domenica 21 dicembre 2008

Su Abitare nella possibilità. L’esperienza della letteratura di Antonio Spadaro

Jaca Book, 2008, pp. 304, € 24,00

Nota di lettura di AR

Questo libro è una miniera di materiali, suggerimenti, spunti: ogni lettore che desideri accrescere e “attivare” il suo ruolo, così come gli addetti ai lavori (scrittori, insegnanti, critici) vi possono proficuamente ricorrere per fare il punto su “Visioni di letteratura” e “Letteratura come esperienza” (questi i titoli delle due parti in cui si articola il volume). In quanto segue ne forniamo un parziale e stringatissimo sommario con l’intento di invogliare chi sta leggendo a procurarsi questo testo ricco di suggestioni, con riferimenti a tutto campo non solo ad autori e a critici letterari, ma ad approcci inediti alla creazione e fruizione dei testi.
L’itinerario parte con il capitolo intitolato “Letteratura come menzogna” e si prefigge di rispondere alla domanda: «la letteratura vive nel territorio della verità o in quello dell’inganno, della menzogna?» (p. 29). Se per Giorgio Manganelli è una sorta di nevrosi infernale e artificio barocco e mendace, Spadaro osserva che occorre prima chiedersi «quale sia la verità propria della letteratura» (p. 35). Nel secondo capitolo, “Letteratura come resistenza della parola” l’autore si domanda: «qual è la parola umana di fronte alla tragedia?» e sottolinea la tendenza al silenzio non solo dei versi sulla guerra di Ungaretti, ma anche di opere narrative come Il partigiano Johnny. Il terzo capitolo (“Letteratura come «patente d’infinito»”) è dedicato in particolare a Paul Celan, al “respiro” della poesia sempre in tensione verso un Altro: «È questa tensione che genera l’espressione poetica. La poesia è spingersi sul ciglio di una trascendenza, che qui appare senza volto, senza la quale la parola poetica sarebbe impronunciabile.» (p. 51) osserva Spadaro analizzando la poesia Salmo. “Letteratura come vita”, il quarto capitolo, ci presenta l’approccio di Carlo Bo e del suo maestro Charles Du Bos che nelle espressioni letterarie saldamente congiunte alla vita ricercano quella materia che plasma l’anima. Mentre il quinto capitolo è dedicato all’approccio casto dei New Puritans, il sesto ci parla di “Letteratura come sguardo lirico sul mondo” con particolare approfondimento della poetica di Lawrence Ferlinghetti: «per lui la poesia è “notizie dalla frontiera della coscienza” (…) la poesia porta alla parola ciò che vive nei confini della consapevolezza e dell’interiorità» (p. 87). Il settimo capitolo si intitola “Letteratura come passione per il mistero reale” ed è un intenso saggio su Flannery O’Connor per la quale: «Ciò che può aiutare a scrivere è qualsiasi cosa aiuti a vedere, qualsiasi cosa induca a guardare. Lo scrittore non dovrebbe mai vergognarsi di fissare perché “non c’è nulla che non richieda la sua attenzione”. In questo atteggiamento è presente un profondo senso dell’ascolto, del rispetto, dell’obbedienza nei confronti della realtà e del suo mistero» (p. 96).
“Letteratura come profezia”, il capitolo successivo, è dedicato alla critica empatica, interconnessa con l’interpretazione “drammatica” delle Scritture (in primis dei Profeti), di Giacomo Debenedetti che «chiedeva alla letteratura l’impegno di non rinunciare al suo compito di conoscenza e testimonianza di umanità» (p. 103). Si passa quindi al capitolo nono, “Letteratura come teologia”, che ci offre un incipit riassuntivo del cammino fin qui percorso da Spadaro: «La direzione del nostro itinerario tra le visioni di letteratura ci ha fatto intuire come la “verità” della letteratura stia nella sua capacità di interpretare l’esistenza e di condurla al di là di sé stessa: ora resistendo al senso comune (Manganelli); ora superando il grido inarticolato o l’afasia della tragedia (Celan); ora scavando nella regio dissimilitudinis che è l’anima (Bo); ora tenendo un’attenzione “casta” sulle storie reali (New Puritans), oppure invece valorizzando l’ “intelligenza lirica” che coglie nella realtà simboli e idee (Ferlinghetti); ora attingendo con passione al «mistero della nostra posizione sulla terra» (O’Connor); ora accogliendo la vocazione «profetica» della letteratura (Debenedetti)» (p. 115).
Il capitolo continua con un’analisi dell’esperienza critica di Jean-Pierre Jossua, lettore teologo «particolarmente colpito dall’orientamento che si richiama a un desiderio, a un’esperienza o a un movimento di trascendenza» (p. 122).
“Letteratura come presenza” (il capitolo decimo, dedicato a Proust e Sainte-Beuve) conclude la prima parte (“Visioni di letteratura”) del volume.
La seconda parte (“Letteratura come esperienza”) inizia con il capitolo “La pagina che illumina”: «La verità della letteratura consiste nella sua capacità di parlare della nostra vita interpretandola al di là di sé, della usa mera apparenza. È nella lettura che questa forza si sprigiona. Nella lettura efficace si crea dunque una relazione forte tra lettore e libro, nella quale il lettore non domina le pagine, ma piuttosto vi si muove all’interno e, mentre legge, si legge, cioè legge sé stesso» (p. 141).
Questa “forza” della relazione opera-lettore Spadaro la fa risalire alla millenaria tradizione della lectio biblica: «Aprire la Bibbia non significa solo aprire un oggetto-libro: la lectio divina della tradizione occidentale legata al Testo Sacro considera questo come un mondo di significati nel quale, potremmo dire, “abitare” (p. 142). Passando in rassegno il pensiero di teologi come Rahner, Ugo da San Vittore, von Balthasar e altri intellettuali del Novecento, si «indaga la vicinanza di mistica e poesia» (p. 149) e nel capitolo che segue (“La lettura che coinvolge”) l’Autore propone un’esperienza letteraria a partire dagli esericizi di Ignazio di Loyola: «La dinamica che si sviluppa negli Esercizi può essere descritta come un “giocarsi”: l’esercitante “si mette in gioco”.» (p. 158 ); «In questa prospettiva leggere un libro non può che voler dirre leggersi in esso, cioè nell’esperienza che di esso si fa. Lettura, come aveva scritto il filosofo Luigi Pareyson, è sinonimo di “esecuzione”, proprio nel senso che questa parola ha nel campo musicale…» (p. 159); «Il coinvolgimento del lettore, alla luce degli Esercizi, è una situazione nella quale il soggetto entra con tutto sé stesso (memoria, intelletto, volontà, direbbe Ignazio, e cioè con le sue aspettative, i suoi ricordi, la sua comprensione del reale) e lì riesce a compiere un’operazione di lettura di sé attraverso e nel testo.» (p. 164).
Il terzo capitolo della II parte si intitola “La scrittura creativa come «esercizio spirituale»” e presenta una concrea applicazione dell’approccio ingnaziano: «… gli Esercizi hanno generato motlo scrittura: ogni esercitante ha avuto nei secoli fino ad oggi il proprio quaderno di appunti. È un atteggiamento che nello scrittore diventa decisivo. In alcuni casi gli appunti sono vere e proprie opere originali. È il caso, ad esempio, degli appunti del poeta Gerard Manley Hopkins, dei testi raccolti nell’antologia Hearts on Fire [a cura di M. Harter, Loyola Press, 2005] o dello splendido volume Thirty Days del poeta e critico letterario statunitense Paul Mariani» (p. 179). Più avanti troviamo queste parole che ben si possono applicare anche al lavoro editoriale: «Tagliare, selezionare, essenzializzare, ridurre all’osso non è un vuoto esercizio stilistico, ma un’arte comunicativa. È un lavoro di scavo, dunque» (p. 180). E così arriviamo al quarto capitolo: “Ispirazione poetica come discernimento” che si apre citando una domanda decisiva del poeta Adam Zagajewski: «l’ispirazione è gioia o malinconia?» (p. 187). Chiudendo il capitolo Spadaro afferma: «… se la poesia ci innalza al di sopra della rete empirca delle circostanze che forma il nostro destino, lo fa perché spontaneamente colloca il lettore – ora drammaticamente ora soavemente – sull’orlo dell’abisso della sua origine, del suo inizio, spingendolo verso una conoscenza più profonda e radicale di sé stesso e della realtà» (p. 194).
“La fantasia come visione” è il titolo del quinto capitolo che tratta in particolare l’approccio all’argomento di C.S. Lewis secondo il quale «a definire la fantasia è il suo rapporto con la realtà: più le si allontana più essa si confonde con l’illusione, che è altra cosa» (p. 202). Nel finale di questo capitolo Spadaro scrive: «Dire dunque che l’opera d’arte è frutto della fantasia significa affermare che essa non è né conduce verso una fuga dalla realtà, ma è una visione di essa, un atto di fiducia in ciò che è.» (p. 210); «… senza “sospensione dell’incredulità”, senza “fede”, non c’è esperienza letteraria che tenga» (p. 210); «… la critica letteraria può assumere anche il compito di scegliere quali storie e quali visioni siano “degne di fede”, e quali siano gli effetti di questo affidamento» (ivi).
Il capitolo seguente, il sesto della II parte, si intitola “La narrazione come principio di libertà”. A p. 216 il Nostro afferma: «La narrazione in gruppo ha da sempre creato famiglia, tribù, legame affettivo, identificazione; ha generato la percezione di far parte di un corpo, di una collettività, di avere una vita condivisa o una missione comune. L’uomo racconta storie per liberare la sua storia dal rischio di una muta insignificanza chiusa in maniera soffocante nella sua incomunicabilità» (p. 216).
«Ogni lettura si inserisce in una storia di letture, in una tradizione che tramanda e dunque anche sceglie cosa leggere nel presente e così cosa trasportare dal passato al futuro.» (p. 225): con queste parole si apre il capitolo settimo “La critica letteraria come scelta di percorso”. L’Autore ci parla del canone di Harold Bloom e si pone la «domanda, vaga ma anche suggestiva: ha ancora un senso la critica letteraria militante, cioè una critica che si confronta con l’attualità letteraria e non fa leva sulle certezze di letture consolidate e di una storia critica?» (p. 237). Più avanti scrive: «La letteratura non è “salvezza”, ma “discernimento”, e la critica, in particolare, come ha scritto il critico Emanuele Trevi, è una “questione di lupi”: il “lupo” è il nostro destino, la verità della nostra vita, che spesso ci fa paura.» (p. 240); «Tuttavia l’emettere un giudizio non è la causa finale vera e propria del lavoro critico, ma è al più un dato che emerge quasi spontaneamente, anche se in modo non definitivo, dal lavoro di confronto e di discernimento sulle radici e l’orizzonte di un’esperienza letterari che si avverte come riuscita o meno» (p. 244).
Chiude questo scrigno di idee, questo tessuto di percorsi, questo confronto con autori, critici, pensatori, teologi, santi… una Appendice intitolata “Domande aperte”: la prima è “La letteratura è rivale della fede?”, la seconda è “La poesia è rivale della felicità?”. Sono questi anche i titoli dei due capitoli che compongono l’Appendice. Il lettore vi troverà interessanti risposte.

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