giovedì 17 settembre 2009

Dalla edizione in fieri della Commedia a cura di Massimo Sannelli

Sul canto V dell'Inferno

Nessuna delle persone nominate qui è ignobile o sconosciuta. Questo è il primo segno di un calcolo distruttivo sul presente dei letterati: la nostra Didone ha peccato, il nostro Tristano ha peccato. La simmetria con il museo pagano del canto precedente è totale: il nostro Ettore e il nostro Enea non sono stati salvati; e la santa laica Antigone non è salva, come si capirà in Purg., XXII 110.
Anche noi – la comunità che ne scrive, e che ama questi nomi – abbiamo peccato: se non altro pubblicizzando i nomi di chi merita l’Inferno, per una colpa consapevole (gli ignavi hanno voluto essere irresponsabili, e l’Inferno non li vuole; i Maestri del passato non sono punibili, e l’Inferno non può averli; ma questi spiriti amanti, né ignavi né maestri, sono i primi veri dannati dell’Inferno – e sono i grandi personaggi della fiction antica e medievale). Questa pubblicità ai peccatori è sempre stata delegata a testi lunghi, come il poema e il romanzo: forme dilatate e narrative, come la stessa Comedìa. Il fatto è che la Comedìa sarà un’altra cosa: il vero testo nuovo, non asservito alle esigenze pratiche, creato per giudicare e sistemare tutto (tutti).
Paolo e Francesca sono un grande nodo, anche oggi. Il messaggio è chiaro: l’amore ricambiato – un miracolo, ieri e oggi – è una disgrazia, se non è sacramentale; e nessun amore letterario del Medioevo è sacramentale. Allora Dante indica una doppia pietà, per i morti e per sé stesso. E poi: Che pense? – chiede Virgilio (e la domanda, con la stessa sequenza di parole – spense-offense-pense – ritorna nel canto XXXI del Purgatorio, vv. 8-12, quando Dante dovrà confessare le memorie triste: aver abbassato il volo, in nome della novità o di una pargoletta amata). Quindi: a che cosa ho creduto? A che cosa credo io? Devo confessarlo al maestro. E se la fine è questa, a che cosa crederò? A ciò che non muore e che non fa morire. Nel processo del Purgatorio Beatrice sarà dura su questo punto: dirà di non essere né un sex symbol da usare né un piacere mortale. Beatrice non si ama né con il sesso né senza memoria (e la memoria è la poesia: chi dimentica Beatrice dimentica anche la missione di lodare e ricordare).
Chi pecca contro l’amore – perché ama male e ama il male – bestemmia contro lo Spirito Santo, e questa bestemmia è imperdonabile. Consacrarsi a Satana, stravolgendo ciò che Dio stesso usa per tenere vivi la vita e l’universo – questo non può essere tollerato. Ecco perché tutto il Medioevo ragiona sull’amore: perché chi capisce l’amore non è solo il servo fedele di Dio, ma anche l’interprete sincero di un meccanismo più grande di noi. Questo è vero, ed essendo vero è anche il bene e il meglio.
Ma la pietà è la pietà: Dante piange, come un testimone sensibile, e sviene, come se fosse – ed è – parte in causa. Lo stesso Virgilio (parte in causa) ha cantato Didone (parte in causa: «che s’ancise amorosa») e Francesca – parte in causa – lancia un messaggio in codice a Virgilio: «e ciò sa 'l tuo dottore». Dante – parte in causa – si accascia nel luogo, perché il poeta è degno del luogo degli eroi poetici, da Achille a Tristano, e dei lettori di romanzi. E un conto è la vita dei propri nervi, tesi bene o male; un conto è la professione, che per dovere di fiction tratta dei peccatori; e un conto è l’economia di un poema che deve essere la cosa nuova.
Qui il lettore deve capire una cosa gigantesca. Quasi tutta la letteratura sull’amore è o fragile o peccaminosa; oppure fragile e peccaminosa. Il lettore – compresi noi, ora – sverrà con e come Dante. Poi ci rialzeremo e lasceremo alle spalle tutto: la professione errata, gli errori, lo stile, i miti. In fondo, la domanda di Virgilio e di Beatrice è banale: Che pense? Ma appare solo due volte in tutta la Comedìa, per due amori sbagliati. Il maestro e la maestra sanno già la risposta.

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