giovedì 25 agosto 2016

Su In cerca: domande per ritrovare la via

una empatica lettura/era di Giancarlo Baroni


http://www.faraeditore.it/html/collane/terremerse/incerca.html




I libri di poesia trovano i propri lettori ad anni di distanza dalla loro pubblicazione; i versi non muoiono un attimo dopo essere stati stampati, ma continuano ad emettere onde creative e inviti di lettura.
Così per me è successo con la tua raccolta, caro Alessandro, di cui mi hai fatto graditissimo dono. Senza superflui giri di parole, nella tua nota introduttiva chiarisci subito il significato del titolo, In cerca. Scrivi: “La ricerca… è la missione principale della poesia… ricerca non solo di sé, ma dell’altro che è in noi e fuori di noi”.
Il tuo libro non credo vada letto sfogliando una pagina dopo l’altra, ma invece saltando di qua e di là: alla ricerca degli spunti, degli stimoli, delle riflessioni, delle domande, degli indizi, che tu dissemini copiosamente ma con discrezione nei fogli.
Generalmente sono testi brevi (e della tua raccolta sono quelli che preferisco), circondati senza clamore dal bianco della pagina che riverbera sulle parole il proprio semplice, luminoso candore.
Nel nostro percorso esistenziale (a volte a forma di labirinto pieno di anfratti, deviazioni, nodi, intrichi, ombre, scorie che “ci hanno ormai indurito / anche il respiro”) rischiamo di smarrire la strada, temiamo di perderci, e allora le domande ci aiutano, per ritrovare la via, più delle risposte, e allora il cuore può farci da bussola più della ragione, e allora un coraggioso entusiasmo può risolvere lo stallo e aprire nuove porte, percorsi inattesi: “il sentiero più bello è quello ignoto”.
In certe occasioni serve una pausa, è preferibile mettersi ai bordi e ai margini, per osservare le tracce, le impronte, le orme lasciate; in certe occasioni occorre stare in ascolto: “Sono qui / stanco di chiedere / e pronto all’ascolto”.
Le tappe variano però la meta è condivisa, e consiste nell’ “infinito gesto dell’abbraccio”, nelle braccia aperte agli altri e alla vita, nella ricerca incessante e nel non “fare muro all’entusiasmo”, nel senso di fratellanza che accomuna.
Niente è scontato, tutto è faticoso e difficile: “per raggiungerli mi macchio di sangue / ginocchia, polpacci e braccia coi rovi, / infango gli scarponi nell’argilla”.

p.s. (Anch’io amo molto Sant’Antimo, che ho visitato più volte; a lei la tua bella poesia mi ha riportato).

martedì 23 agosto 2016

Del Catria il sole

di Vincenzo D'Alessio




ad A.R


Svela le vette turbolente
del Catria il sole
sveglio sul mare
cantano le ginestre in pieno
fiore, alle chiome dei noccioli
silente sorgente ci consola
dalla salita dopo la croce
che pace maestro,
il cuore muove
l’eremo dell’Eterno.

Agosto, 2016

sabato 20 agosto 2016

Gli Specchi Critici - La vertigine dell'assenza negli inediti di Mario Famularo - di Luca Cenacchi

Inauguro questa sottosezione de "Gli Specchi Critici" di cui mi avvarrò, da una parte, per presentare e sondare quella parte del territorio poetico di valore ancora inedito, da l’altra per ampliare e arricchire il discorso critico principale.
Lungo il percorso della rubrica principale, secondo me, può già cominciare a vedersi la tendenza a interiorizzare e confrontarsi con il quotidiano in modo eterogeneo, anche negli stili meno sobri.
Anche le cinque poesie che presenterò oggi (La strada, gli occhi moderni, l’intreccio della lama,un tempo l'uomo intendeva il respiro, il senso delle cose di Mario Famularo poeta di origini napoletane) sembrerebbero non fare eccezioni, ma procediamo con ordine.
L’interpunzione mancante nella versificazione di Famularo costringe a una lettura continua, ma non affrettata: difatti le pause e gli incisi del discorso conferiscono ritmo e limite a ogni strofa, guidano il lettore, affinché non si perda a l’interno del dettato. Queste poesie fanno leva su una cronaca poetica: toni asciutti vengono supportati poeticamente da accostamenti suggestivi ma che, per così dire, non escono troppo fuori dai contorni. Scena di questo stile maturo talvolta, come nel caso della strada, non è tanto lo sviluppo del  fatto quotidiano isolato in se, come accade per molti autori, ma una certa meccanica  sottesa al fatto stesso:  più ampia e meno specifica. Così Famularo dipana la critica del poeta alla società massificata che è, allo stesso tempo, vittima e araldo degli agenti esistenziali come la morte, l’assenza, il vuoto etc…
Dunque dal particolare fatto quotidiano si tende sempre a sconfinare in dimensioni sentimentali e concettuali assai generali, che talvolta ampliano e confondono il limite di quest'ultimo, anche quando preso separatamente.
Così in queste poesie aleggiano toni di denuncia e reazione assai neri, fino alla totale resa di fronte a l’inevitabile dilagare del vuoto nelle sue varie forme. Dove si può trovare dunque consolazione? Paradossalmente nel dissolversi stesso dell’individuo. Difatti l’io lirico, se si presta sufficiente attenzione,oscilla tra un lessico vario, che integra vari registri anche extra letterari, fino a una dissoluzione totale o un graduale auto-decentramento, mentre si concentra e profonde la sua analisi di un presente percepito come senza speranza e a cui si contrappone l’atto liberatorio di un inevitabile auto dissoluzione ( Gli occhi moderni).
Questa conclusione può essere coerente a l’interno di un individuo se e solo se egli sia partecipe delle teorie giapponesi della trans-permanenza (Nishitani Keiji, Karatani Kojin, come l'autore dimostra d'essere), le quali decentralizzano l’io per svalutare la minaccia che il nulla ha su di esso, e dunque il nichilismo stesso.
Mario Famularo, dunque, interpreta fino ai limiti più estremi, un disagio presente in tutti i poeti presi in considerazione da questa rubrica: un rapporto, in alcuni puramente in alti solo a tratti, esistenziale col mondo, che in Famularo si conclude nel suo stesso annientamento.


( La strada)

la strada
è un solco di vestiboli
incrinato
sotto il peso del formicaio che
sgorga

tra le pieghe dei vestiti
un ricordo di ammorbidente
le coperte smosse
dal primo caffè

è tardi
tra i marciapiedi sporchi
le vetrine
stropicciano lo sguardo ai passanti
che evitano
ogni cosa

“buongiorno, tutto bene”
circospetta noncuranza
il tempo
trasuda troppo sporco
nei tombini

la sera non distende
le nevrosi cittadine
nel tramonto troppo bianco
è il silenzio
la finzione più accogliente

l’odore dell’assenza
si ravviva col riposo
nella contemplazione
di un mondo
senza l’uomo

riesco quasi a carezzare
la mancanza

*
(Gli Occhi Moderni)
gli occhi moderni
drappeggi di luci artificiali
l’esperienza della vista sedentaria
la pigrizia di una ricerca
insignificante
il risultato della conoscenza
del viaggio
l’immediatezza della percezione
mediata
dalla macchina

e crepita
tra le fessure invisibili
dissimulate, incorporee
la vertigine dell’assenza
che si è fatta
endemica

il bisogno di spegnere tutto
ricevere il desiderio
del silenzio
assaporare l’aspirazione deviata
alla rinuncia
per dormire, finalmente

e sentire scivolare addosso
confortevole
uno sterminato senso
di vuoto


*
(L'intreccio della Lama)

l’intreccio della lama
rivela strane immagini
tra le periferie estreme
dei ricordi

il tessuto è familiare
ma il dettaglio riflette
un’estraneità profonda

un dolore pungente
diffonde lo squarcio dell’infezione
l’errore nel codice sorgente

rimetti a fuoco la scena principale
i frammenti
è tutto sotto controllo

osserva il loro impulso
come ogni cosa con naturalezza
frana nel vuoto

*(Un Tempo l’uomo intendeva il Respiro )

un tempo l’uomo intendeva il respiro
della ginestra,
la fragilità originaria
contatto leggero con la terra
il segreto innocente
del sussurro dell’iris

dopo secoli di rumore prepotente
per le strade
stanze di cemento bianchissimo
un’ordinata
mortificazione

la recrudescenza ostinata
di quella parola
nel silenzio della metropoli
che sovrasta

i fiori troppo limpidi
non parlano a voce bassa
tra gli ordinati salici
non basta più ascoltare

è inutile chiamarli
risponde il tuo riflesso
soffocati in un feretro
di galaverna e poliuretano
quei fiori sono
morti

*
(Il Senso delle Cose)

il senso delle cose
lo avverti nella persona gentile
che frantuma l’indifferenza
di un istante
un sorriso
tutto qui
banale

il senso delle cose
quali cose poi
un disordinato
pianificare
la sopravvivenza

e ogni tanto
nelle fratture del progetto
si insinuano le variabili
del disfacimento

una cortesia imprevista
un affetto inaspettato
ricompensa l’equazione
tra lo zero che annienta
e il senso che si sgretola
in un’impenetrabile
raggiera
di possibilità

 Mario Famularo è nato nel 1983 a Napoli. Ha realizzato il portale dedicato alla poesia e alla critica letteraria  Kerberos Bookstore, attraverso il quale ha cercato di promuovere l’interesse per la tradizione e per le voci
 nuove della poesia giovanile contemporanea, in collaborazione con diverse realtà, e in particolare con il  forum letterario Gladiatori della Penna. In tale ambito, ha pubblicato ilBreviario di metrica di base per pigri (2014), organizzato le selezioni per le antologia di poesia Arenae Florilegium, Volumi I (2014) e II (2015), e segue l’iniziativa Kerberos Gymnasium, una serie di esercizi collettivi sugli strumenti del linguaggio poetico, che convergeranno in una autonoma pubblicazione. Le sue raccolte di versi sono disponibili al pubblico tramite diffusione diretta ed editoria al dettaglio, sia cartacea che digitale. Tra queste: Juvenihilia (2009), la tragedia Res Publica Iustitia Privata, scritta a quattro mani con Vittorio Cerruti, Le Nascoste Cose (2011), Il Canto del Domatore (2016).

mercoledì 17 agosto 2016

“Ma silenzio è lo stare cristosenza”: sul Diarietto cattolico di Giorgio Casali

Giorgio Casali, Diarietto cattolico, Ladolfi 2016
recensione di AR

http://www.ladolfieditore.it/index.php/it/perle/perle-poesia/diarietto-cattolico.html
«Non li vedete sotto? / tre chiodi» (25 dicembre, p. 12). È il distico che apre questo Diarietto, in cui il Natale è già proiettato nella donazione assoluta del Figlio sul Golgota che sempre porta con noi e rende leggera la nostra croce (cfr. la poesia Stazione a p. 35).

Mi ha molto commosso leggere questa raccolta di versi che sono un cammino di fede e conversione intonati sobriamente, al ritmo sincopato di un diaframma che si fa tamburo ad emozioni vitali, essenziali e che non è possibile non condividere: «adesso che il mio cuore non batte più da solo / sta tutto in vita, / è doppia pulsazione» (Battito, p. 40). Chi viene illuminato non p a sua volta non emanare qualche vibrazione luminosa e renderla disponibile a chi a lui rivolga lo sguardo.

La plaquette è caratterizzata da uno stile onesto ed umile, trasparente e al tempo stesso riservato, intenso e vero come in fondo dovrebbe essere agostinianamente una confessione in cui ci si lascia lavorare da una Misericordia sempre provvidente, piuttosto che far noi uno sforzo di volontà inevitabilmente caratterizzata da condizionamenti e oscurità (l’esergo eliotiano – “Signore, non sono degno…” – è significativo in questo senso): del resto la grazia è gratuita, appunto, e non dipende dai nostri meriti ma dal nostro farle spazio per accoglierla: «il tuo tempo il mio lo trasfiguri – fidarsi ancora non è reato» (Grani, p. 19).

Così pure le devozioni “antiche” vengono ri-considerate nella loro amorevole, sapiente e universale semplicità: «anche l’uomo tuo Figlio il maschio / si accucciò nel seno / e chiedendo ti prenderai cura / rialzerai lo sguardo, il nostro» (Non cessate, o Potentissima, p. 21).

La fede va coltivata e sempre percepita come un dono e non come un premio. La poesia a pagina 26 fa implicito riferimento alla pianta di ricino sotto la quale il profeta Giona trova gradito riposo e che improvvisamente come era rigogliosamente cresciuta si secca (se appunto non ravviviamo in noi la gratitudine per la vita, per gli affetti, per i talenti… essi si inaridiscono): «Devi vedere che non si muore / quando lo stomaco si sta rivoltando  / e il cuore / davanti la pianta bruciata di sole / s’aggrinza e scolora / trovando bloccata / la sua capacità di fiore.»

Il male in noi e attorno a noi, la morte vengono convertiti/trasfigurati solo dall’amore di Gesù che ci proietta corpo e anima in una  «… carne / una sola, senza tempo» (Attesa che i corpi si ritrovino, p. 27); «Ma tu strapperai queste dita / (…) / come al pavimento affezionate: / le strapperai, tu le farai spiccare…» (Cracovia, p. 29); «Non temere i terrori della morte / se la spina che rimane conficcata / porterai alla fine nella carne / non del tutto intonacata.» (Corpus III, p. 32).

Fortissima la poesia Eucarestia dove il Cristo si lascia uccidere, mangiare, assimilare e chiede insistentemente al tu in cui ogni lettore/fedele può immedesimarsi: «se non dovessi come fece scivolare / nelle fogne puzzolenti del paese, // se non dovessi, dimmi, / se non dovessi?» (p. 18).

Molto partecipe e perspicua anche la bella introduzione di Francesco Iannone, a sua volta valente poeta.
Un vademecum che può aiutare molti a ritovare il sapore della preghiera: non solo formule, salmi e riti (certo indispensabili) ma anche semplice risonanza qui ed ora, in questo nostro costantemente liquido e spesso ingiusto mondo,  di quella scintilla assoluta di bello e divino ancora più minuscola, indefinibile e pervasiva del bosone di Higgs (di cui è in primis la Fonte).

lunedì 15 agosto 2016

Gli Specchi Critici - Luci e Ombre degli istanti esistenziali nel Tempo che si Forma di Luca Lanfredi - Luca Cenacchi

E’ difficile cercare di commentare il libro di Luca Lanfredi: Il Tempo che si forma, Arcolaio 2015. L’essenza del poetare dell’autore, come suggerisce l’editore stesso, può essere solo intuita abbandonandosi alle sue ombre.
Lanfredi ha uno stile pulito che fa leva su un lessico frugale per presentare l’immediatezza di un istante in cui, talvolta, i limiti della realtà vengono “sfocati”, come dice il prefatore, da un orizzonte interiore(come nel componimento l'Accento), il quale  poi prende il sopravvento. Questa tuttavia, non è la sola declinazione che gli istanti lanfrediani assumono. Altre volte, proprio da questa dimensione intima, finiscono per riemergere dalla memoria dettagli significativi della realtà che si scorciano, da una parte, in una veloce pennellata “elencativa” (L’Impazienza), dall’altra strutturano autonomamente il componimento (L’ottavo mese dell’anno). Oltre questo sento la necessità di rimarcare che, in alcuni frangenti, tra la dimensione reale e quella emotiva, c’è uno iato; una separazione manifesta non solo dalla divisione strofica, ma anche dal cambio repentino del discorso che improvvisamente si chiude in se stesso, nel senso che si astrae dalla descrizione.

(l'Accento)

Si è come gli alberi infilati,
questo si. Sotto, l’asfalto
Che diradica e indosso
le cortecce da sbalzare.

Dicevamo di noi, un tempo,
con quell’accento allegro
      Che colora e solo la realtà
può fare lingua.

Proprio in questo componimento si nota una tendenza, se non sapienziale, nettamente assertivam nella prima strofa ed è come se l’autore stesse dialogando, attraverso il ricordo, per rimarcare quella credo si possa chiamare una rivelazione. Infatti, lungo tutto il libro, l’io lirico scompare e riappare nella trama dei dialoghi, di rievocazioni, rivelazioni e asserzioni, che costituiscono costanti di un “flusso narrativo intermittente”il quale se, da una parte, lascia la sensazione che non si sia mai esplicato tutto, dall’altra sembra sempre riprendere da un punto di partenza non ben definito.
 Questa incostanza, detta narrativa solo per intendersi, tende a disfare la dimensione temporale per come la  conosciamo, al fine di pervenire a un momento intimo, frutto di quella che ritengo sia una selezione di oggetti,  gesti e corpi all’interno delle luci e delle ombre di ricordi o momenti significativi, che poi vengono dilatati  lungo tutta la durata del componimento in quel che, talvolta, pare un eterno presente, nonostante le precisazioni temporali dell’autore. Perché, alla fine, quando Lanfredi ricorda, in realtà, rimurgina sempre in funzione non tanto del presente, ma di una immediatezza: per questo il lettore - almeno io- ha sempre l’impressione che la specificazione temporale rimanga nei confini della parola e quindi, all’interno del testo, abbia un valore puramente nominale. Questo entrare uscire da sé impone sempre un “momento” interiore che distrugge la normale esposizione/ concatenazione delle azioni, danneggiando irrimediabilmente la percezione del tessuto temporale. Forse è proprio questo, alla fine, il tempo che si forma: ovvero quella dimensione indefinita e interiore dell’immediatezza, ma non inconscia, in cui si addensa la poesia; Altersì: il momento del concepimento dell’azione per, forse, sfuggire, a quel “slabbrato sentimento dell’istante” che obbliga a “parlare in sottrazione” e in cui si dispiega inevitabilmente il nulla. Un certo sentimento che riattualizza , se si vuole, certi echi keatsiani, cui Lanfredi dimostra di non essere estraneo. Quella, per dirla con le parole dell’autore, “eterna indecisione” in cui si inscrivono “la porta leggermente schiusa”,” il penultimo confine dell’autunno”etc…
Alla fine ritornare insistentemente su eventi già compiuti, oggetti o gesti cos’è se non altro il tentativo di estendere i confini della loro esistenza?
Detto questo è necessario attestare la caratteristica esistenziale che percorre il libro e ha il suo picco più lucido ne “Lo spazio geografico”: sezione sospesa tra le tinte lugubri della coscienza del vuoto, del nulla e della morte.
Frazione in cui l’autore non nasconde una certa positività trincerata dietro la significatività di vari particolari: “ e, poi attento al sorgere/ dell’ora, il quotidiano gesto/ che stupisce”.Gesti attraverso i quali si tenta sempre di testare i limiti della condizione in cui ci si trova assieme al mondo. In queste pagine si assoda l’importanza di questo elemento significativo, fatto poesia, il quale sembra avere valenza assoluta per l’autore rispetto alle parole/segni, attraverso una rievocazioni  suggestive “ il segno del vino che bevemmo/ rosso le labbra/ci attramonta”

(la presenza)

inoltre l’esplosione questa notte, rancorosa,
dell’una e venticinque che mi ha aperto
gli occhi, ma accanto già la pace
del tuo traverso ridere
sognando.

E attorno al giorno la risicata gioia
del panneggiare rosso degli incroci
e il minimo cortile, ingigantito da
un azzurro- sole.

Ne “la pronuncia del nome” sembra che l’assenza si configuri come assenza degli altri, quegli sguardi trincerati dietro ai corpi e si addensa quindi la necessità di vedere cosa rimane dopo l’apparenza, oltre che riprendere contatto con una dimensione interiore, quel vero sentirsi, il quale si rivela essere con sé e con gli altri: “ la sete, che rimane tra le dita/ quando l’aria ne asciuga/ l’apparenza”. Per la necessità di stabilizzarsi allora:“ si compilano le liste, sai, per una necessità profonda: / scrostare i ritratti che stiamo interpretando/ doppiare il movimento inseguito dai cronisti”. Ciò che si trova dopo la nebbia ci si aggrappa saldamente, come a quel luogo che pare irreale di (in extremis) dove si afferma definitivamente il primato dell’esistere sopra la parola: “ Forse, come nel posto dove tutto/ esiste senza una parola, dove il tempo/ scola senza una nuova sosta./ Di quello starsene seduti dentro il/ giorno: il margine riarso della strada chiusa,/ la mano tesa col segno d’infinito.”
Ma “l’eterna indecisione” fuga solo la domanda senza risponderla adeguatamente. Allora alla fine di tutto cosa rimane? Quello che rimane è l’istante significativo, come si è già detto, composto da oggetti, corpi, gesti condensati in istanti specifici che nella loro positività o negatività sono rapiti al tempo per mezzo della poesia. Lanfredi non ci propone tanto l’esistere, ma l’esistenza depurata dalla contigenza: il particolare significativo, che si sbozza sullo sfondo di un colpo d’occhio, ma facciamolo dire all’autore:

(e un biglietto della lotteria)

E ancora(lo sai?), ho bisogno dei tetti
che da quassù si vedono e di quel cielo povvido
che serrano così, come l’andare roncato dei tuoi fianchi,
come le gru e le antenne che si sbozzano
sullo sfondo di questo colpo d’occhio.
ci sarà, la fortuna – dimmi?
            (Dimmi) : ne avremo?



Luca Lanfredi è nato nel 1964. Abita e lavora a Brescia. La sua prima raccolta, A mezza luce (Clepsydra edizioni). Con L'Arcolaio, nel 2015, pubblica Il Tempo che si Forma con cui ottiene diversi successi, tra cui spiccano: secondo classificato al premio città di Como 2016, finalista al premio Solstizio dell'associazione libero de libero.

Luca Cenacchi è nato a Forlì nel 1990. Nel 2011 la poesia Laocoonte – ovvero di se stesso è stata selezionata per essere pubblicata nell’antologia del Premio letterario Ottavio Nipoti - Ferrera Erbognone. Ha contribuito a fondare e sviluppare il forum letterario i Gladiatori della penna. I suoi testi sono stati presentati nella serata Arcadie Invisibili all’interno del progetto La Bottega della Parola organizzata dalla Associazione culturale Poliedrica di Forlì. Nel 2016 il blog letterario Kerberos ha scritto un articolo critico di alcune sue poesie inedite Valore-contenuto e valore-bellezza: il senso del sacro attraverso la trasfigurazione dell’immagine e la neutralità del messaggio. Nel mese di Aprile dello stesso anno tre sue poesie(La Perla , Anoressica e Francesca) sono state selezionate per essere inserite nella antologia La mia sfida al male pubblicata a seguito della terza edizione del concorso letterario Come Farfalle Diventeremo Immensità , in memoria di Katia Zattoni e Guido Passini, indetto da Fara Editore. Aspirante critico letterario è ansioso di contribuire al dibattito sulla poesia contemporanea attraverso la rubrica critica Gli Specchi Critici realizzata in collaborazione con il blog Kerberosbookstore, Fara Poesia e ora anche L'Arcolaio. Nel 2016 è stato giudice presso il concorso Faraexcelsoir 2016. Ha partecipato alla rassegna poetica di Pianetto Poeti alla finestra presentando una serie di poesie inedite. Per ulteriori informazioni sul progetto: glispecchicritici@gmail.com, facebook, twitter

mercoledì 10 agosto 2016

A dieci anni dalla scomparsa di un poeta

di Vincenzo D'Alessio





L’undici agosto del 2006 scomparve il poeta e giornalista Biagio Torello.
Era nato a Montoro ed aveva intrapreso la carriera di fotografo che lo portò a fondare lo studio fotografico “Torello” oggi condotto dagli eredi.
Il viscerale amore per la propria terra irpina, uscita umiliata e saccheggiata dal sisma del 23 Novembre 1980, lo condusse con alcuni fedeli amici alla fondazione dell’emittente televisiva TELESPAZIO 1 con sede in Montoro, da dove irradiava i programmi di ripresa civile, denunciava i misfatti dei politici, ospitava le voci delle persone delle valli dove l’emittenza giungeva.
Quest’inizio di attività investigativa sul territorio gli procurò nemici e minacce reali.
Biagio e i suoi familiari continuavano l’attività di fotografi ufficiali sui territori della valle dell’alto Sarno con scene da eventi religiosi, feste patronali, eventi sociali. La fonte della propria economia familiare era questa, mentre la televisione richiedeva impegno e spese.
Dalla sua giovinezza conservava quaderni di poesie, nascoste come “piccoli segreti”. Erano per lo più poesie d’amore. Nell’ambito dove si svolgeva la sua quotidiana esistenza mettere a nudo questi sentimenti sarebbe stato pericoloso. L’Amore non ha la stessa voce per tutte le orecchie.
Così dallo schermo della sua TELESPAZIO 1 dedicava, nelle ore finali dei programmi, i suoi versi agli ascoltatori/ascoltatrici e a sé stesso: finalmente poteva dare sfogo a questi sentimenti nascosti per tanti anni.
Vedranno la luce tre raccolte di versi: nel 1991 Piccoli Segreti (EdiGuarini); nel 1998 Fuori dal Mondo (EdiGuarini) e la raccolta postuma nel 2007  Poesie D’Amore (EdiGuarini). L’unico racconto esce nel 1992 con il titolo di Pecoronia ( EdiGuarini): un’analisi attenta, ironica fino allo spasimo, delle problematiche territoriali dell’Irpinia post sisma dell’80.
Vincitore in diversi concorsi nazionali di poesia raggiunge il successo, post morte, attraverso la critica del grande meridionalista Paolo Saggese, il quale il 15 settembre del 2010 gli dedica un’intera pagina nella rubrica culturale curata sul quotidiano “Ottopagine” di Avellino con queste parole: “(…) Nelle poesie postume, l’Autore conferma questa sua “ anima” di poeta alla ricerca di un amore puro, rappresentato spesso con la cantabilità della canzone, ricchi sono i suoi componimenti di strutture anaforiche frequenti, e che danno l’idea della genuinità del canto.”
A dieci anni dalla sua scomparsa nessun murales ricorda il figlio poeta di questa terra contadina, lo scomodo giornalista dei dimenticati, dei senza voce.
Gli amici hanno affisso un volantino, sbiadito in fretta sotto il sole di quest’agosto 2016.
Vorrei, dal canto mio, ricordarlo con i versi di un poeta che dell’Amore ha fatto nei suoi versi La forza degli occhi : “(…) A dirglielo resti la via / e il primo oltraggio / della donna che ride / per dargli coraggio. / Racconterà che vide / la fanciulla pietosa / spogliarsi come la rosa.” (Alfonso Gatto).

Montoro, 10 agosto 2016

lunedì 8 agosto 2016

Su “Perché scrivere se scarto il silenzio” di Mariangela De Togni

in AA.VV., Uno scarto di valore a Bardolino, a cura di A. Ramberti, Fara Editore 2016

recensione di Vincenzo D'Alessio

http://www.faraeditore.it/nefesh/ScartoBardo.html
 



La raccolta poetica: “Perché scrivere se scarto il silenzio ” inclusa nell’Antologia: Uno scarto di valore a Bardolino (FaraEditore 2016) l’ho scelta tra le altre incluse nel testo perché fortemente contro corrente rispetto ai tempi che viviamo.
Lo scarto, preso a tema dell’incontro avvenuto nell’Eremo di Bardolino (VR) dal 4 al 6 marzo di quest’anno, ha un valore contrapposto all’esigenza attuale che è il possedere tutto, e tutti, ai fini della propria tranquillità economica.
Il troppo, in questa società contemporanea, non storpia ma rende visibili le persone meno sensibili al valore dello scarto. Gli ultimi stanno bene nella loro povertà, ci sono nati, essi formano lo scarto della società.
De Togni è una sposa della fede cristiana, la voce che dialoga con Dio nel quadrato dei chiostri, dentro le mura del convento, nella musica sacra del silenzio. La vita condotta nella quotidianità ha la cadenza ancestrale del ritmo gregoriano, messa solenne composta da una timbrica fortemente avvolta dal silenzio delle volte a crociera delle piccole cappelle o delle vaste cattedrali.
La Nostra conosce questa musicalità e l’ha trasfusa nei versi, in toni costanti medio alti.
Il termine utilizzato nell’interrogativo affermativo iniziale: “Perché scrivere” che fa da titolo alla raccolta costituisce l’impossibilità di raggiungere il Mistero che abita la poesia, il lato percepibile costituito dalla parola e lo scarto costituito dal silenzio energia dal quale arrivano i sentimenti, le emozioni, i ricordi, l’energia positiva che rende universale il messaggio contenuto nella parola.
La similitudine regna sovrana nell’intera raccolta perché la lingua non può transustanziarsi in silenzio: “Scrivere è diventare sostanza” (Scrivere, pag. 180) è l’affermazione del sacro che da duemila anni consegna all’umanità il corpo e il sangue di Gesù Cristo nel Mistero della Fede.
Le anafore si rincorrono liberamente nelle poesie della presente raccolta spingendo il lettore un passo più avanti verso l’altare del silenzio, l’immensità dell’Infinito: “Non ha visto l’alba lontana / il paese che vola su ala di farfalla / (…) Non il profumo di sillabe / dal sapore di melograno di Samaria / non parole smarrite su strade / di cielo nell’esilio della solitudine.” (Salmodia, pag. 89).
Contraria ad ogni formula mercenaria la poetica di Mariangela De Togni si alimenta all’inesauribile fonte della fede. Per me la fede in poesia è voce pura del creato senza le pareti dei conventi, delle cattedrali, dei testi sacri. La fede che percepiamo nei versi della Nostra ha la forza della ricerca inesausta della bellezza che è nelle creature, nel creato e nel creatore: “(…) Ti ho sempre cercato. / Mi scorrono sulle mani / i pensieri e il cuore / si è appoggiato al vento. / A gustare l’incomparabile. ” (Ti ho sempre cercato, pag. 191).
Amato lettore che riuscirai come me a godere della sacralità dispensata dai versi della Nostra raggiungerai l’ordito della composizione tra sineddoche, interrogativi irrisolti, tributi ai luoghi sacri alla fede cristiana, contemplerai il dilemma che ci attanaglia dalla nascita: “(…) Come il dramma della fede / nella certezza dei passi” (Ho sfiorato il vello della notte, pag. 182), le nostre speranze di fronte al male degli uomini, all’orrore delle morti nel tempo che insieme viviamo, la certezza che il bene è ancora vivo.

L'uomo che al mattino


di Vincenzo D'Alessio


L’uomo che al mattino

dispensa sorrisi

tra tazze e vapore

ad occhi assonnati

a voci un po’ roche

miscela caffè

le parti più buone

è calvo, bassino,

lo chiamano: Biondino!

lunedì 1 agosto 2016

Nuvole sparse: Giuseppe Wochicevick

Nel silenzio delle ombre

Sarà come il mare
nuotare in una lacrima
goccia di sudore
fuggita dalla pelle
scivolata dal tuo cuore
Un brivido salato
sospinto dal vento
accarezza il cielo
tradisce
il tuo sorriso
infranto sugli scogli
nel silenzio
delle ombre
sfiorato dalla luce
nascosto
dalla notte

Giuseppe Wochicevick