venerdì 11 luglio 2008

Su Solchi e nodi di Caterina Camporesi


recensione di Stefano Leoni (scheda del libro qui)

Le sequenze brevi di doppi versi in questa nuova raccolta di Caterina Camporesi spingono la lettura a un ritmo che rende ansimanti: si aspetta una congiunzione, un segno di punteggiatura che ci dia tregua, una pausa che ci permetta di respirare, di deviare il pensiero. E invece il verso seguente si fa elencazione, stimolante disturbo fino alla chiusa improvvisa. Per riprendere poi nella poesia successiva. Non è concesso nulla di definitivo, nemmeno una maiuscola a iniziare un discorso, né un punto a chiudere una frase.
Sgomenta, come trovarsi di fronte un pensiero che si fa spirale, che travolge e inghiotte, nella nostalgia o nel presente che non varia dal passato, affondando nella constatazione di una certa vanità del vivere pur alternandosi continuamente a una possibile “visione”, qualcosa che può divenire motivo sufficiente a sospendere “… la vita il suo dolore / in aiuole dove il fango si fa colore”.
Caterina sente “l’ideale come stella cadente / sull’asse del tempo / imporpora pori di reale / lasciando segni nell’aria” e nella dannazione di una realtà breve, contraddittoria e deludente, trova il dono laddove appunto “l’ideale se pur tradito… / calce viva a disinquinare il nero / … / in cuori in cerca dell’umano”.
In cerca dell’umano appunto contrapposto alla inevitabilità della fine. La parola, la poesia dunque anche, può farsi traccia, tentativo d’eterno.
Forse azzardo nel pensare che Caterina, psicoterapeuta di lunga esperienza, che certamente ha fatto della parola un antidoto per i suoi pazienti, che con il pensiero, l’ascolto, la sintesi e la metafora ha aiutato gli altri a districarsi dai lacci di esperienze difficili, di dubbi e di paure, nel solco di fratture che inghiottono e disperano, abbia in questo libro ribaltato il suo orizzonte. Dopo anni di ascolto e offerta di soluzioni, di lotta e di speranzosi ideali è ora lei, Caterina, a porgersi come paziente, come persona bisognosa di sciogliere i propri nodi affidando al lettore la fatica, e la speranza, di essere ascoltata, capita.
E forse proprio con questo inconsapevole intento offre a noi lettori una scrittura che travalica le regole del parlato, che si palesa in questi distici irregolari, irruenti e difficili.
Al lettore tutta la fatica di interpretare la sequenza affannosa dei versi, come a dire che ora non è più affar suo semplificare le cose e dare loro una soluzione possibile. È come se Caterina affondasse le mani dentro la propria esistenza, ne estraesse il groviglio di esperienza e di pensiero e lo riversasse sul nostro tavolo alla rinfusa nella – forse illusa – speranza di essere ricomposta o ben sapendo che la poesia, la parola, nella sua sintetica enormità può lasciare “livori… /…. all’avara terra” e “ri-nascere al tramonto / dentro spazi aperti” e “sonora…” uscire “dai denti di drago / feconda…”.
Il titolo del libro rimane una affermazione e una condizione dell’umano dove però il lettore – l’altro di sé e da sé – può ricercare un senso che ne sovrasti l’abisso o il picco, porto da Caterina con un'apparente solidità che forse nasconde una richiesta.

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