venerdì 28 novembre 2025

Dove la luce diventa voce... di Eliza Macadan su "La prima parola di Rita" Pacilio, Di Felice Edizioni, 2025

 


foto copertina concessa dall'editore


LA PRIMA PAROLA, RITA PACILIO, DI FELICE EDIZIONI, 2025

Dove la luce diventa voce...

 

 

La prima parola di Rita Pacilio è un poemetto che sorprende per la sua capacità di restituire al linguaggio la dignità di un’origine. In queste pagine, ogni verso sembra nascere da un ascolto paziente, come se la poetessa si ponesse davanti al mondo con l’atteggiamento di chi attende una rivelazione. La parola non è qui semplice strumento espressivo, ma gesto inaugurale, quasi sacramentale: un seme che custodisce l’intera storia dell’uomo. Il libro procede con un passo meditativo, attraversando memoria familiare, natura, dolore e resurrezione interiore. Le figure della madre, del padre, della nonna, così come gli alberi, il vento e la luce, diventano segni attraverso cui filtrano interrogativi antichi: che cosa significa nascere? Che cosa rimane quando il tempo si incrina? E soprattutto: dove si nasconde Dio nelle fratture del quotidiano? Pacilio affronta queste domande senza retorica, con un linguaggio che alterna umiltà e ardore, concretezza e simbolo. Alcune immagini - le ginocchia della nonna, le foglie che resistono nella tempesta, la voce che ritorna come eco -hanno la limpidezza delle parabole evangeliche. È come se la poetessa cercasse, dietro la fragilità del vivere, la più semplice delle beatitudini: la possibilità di restare umani nella prova. Non c’è moralismo né sentimentalismo; c’è piuttosto una fede implicita, che avanza come una corrente sotterranea. La croce, le campane, la domenica, la benedizione: tutti elementi che non interrompono il flusso poetico, ma lo illuminano dall’interno. La poesia diventa così un luogo di riconciliazione, un modo di «abitare l’albero» - per usare un’immagine del testo - e di vedere il mondo dall’alto, con occhi trasparenti.

La prima parola è un libro che chiede lentezza. È una lunga invocazione che restituisce al lettore il senso della gratitudine e della presenza. Nel suo gesto finale - quasi un ritorno al silenzio - Pacilio sembra suggerire che la vera origine del linguaggio sia la preghiera: non quella proclamata, ma quella che sorge quando l’anima, ferita e salvata, riesce finalmente a dire: «sono viva».

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