Miei cari amici,
vi annuncio con gioia che oggi esce il mio nuovo e ultimo libro, Ma sempre ti perdo, mia vita. Sono molto grata all’editore Alessandro Ramberti, patron di Fara Editore, per aver creduto in questo testo letterario e dico il mio grazie dal profondo del cuore alla scrittrice Simona Lo Iacono che ha firmato una splendida ma soprattutto profonda e precisa prefazione. Vi affido questa mia opera, l’affido alla vostra lettura sensibile e attenta.
Poiché non pubblicherò nuovi libri nei prossimi anni, non vi nascondo che questo libro che esce adesso riveste per me un significato del tutto particolare.
Ho pubblicato tanti testi, come voi sapete, ma nella maggior parte di essi c’era assai poco di me, non c’erano i miei pensieri, la mia anima segreta, perché in opere di saggistica prevale l’argomento di cui stai trattando, che esclude la soggettività, conta molto il discorso razionale, il ragionamento, lo stile preciso. E anche nelle opere di narrativa non si mette mai tutto di sè, conta la logica dell’invenzione, dell’artificio, dell’immaginazione. Un testo di poesia come questo che esce ora, Ma sempre ti perdo, mia vita, racchiude invece il mio universo interiore e tutta la mia vita fino ad oggi, quasi un compendio in versi. Dal momento che, come vi dicevo, non pubblicherò altri libri nei prossimi anni, ecco che questa mia ultima opera ha un’importanza tutta particolare per me, e spero anche per voi. Ve la affido sperando che vi piaccia.
Qui leggete una scheda del mio nuovo libro con alcune poesie scelte:
mariadilorenzo.wordpress.com/ma-sempre-ti-perdo-mia-vita
E qui di seguito c’è la bella prefazione di Simona Lo Iacono, che voglio condividere con voi, salutandovi con affetto.
Maria
***
Prefazione a Ma sempre ti perdo, mia vita.
Silloge poetica di Maria Di Lorenzo
Nominare le cose. Ridirle per trovare in esse una consistenza diversa dalla realtà. Come se - dotate di parola - cominciassero a esistere nuovamente perché convocate, invitate. Un atto sacro e da superstiti, la poesia, da scartati dal mondo. O da persone cui il mondo, così come appare, non basta.
E, in effetti, il poeta è spesso santo, pazzo, maliardo. Procede per visioni e incantamenti, fiutando piste che occhio nudo non vede, e che bocca aperta non parla. Come un mistico, un assetato di invisibile, un funambolo da circo che punta il volto in alto senza vedere dove poggerà i piedi, il poeta avanza nel nostro difficile tempo, a mani tese. Sembra dire: abbiamo bisogno dei poeti. Abbiamo bisogno di poesia. Abbiamo bisogno della lentezza e della complicità del mistero.
Così Maria Di Lorenzo in queste liriche che sprangano le porte della prigione dei sensi, che volano oltre le cose, e oltre gli uomini, e oltre sé stessi, perché sanno che l'apparenza seduce e nasconde, e che la verità, il segreto di noi e di tutti, è dove osiamo portarci. Così, sgorgano, i versi di Maria, non a spiegare (ché non è della poesia dare ragioni, offrire scientifici allineamenti della realtà) ma a rivelare, a indicare che la ricerca dell'anima consiste in una via di bellezza.
La poesia sembra allora porsi come un'antagonista dei nostri chiassosi giorni, un freno alla marcia ruminante, al precipitare verso l'abisso della mancanza di significato.
In apparenza, la poesia non serve, anzi pare alfabeto di ore perse / a decifrare sciarade di vento / nello stillicidio di partenze / verso nessun luogo. Poi però, l'uomo sente che non può trovarsi se non ritornando al centro del suo dolore, e che senza quel viaggio, senza quel sacro pellegrinaggio dentro sé stesso, non c'è perdono alla colpa di avere vissuto senza chiedersi perché.
Per Maria, al sogno / ci condanna perpetuo / questa luce di vecchie falene, / che non conosce certezze / ma un varco / ci addita segreto nel cuore di Roma. E, dunque, la dimensione complessiva dell'esistenza, non è nel conteggio di giorni e progetti, non è nell'edificazione di immagini rassicuranti e perpetue di se stessi, ma in quella feritoia da cui filtra un filo di luce.
Maria addita allora il cielo, indica la dimensione paterna della vita, contempla le immagini di Giuseppe e Maria, eterni sposi in eterna erranza, come se l'Egitto fosse una conquista da rinnovare ogni giorno, da chiamare col cuore, e la terra promessa coincidesse con quel deserto che coviamo in noi, deserto arido, da abbeverare.
Il suo verso si fa biblico, profetico, orante.
Maria non teme la dimensione oscura dell'esistenza, in essa vede anzi la luce della Grazia, una Grazia che sa che un Dio comprensibile non sarebbe un Dio amoroso verso i suoi figli, perché li priverebbe della gioia della scoperta, della fatica santa della domanda, dell'entusiasmo della decifrazione.
E si rammarica che ai più appaia distante un Dio in realtà poetico, che con sapienza costella il cammino di segnali e pegni d'amore. Si duole, anzi, Maria, che questo Dio possa essere frainteso. Non sanno, non sanno / l'abbraccio senza sponde, / infinito / senza abbagli, / non umano. / Da sempre tu parli per enigmi.
Infuocate diventano allora alcune invocazioni, in cui all'accoramento della preghiera si unisce lo sdegno delle colpe di chi non ama, di chi non decifra i segni, perché la guerra - sembra dirci Maria - è figlia naturale di un mondo che non conosce la parola poetica: Gli uccelli dalle piume / di acciaio sganciavano ordigni / di morte sulla città / dei vivi.
Poi, però, ancora una volta, è lo stupore a prevalere.
Maria raccoglie i lasciti silenziosi del dolore, li contempla e li consegna a una pietà superiore, molto più lungimirante degli errori degli uomini. È umilissima quando, ancora una volta, si piega a decodificare i sorrisi dei morti, gli abbagli della vanagloria, gli inutili sussulti di un mondo che si perde quando non si consegna al mistero.
Maria sa invece che proprio lì, nell'enigma e nell'eterno cercare, sta l'ultima delle risposte. Anche se non sarà mai la parola definitiva, si abbandona, lascia che i segreti della creazione risuonino in lei, in lei si facciano carne, in lei prorompano in grido: “Ma sempre ti perdo, mia vita”.
© Simona Lo Iacono – all rights reserved
Nessun commento:
Posta un commento