ( La purificazione del cielo, 2011, pag. 106). L’infanzia naturale, è il segreto del tormento di quello che siamo e che vorremmo restare, felice. Il richiamo ai colori denota l’attaccamento profondo alla vita vera. L’uso dell’enjambement regala al lettore l’energia del rogare il verso sulla carta, nel tempo indefinito dell’essere: pietre vive, leggibili.
Il tempo sospeso della ricerca è richiamato in ogni composizione, nei capoversi, dove il lettore carpisce il senso dell’immagine liquida, cangiante, nella superficie “pantha rei” del fiume della storia della Poesia: “(…) Ma è il nome del riflesso / che cambia di continuo / e sotto tutto il resto / a ruota” (Ce ne vorrebbe di tempo, 2012, pag. 107). Un racconto che continua. La levità del verso che segna nel mare delle voci poetiche il solco dell’identità.
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