“Le parole
sono virgole
o dettagli.
Non asciugano
il sudore
invece vogliono
ferire a sangue.”
Alessio Brandolini
Quello che mi colpisce e ogni volta mi emoziona nella poesia di Alessio Brandolini è il senso forte di vita che avvolge le intense immagini sgorgate da un connubio esemplare fra l’esigenza di cogliere il poetico del mondo, anche se dolente, e la parola esatta in cui esso si condensa. E mi colpisce quel suo ritmo incalzante e singolare, una musica riconducibile non tanto e non solo alla frequentazione dei grandi lirici italiani, ma alla sua irrequietezza di intellettuale e di poeta, al suo slancio verso culture e paesi diversi, al dialogo che instaura con altre letterature, soprattutto di lingua spagnola. Emblematica, in tal senso, è la sua attività di traduttore di alcuni grandi poeti, come nel libro Sordomuta, dell’argentino Jorge Boccanera, traduzione che ha vinto nel 2009 il Premio Camaiore, per la sezione internazionale.
Dalla pubblicazione della raccolta, Divisori orientali. (Premio Alfonso Gatto – Opera Prima), del 2002, a Il fiume nel mare, uscita nel 2010, assistiamo ad un percorso di vita e di poesia che, dalla terra di origine e dalla figura familiare del padre, porta l’autore verso paesaggi sempre più vasti e aperti, anche se, paradossalmente, molti testi svelano scenari claustrofobici che imprigionano l’essere in ingranaggi di gesti e convenzioni svuotati di senso.
Nell’ultima raccolta, Il fiume nel mare, l’acqua è onnipresente, accompagna l’essere dalla nascita, nel grembo materno, alla morte, nel mare che è oblio e dimenticanza. In superficie abbiamo un io lirico che, dal paesaggio urbano di Roma e dal suo Tevere, si trasferisce allo scenario della vacanza d’estate al mare. Di pagina in pagina, questo motivo è declinato in tutte le sue sfumature e articolazioni, in una sorta di diario del “percorso estivo”, tracciato – come afferma – “su fogli arancioni” (p.19):
“Restiamo immobili a dormire all’ombra
con i variopinti teli da spiaggia
i quotidiani, le riviste, i libri
e i costumi che prosciugano l’aria.” (p. 61)
La raccolta è in realtà un poemetto in cui l’io solitario, prima in soliloquio poi in dialogo, si reimpossessa di sé e del mondo, concentra la memoria e acuisce lo sguardo su tempi e spazi diversi della propria esistenza.
Se l’acqua è uno dei fili conduttori di questo viaggio esistenziale, lo è anche il dolore, nonostante il tono pacato con cui l’io lirico dipana un groviglio di sentimenti inespressi o, comunque, celati in un “silenzio stonato” (p.19). In questo senso, come ha ben notato Marco Testi, nella prefazione, sono ricorrenti immagini della passione di Cristo – “chiodi infilati nella carne” (p.22), “asole chiuse col filo spinato” (p.27), “in croce / evitati, respinti” (p.29), “spine” (p.31) – riportate al vivere quotidiano, ai rapporti che feriscono, all’indifferenza, al “male inconsapevole” (p.36) che è dentro ognuno di noi.
Il mare ravviva i ricordi, ma insieme guarisce con il suo lento incidere: “il costante frastuono / dell’onda che falcia le barche (…) Cancella i graffi / lasciati dalle spine.” (p.40) Il suo movimento sincrono aiuta a fare ordine e ad armonizzare impulsi, ricordi e sentimenti contrastanti. In realtà, il mare acquisisce lungo il testo diverse sfumature o connotazioni: può essere il rifugio che riporta all’atmosfera ovattata dell’infanzia e della casa, può essere una possibilità di viaggio, una scia luminosa all’orizzonte, un sentiero battuto da marinai e migranti, un ponte che unisce mondi lontani, un confine che separa la vita dalla morte, un abisso, una tomba liquida che seppellisce il sogno degli uomini.
Le giornate di immobilità sulla spiaggia fanno riaffiorare pensieri ed emozioni spesso sopiti nel ritmo veloce delle giornate lavorative. Il lettore si accorge subito che il tono leggero, che solitamente abbiniamo ai giorni di vacanza, non si addice al percorso in profondità compiuto dal poeta e nel quale tutto è rivisto, tutto messo in discussione, la stessa città, Roma, e suo fiume, il Tevere, la vita di ogni giorno, i rapporti consunti dall’indifferenza o dal disamore: “A mettere in discussione / questo giorno è lo spavento dello sguardo / quando la testa diventa una palla di gomma / che rimbalza da un punto all’altro del mondo”. (p.22)
Lo sguardo straniato si allarga al mondo, ai legami che stabiliamo con l’altro, alle relazioni fra nazioni, allo sfruttamento del sud del mondo, alla tragedia di guerre e miserie in tante parti del pianeta, all’inquinamento della terra e delle acque, ai viaggi dei disperati attraverso i mari del mondo: ogni cosa influisce e confluisce nell’altra. Nell’universo allargato in cui viviamo non possiamo spostare un sasso dalla battigia senza che quel gesto abbia implicazioni inattese e sempre più vaste, ora che il mondo sembra, sempre di più, un organismo vivente in cui tutto e tutti sono in correlazione.
La calma dei giorni di mare serve per risvegliare particolari trascurati della vita, lo spazio e il tempo acquisiscono nuova dimensione e le stesse figure familiari ne escono trasfigurate. Il poeta si distacca da tutto ciò che lo imprigiona e condiziona e, come il fiume si versa nel mare, mescolandosi ad altre acque fino a diventare parte del mare, egli si lascia andare alla libertà di riscoprire e di essere altro, che sia - questo altro - il familiare che gli sta vicino, il ragazzo che vende qualcosa all’uscita del supermercato, l’uomo che fugge dal suo paese, gli uomini che attraversano il Mediterraneo su battelli che galleggiano sfidando la legge di gravità. Il mutamento di orizzonti e scenari cambia prospettiva e ricordi, come afferma l’autore:
“Subito: in pratica dal primo istante
si smette di litigare con tutti
con i cani e i gatti, persino con se stessi
con i centodue fantasmi portati sulle spalle
con i mattoni e i massi che bloccano i fiumi
diretti all’Adriatico oppure al Tirreno (…).
Si sta distesi, immobili, a osservare il cielo
si aspetta il proprio turno così da mettersi
a remare nel profilo mitologico del Circeo.” (p.69)
Il grande mare insegna un ritmo diverso al tempo e rende possibile lo straniamento, acuito dal cambiamento di scenario e dalle giornate di calma apparente che aiutano l’io a vedere ogni cosa in modo diverso. La stessa città di Roma, da lontano, sembra più viva e nitida:
“Riscoprirò la mia città
sepolta dai rumori.
Le notti con i ruderi
i platani: enormi oboi
che suonano il Tevere.
E quei passi leggeri ma decisi
che scendono dai sette colli,
dai laghi, dai Castelli romani.
da secoli lontani, dai mari,
dagli oceani che non conosco.” (p. 22)
Mai vista così da vicino
città divina a testa di leopardo
per giorni ti sto addosso
mi tiro dietro lo sguardo offuscato,
il caos, gli squarci al confine urbano.” (p. 32)
Al monologo piano piano si sostituisce il dialogo, prima con un “tu” femminile, poi con un “noi” che comprende ogni essere e, soprattutto, i disperati del mondo in fuga da violenza e fame. Non è un caso la dedica posta all’incipit del libro: “Ai morti nel Mediterraneo. / In cerca di una casa, / in cerca di un lavoro”. Questa tematica, con la sua dolente attualità, diventa allora centrale per un poeta che vede la poesia come necessaria per cambiare l’uomo, per dare senso all’esistenza.
Eppure, se il mare ci riporta all’altro, se ci conduce all’incommensurabile e all’universale, il fiume è l’uomo, è l’individuo. Il Tevere, nel suo incidere verso il Tirreno e il Mediterraneo, può ben rappresentare l’io in movimento, in viaggio: “Costruisco con paglia e fango una canoa / sottile e con quella vado lesto dal Tevere / al Tirreno.” (p.43) Non solo, può rappresentare un paese, l’Italia, testimone e artefice, nella sua storia, dello sforzo umano di superare i confini. L’immersione nell’acqua è, così, un’immersione nel mondo e nella vita. Il titolo della raccolta, Il fiume nel mare, è il modello e l’immagine di una ricerca di dialogo con gli individui del suo paese e del suo tempo.
È un libro, questo, denso, maturo, coeso, di grande profondità, che offre e consente diversi livelli di interpretazione ad ogni nuova lettura. La poesia è senza tempo, ma l’autore ci ricorda continuamente che, per lui, essa deve “allontanare il male e spartire con tutti / quel poco di bene avuto in eredità.” (p.42). La raccolta ci riporta, in questo modo, continuamente al presente, instaurando un dialogo critico con la realtà italiana, sollecitandoci a rompere il torpore della sensibilità e della ragione che, oggi, sembra avvolgere le strade e le case di questo paese.
Nessun commento:
Posta un commento