venerdì 19 ottobre 2007

Su come a beato confine


(Book Editore, 2003)

di AR

La poesia di Stefano Guglielmin è filosofica, ma è poesia: la riflessione non plana nell'iperuranio, non si limita a indagare i limiti della conoscenza, ma riscalda come la brace sotto la cenere, a tratti ferisce (sia pure con discrezione), insomma provoca il lettore con domande pacate e tremende al tempo stesso, in questo libro compatto e cristallino: «io dovrebbe / dal suo esilio / piegare verso l'orizzonte / farsi cosa dai quattro cantoni / e / alla prima persona singolare / oscurare lo specchio». Questa è la poesia 1 che apre la prima sezione ed è seguita ovviamente dalla poesia 2: io dovrebbe / con la lingua mettere a fuoco / l'esatta dimensione del vuoto / e stare in bilico sul bordo / capro del suo piede». E già solo queste due poesie danno al lettore precisi azimut per orientarsi nel mondo del poeta, che ci ricorda per lucidità unita ad intelligenza emotiva quello di un Leopardi o di Rilke o di un Pessoa… Ovviamente Guglielmin ha un suo stile ben definito, fatto di versi esatti e brevi, apparentmente aritmici ma che, magari abbinati, si rivelano essere anche endecasillabi e setteneri: «io dovrebbe / mettersi tra parentesi / … / così che il centro sviando / riporti il pane in orlo» (p. 13).
Come si vede le parole vengono inserite in contesti insoliti (mettendo quasi in stallo la sintassi) e questo per ribadire la illimitata capacità metaforizzante del linguaggio, che non potrà mai incapsulare (fortunatamente) la realtà, ma rivelarcene ogni volta infinti aspetti: «io dovrebbe / scrivere d'altro / sapere / che tolto il tempo / l'anima diluvia, invia / le sue cose d'arca / ai pesci» (p. 15).
Il senso di tutto viene indagato con uno sguardo kirkegaardiano venato da una angoscia laica (ma credo che una certa inquietudine religiosa sia presente, pur in una sua versione non confessionale): «io trema nel risucchio / del sangue e s'ammoglia / per questo agli anni / come a radice / che l'anima abbia in ferro» (p. 26).
Del resto i titoli delle sezioni della prima parte (“io terza persona”) costituiscuno in nuce un itinerario mistico: “io dovrebbe”, “io fatica e migra”, “a nuovo rivo egli s'avvia”, “noi”. Dall'io al tu al noi.

La seconda parte, che consta di prose poetiche, si intitola “Dappertutto” e pare una analisi del momento storico che stiamo vivendo con tutte le sue esiziali contraddizioni, come quelle ricordate nell'ultima pagina: «metti che avesse covo in europa il terrorismo a milano per esempio a parigi e gli arabi dunque tirassero bombe dappertutto (…) e metti che il popolo locale gente qualunque scegliesse la montagna la guerra partigiana per vincere l'orrore immagina le parole che dovresti usare il tono della voce il viso per spiegare a tuo figlio tutto questo per dare tregua alla sua fame” (p. 60).
Ecco questa “ipotesi” si può applicare anche all'impotenza delle lettere, delle parole: in certe situazioni esse deveno andare ben oltre sé stesse, ben oltre i consueti campi semantici, oltre le stesse metafore, allegorie, analogie… questo è in fondo quanto la poesia tenta di fare e fa, se è poesia, e quella di Guglielmin lo è.

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