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recensione a cura di Luigi Metropoli
«… e i luoghi di concentrazione nell’era democratica»*
Un qualsiasi libro che si apre con una domanda – anche di poesia – dovrebbe quanto meno lasciare supporre un tentativo di risposta, sapendo benissimo che oggi la risposta è precaria, è ‘temporanea’, non racchiude in sé la verità. Marco Saya esordisce con un «dove vai?»: a chiederlo era la madre. «Ancora non so», dopo vent’anni è la sola risposta che il poeta sa dare. Beninteso, qui non c’è nessun compiacimento nel crogiolarsi in istanze nichilistiche. La raccolta poetica di Marco, argentino di nascita, milanese di adozione, intesse un disegno complesso per aggirare luoghi comuni, incasellamenti, categorie, riuscendo sempre con un gioco di prestigio a rimandarti più in là, a slittare di continuo. Quell’«ancora non so» è una cifra stilistica e non una posa. È un temporeggiare che fa dell’ironia la strategia (più che l’artificio) retorica che regge l’impianto dell’intero libro. Non può ancora rispondere Marco perché la quotidianità (che quasi può tramutarsi in quella quotidianeità, come l’ipostatizzava Dario Bellezza) ha nella sua routine una variazione sistematica e inafferrabile (come in un ritmo jazz che non nascostamente è la partitura da cui Saya trae ispirazione per i suoi versi), è preda di una cronica casualità che pure si ripropone ad ogni passo. Il libro si legge quasi come un romanzo, è un’epica contemporanea della città di Milano (ridotta a larva ectoplasmatica di se stessa, fino ad un’invisibile ed impossibile città calviniana: Milania), un’epopea di un uomo che si aggira tra le sue strade e osserva i passeggeri dei tram, altri che si affrettano nei pressi di piazzale Lodi, altri ancora che freneticamente acquistano all’Esselunga. Si legge di una città che fatica a comprendere l’accoglienza, che si sorprende a vedere una donna col burka che attraversa una strada a braccetto con una signora elegante ed evidentemente appartenente ad una classe sociale elevata, che si concentra unicamente a produrre vuoto, affaccendata a guardarsi la punta delle scarpe. Nessun compiacimento, si diceva, e contestualmente nessun volontarismo ideologico. Non c’è socialismo che tenga nelle impietose (ma anche ironiche, di un’ironia amara, ovviamente) pagine di Situazione temporanea. Tutto è frammentato, ognuno è un atomo privo di centro e di identità, tutti accomunati solo da un senso di estraneità che rasenta la schizofrenia: « l’altro giorno ho incontrato un albanese/ mi ha chiesto se avevo/ da accendere/ voleva parlare/ abbiamo parlato/ nella nostra diversità/ avevamo qualcosa/ da dirci». Eppur tuttavia si fa critica sociale con le armi che si possiedono. Marco Saya è poeta civile, senza spiattellarlo in faccia ai suoi lettori. Sa esserlo sottilmente, nell’unico modo in cui si può esserlo. Adotta il jazz come metro, anziché una cadenza lineare, scrive un romanzo di frammenti e di associazioni di idee, osserva quanto accade, partecipando dell’accaduto, ma conservando un’adeguata distanza critica, registra ma non supinamente. La sua scrittura è una scappatoia dagli automatismi della contemporaneità e sa esserlo con una leggerezza disarmante: il gergale non si accosta alla citazione colta per puro sfoggio letterario o per creare un tutto indistinto, utile solo a chi delle parole non sa che farsene. Piuttosto il pastiche linguistico è dosato con grande perizia: tutto è camuffato all’interno di un tono che si tiene volutamente nella mediocrità. Saya sembra costruire trabocchetti nella costruzione del verso (più che nel lessico), giocando con la sintassi così come Jaques Tati avrebbe costruito le sue gag al cospetto della grottesca modernità: insinuandosi negli interstizi delle frasi (più che delle parole), nei modi di dire comuni, decomponendoli, decontestualizzandoli, producendo un esilarante effetto straniante, una sorta di reazione chimica come all’incontro appunto di Monsieur Heulot con gli emblemi urbani della nuova metropoli. Ogni verso è in sé concluso e quasi autistico, per poi scontrarsi casualmente con il successivo. L’effetto è esilarante e nello stesso tempo amaro: «accado nel magma del passaggio./ siccome disturbo nel desueto divorio/ punta i gomiti quello che non ha il limite,/ così per caso, un bar vale l’altro,/ il dispetto sta nella resistenza,/ il cablaggio ci fortifica/ sino a esaurimento scorie». Tuttavia l’aderenza della lingua al reale è massima, tale, nel contempo, da sembrare materiale da costruzione e da restituirti intatta un’immagine dinanzi agli occhi, tramite pochi brevi segni: «quanti fili per la città/ grovigli muti/ boccheggianti dai finestrini/ orecchie incollate a pacemakers/ detriti di comunicazione/ rovinosi affanni/ appannati tra vitrei stagni/ come oblò obliati»; massimo è il grado allegorico che ne deriva: il parlare di blues, di jazz, di Miles Davis per parlare d’altro, di quanto orripilante sia diventato l’uomo.
* dal brano Trafitto dei CCCP (1985)
Luigi Metropoli è nato nel '79 a Nocera Inferiore (SA). Si è laureato nel 2003 in Lingue e letterature straniere all’Istituto Universitario Orientale di Napoli, con una tesi su Andrea Zanzotto. Ha conseguito nel 2008 un dottorato di ricerca in Italianistica presso l’Università degli Studi di Padova, con un lavoro sulle poesie e canzoni del poeta napoletano Rocco Galdieri. Gestisce lo spazio personale www.vocativo.splinder.com
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