mercoledì 10 dicembre 2008

Su Po essiri di Flora Restivo


Samperi editore, Catania 2008

recensione di Marco Scalabrino

Flora Restivo non è autore che ami bearsi sugli allori: il gradimento, diffuso, univoco, genuino, che ne fanno senza tema di smentita una tra le voci di spicco del panorama dialettale di questo inizio di terzo millennio, piuttosto che appagarla ne ha ampliato gli stimoli, le ha profilato più avanzate frontiere, le ha instillato inusitate “ambizioni”. I quattro anni intercorsi tra il precedente progetto, CIATU, e l’attuale lei li ha investiti negli studi, nella frequentazione assidua dei Maestri, siciliani, italiani o stranieri, nel metodico affinamento, nella inarrestabile ricerca mirati al proposito di puntare all’“elezione” del suo dialetto.
La sua poesia seduce, intriga sia in ordine agli esiti che alla tecnica, offre spunti di approfondimento. A più riprese è stato rilevato che essa muove in una cornice di modernità. In effetti Flora Restivo avverte prepotentemente le pulsioni del nostro tempo, vive l’insopprimibile impellenza di trasporre tali pulsioni in segni adeguati alle mutate sensibilità, si adopera per vergare la sfaccettata realtà che ci circonda, che è sì siciliana ma altresì italiana e planetaria e nella quale lei è anima e corpo inserita, in una struttura confacente.
Naturalmente è ben conscia dei rischi dell’opzione dialettale, che ; ma ciò non le costituisce remora. Un po’ controcorrente lei lo è stata fin da ragazza, il suo temperamento ha sempre mal tollerato convenzioni e costrizioni, la sua etica, la sua indole, la sua formazione la inducono a solidarizzare, a schierarsi al fianco di persone e cose vulnerabili, che soffrono l’onta del pregiudizio, dell’emarginazione, della rimozione.
Colpiscono favorevolmente la liricità, la lievità e al contempo la solennità dei suoi versi, l’articolato equilibrio tra l’inchiostro e gli spazi vuoti, la dovizia dei lemmi tratti dall’immenso patrimonio di etimologia greca, latina, araba che costituiscono il Siciliano.
Suffragata oltre a ciò la severa e meticolosa decantazione della sua parola, che lei svuota di ogni carattere inessenziale, il problema capitale che le si rivolge è quello afferente alla scrittura del Siciliano. Ammesso difatti che in epoche antecedenti vi sia stato, oggi non vi è più un parametro unico di trascrizione del Siciliano e la questione è demandata alla disciplina, al buon senso, al gusto degli scriventi. Gli esperti, in argomento, hanno individuato due grandi aree: quella del metodo etimologico, che si richiama all’origine, alla derivazione, alla ricostruzione dell’evoluzione delle parole, e quell’altra del metodo fonografico, ovvero della trascrizione fonetica della parlata, benché questa sempre diversamente modulata da ognuno dei parlanti. Orbene, la scelta di Flora Restivo è netta, inequivocabile, convinta: è quella di scrupolo filologico della scrittura improntata all’etimologia.
Certo gli strumenti, le tecniche, i canoni ci vogliono. Ma occorre, beninteso, che a monte insista la “materia”, e che questa la si ami, la si conosca e la si conosca bene, per manipolarla, per governarla, per estrarne quelle figurazioni che già vi sono costrette e che aspettano una mano amorosa ed esperta che le liberi, le faccia emergere. E bisogna poi che un quid luminoso, la grazia speciale della Poesia, ammanti il tutto. E perché ciò avvenga, perché si possa allestire un perfetto universo di parole, necessitano studi, esercizio, consapevolezza di ciò che si fa e di come si fa, occorre porsi al servizio della Poesia con esclusiva dedizione, abbandonarsi completamente ad essa.
La cifra di Flora Restivo contempla inconsueti accostamenti di parole, di suoni, di immagini, schiera visioni, invenzioni, illuminazioni che le derivano dalle diuturne applicazioni e dall’apprezzamento che la scommessa della poesia dialettale siciliana moderna si vince, in buona misura, sulla forma, nella continua ri-creazione della forma in costanza di contenuti eterni: la vita, la morte, l’amore, la natura, Dio … E la ricerca inesausta, la cognizione della dignità, delle prerogative lessicali e sintattiche, della compiutezza espressiva del nostro dialetto, unitamente al “mestiere” temprato allo zelo della disciplina che sa mettere a frutto gli strumenti, le competenze, l’intelletto di cui dispone generano esiti assolutamente innovativi e pregevoli.



MAZZAMAREDDU

Fu dda ghiotta
di pisci
carrica d’agghia e spezzi
ddu mari di vinu e minchiati
chi ni sacciu…

Strata strata
truppicava nna fantasimi
nsivati di tossicu
e fumeri
sintìa ieni scaccaniari
squartariannu
caddozzi di ragiuni ancora viva…

Poi
nna lu scuru di chiusi stiddi
l’occhi
di tutti li nnuccenti
sacrificati bistimiannu omu e Diu

scuppiaru

e foru botti luci culuri
masculiata di jocufocu.

Sulu tannu
vitti la Pietà:

sugghiuzzava
aggiuccata davanti a la so porta

comu na vecchia buttana.

INCUBO. Fu quella zuppa/ di pesce/ troppo ricca d’aglio e pepe/ quel mare di vino e cazzate/ che ne so…/ Lungo la strada/ incespicavo/ in parvenze spaventose/ insudiciate da veleno e letame/ sentivo iene sghignazzare/sbranando/pezzi di ragione ancora viva…/ Poi/ nel buio di chiuse stelle/ gli occhi/ di ogni creatura innocente/ immolata bestemmiando uomo e Dio/ esplosero/ e furono botti luci colori/ il culmine di un fuoco d’artificio./ Solo in quel momento/ avvistai la Pietà:/ singhiozzava/ accucciata davanti alla sua porta/ come una vecchia puttana.




SENZA SCANTU

La vogghiu sblaccari
cu tutti li sensi
vigghianti
ssa porta scancarata
chi lu tempu
lassa apposta
sicca d’ogghiu
p’amminazzarini
cu ddu cicchi ciacchi.

Nun portu nenti
nun cercu nenti
sugnu
na truscia vacanti
postu ni pigghiu picca
e trasu

senza scantu.


SENZA PAURA. Voglio attraversarla/ con tutti i sensi vigili / questa porta sgangherata/ che il tempo lascia/ deliberatamente/ priva d’olio/ per intimorirci/ con quel cigolio./ Non porto nulla/ non cerco nulla/ sono un sacco vuoto/ posto ne prendo poco/ ed entro/ senza paura.



UN JORNU DI MARZU

Era scrittu
nun ti pigghiari pena:

finu a quannu
m’abbasta lu ciatu
matina pi matina
mi ci nsaccu
nna dda cammisa
stritta e scòmmira
chi m’accullasti
un jornu
di Marzu.


UN GIORNO DI MARZO. Era scritto/ non te ne crucciare:/ finché/ ne avrò la forza/ ogni mattina/ mi costringerò/ in quella camicia/ stretta e scomoda/ che mi hai affibbiato/ un giorno/ di Marzo.


Alte poesie di Flora qui

1 commento:

Alessandro Ramberti ha detto...

Come ho scritto altrove in questo blog, la scrittura di Flora è intensa e chiaroscurale (la “taliata” è appunto netta e priva di quelle zone nebulose in cui a volte i poeti amano crogiolarsi), e ha la capacità di arrivare al nucleo fondante dei fatti, delle cose, delle persone: “lassami scarucciari // mi scappa / di ncuntrari / l'orizzonti” (lasciami andare alla deriva // ho una gran fretta / d'incontare l'orizzonte, p, 25); “Mbriacu senza viviri / appenni a lu croccu / di na prijera scurdata / l'arma chi si va lassannu” (Ubriaco senza aver bevuto / appendi al gancio / di una preghiera dimenticata / l'anima che si va scucendo, p. 29); “mi sonnu / agghiommaru d'amuri / mpirtusatu / 'n-funnu 'n-funnu / dunni l'arma / su fa carni” (mi penso / intrico d'amore / rintanato / nel profondo / là dove l'anima / si fa carne, p. 37)…