recensione di AR su La firma segreta di Franco Casadei (Itaca 2016)
Ho scelto come titolo un verso tratto dalla poesia (di evidente ispirazione foscoliana) La sfida dei sepolcri (p. 17) perché rivela il nocciolo della poetica di Franco Casadei, medico che ben conosce le debolezze umane (fisiche e non solo) e che vive un cammino profondamente cristiano («Non è l'indifferenza delle nuvole / che ti permette di stare davanti al male, / ma quella croce forse / e l'accettarne ogni mattina / un piccolo framento sulle spalle.», Il male di vivere la croce, p. 32), di concreta testimonianza nel prendersi cura di chi è nel bisogno (non a caso diverse poesie qui raccolte nascono da un dialogo con articoli ed editoriali di Marina Corradi, giornalista molto attenta e sensibile alle più varie problematiche contemporanee). Ritorniamo al verso che amo particolarmente per l'uso del verbo ancorare, anche a me caro in quanto racchiude non solo il senso di gettare l'ancora, di aderire a qualcosa (o meglio a Qualcuno) di affidabile, ma anche quello di eternare, di far sì che l'avverbio ancòra si iteri indefinitamente: il cuore dell'uomo desidera non solo la felicità ma anche un “dove” che perduri, “un centro di gravità permenente”, direbbe un altro Franco.
Il libro è diviso in quattro sezioni, la prima è “Periferie” (che si apre con una citazione di Pavese in cui si parla dello «sforzo di star vivi d'ora in ora») a cui appartiene la poesia che abbiamo citato e da cui riportiamo qualche altro lacerto: «gli ultimi tre avventori inchiodati / al banco come insetti di una collezione» (“Nighthawks” Nottambuli, p. 14, ispirata a un dipinto di E. Hopper); «nel fondo dell'Africa muiono a schiere / i figli delle guerre e della fame. // Tutto è compiuto, / anche il dolore manca.» (Il Lacor Hospital di Gulu, p. 22); «Per il viaggio duemila euro a testa / in contanti, la gente tremante / raggomitolata sul ponte. // (…) // Allora soltano il rumore del mare / che d'improvviso pareva / un immenso animale che li guardava.» (E quanto nero e immenso è il mare, p. 23); «rimane sempre vivo / il bisogno di una porta aperta, / di una storia alla quale appartenere.» (Le periferie umane, p. 28). Vorrei riprodurre integralmente la poesia inziale, I girasoli, di splendida forza visiva alla van Gogh: «Solenni e fieri / nel colmo dell'estate // a inizio autunno, / a capo chino / come seni stanchi, / una schiera di soldati / annichiliti e vinti.» (p. 12).
La seconda sezione, “Partire o stare”, ha in esergo versi ungarettiani che si concludono col distico Cerco un paese / innocente, ed è dedicata appunto al girovagare, all'errare, al migrare, al decidere: «volteggia il condottiero / in ampie curve, si alza, / vira si agita la flotta, / nel fremere dell'aria / diventa geometria / memoria di un altrove» (Come rondini sospese, p. 36); «per andare altrove / non occorre andarsene lontano, / ciò che sta oltre il segno / richiede un istante di libertà, di sosta» (Otre il segno, p. 39); «le locomotive e i loro affacciarsi ansante / come di animali che / – per tornarsene alla tana – / annusino le impronte» (Le stazioni, snodi di destini, p. 40); «Adagiati sulle case degli uomini / i tetti sembrano ali aperte sopra un nido, / groppe pazienti di animali.» (I tetti del borgo antico, p. 41).
La terza sezione, “Maria, tutte”, cita in apertura alcuni versi di Pär Lagerqvist che si chiudono con questi: … ed è ancora lei / che un giorno ho amato, / tutto ciò che è stato esiste ancora. Poesie dunque dedicate all'altra metà del cielo: «è una guerra il parto / vita che esplode» (Diventare madre, p. 49); «Lasciati riempire di stupore quando / – nel primo riconoscerti – / ti dirà tacitamente: eri tu / quel buio morbido che mi sentivo attorno!» (Eri tu, p. 50); «Delle trincee delle Tofane / avevo sentito i vecchi più volte raccontare, / ma ciò che mi colpì, di quell'elmo, / fu una scritta, rigata sopra con un coltello» («Mamma, se posso torno», p. 57).
L'ultima sezione, “Se non si muore”, cita in esergo Giovanni 12,25: Se il chicco di grano / caduto in terra / non muore… si parla dunque di morte e rinascita: «A ottobre il far della sera / pare l'ora del convenire / di anime lontane.» (Tramonto di ottobre, p. 60); «Ferita e vuota / la terra nelle zolle rivoltate, / aperta all'annidarsi di sementi» (Gli alberi con le chiome spoglie, p. 63); «Nell'aria vagabonda / un'ape zelante / trasforma il sole in miele: / lei sola dà fiducia all'auspicio.» (Indolenze estive, p. 67); «Niente rinasce se non si muore.» (Se non si muore, p. 70). Questo è il verso che chiude il libro: in fondo anche il poeta deve un po' morire a sé stesso, lasciarsi percorrere dalla vita, immedesimarsi negli altri, farsi voce e portavoce, sentirsi umile parte di un creato sempre sorprendente, di un'umanità a volte cinica e crudele, altre volte amabile e accogliente. I versi di Franco Casadei creano immagini a tutto tondo che ci restano dentro, esprimono sentimenti veri e “coinvolti”, fanno pulsare il paesaggio e la natura e ci mettono dentro il vivere ricordandoci che abbiamo delle responsabilità perché dietro ogni cosa, ogni volto, ogni evento c'è La firma segreta.
mercoledì 22 giugno 2016
martedì 21 giugno 2016
La poesia e l'arte figurativa di Venanzio Reali ai Cappuccini di Cesena 1-2 luglio 2016
Associazione Culturale
Agostino Venanzio Reali
Sogliano al Rubicone (FC)
Email: sparireinsilenzio@gmail.com
Web: www.comune.sogliano.fc.it
Tel. 3343794512
Agostino Venanzio Reali
Sogliano al Rubicone (FC)
Email: sparireinsilenzio@gmail.com
Web: www.comune.sogliano.fc.it
Tel. 3343794512
LA POESIA E L’ARTE FIGURATIVA
di AGOSTINO VENANZIO REALI
INVITO
Ho
il piacere di estendere l’invito alle seguenti attività:
Presso
il Convento dei Frati Cappuccini di Cesena:
1)
inaugurazione
della mostra “Agostino Venanzio Reali”, allestita presso il convento dei Frati Cappuccini
a Cesena e organizzata dai Frati Minori Cappuccini, dall’Associazione “Amici
del Monte”, dal Quartiere Cesuola di Cesena e dall’Associazione “Agostino
Venanzio Reali”, con il patrocinio dei comuni di Cesena e di Sogliano al
Rubicone:
venerdì
1° luglio, ore 18: inaugurazione
della mostra di pittura scultura e grafica Paesaggi
dell’anima e visita guidata al
convento. Interviene padre Prospero Rivi.
sabato
2 luglio, ore 18: poesia e arte, con
interventi di Ines Briganti (per il rapporto di Reali con i poeti del
novecento), Bruno Bartoletti (per la poesia). Letture di Monica Briganti.
A seguire premiazione del concorso nazionale di
poesia I Viali dell’anima.
Al termine buffet, offerto dalla Centrale del
latte di Cesena e dall’azienda Bagnolini.
Presso
il teatro “Elisabetta Turroni” di Sogliano al Rubicone:
2)
presentazione
degli Atti nel teatro “Elisabetta Turroni” di Sogliano al Rubicone
sabato 17
settembre, ore 16: la presentazione
sarà preceduta dall’illustrazione dei lavori svolti da tre classi della scuola secondaria
di 1° grado dell’Istituto Comprensivo di Sogliano, grazie alla collaborazione
dei proff. Giulia Rossi, Alessia Carghini, Mauro Pracucci e Sabina Negosanti.
Un ringraziamento particolare va agli sponsor: Comune di Sogliano, Sogliano Ambiente, Istituto di Credito Cooperativo “Romagna Est”, Pro Loco di Sogliano e Ponte Uso.
Un ringraziamento particolare va agli sponsor: Comune di Sogliano, Sogliano Ambiente, Istituto di Credito Cooperativo “Romagna Est”, Pro Loco di Sogliano e Ponte Uso.
Nell’anno in corso è stato sospeso il premio
nazionale di poesia giunto alla 15ª edizione, trasformato a partire dall’anno prossimo in biennale. La
causa è dovuta al fatto che tutte le risorse sono assorbite dalla pubblicazione degli Atti / raccolta delle
relazioni svolte dal 2011 al 2015, un volume di quasi 400 pagine.
La sua presenza renderà certamente migliore la nostra attività.
Con preghiera di estendere l’invito, porgo cordiali saluti.
Bruno Bartoletti
Soffio di vento
di Vincenzo D’Alessio
21 giugno 2016 (S. Luigi Gonzaga)
Soffio di vento
occhi chiari
sognano viaggi
per non morire
dietro motori
che vanno e vengono
come vagoni interminabili
di un treno passeggeri
Luigi ha il cuore
che cammina ad ottani
parla poco, sorride
ha denti sani per
mangiare il suo pane
e poi sognare
21 giugno 2016 (S. Luigi Gonzaga)
Soffio di vento
occhi chiari
sognano viaggi
per non morire
dietro motori
che vanno e vengono
come vagoni interminabili
di un treno passeggeri
Luigi ha il cuore
che cammina ad ottani
parla poco, sorride
ha denti sani per
mangiare il suo pane
e poi sognare
“… ho nascosto la lingua in cantina”
Su Di una notte morente di Gianfranco Lauretano (prefazione di Marco Marangoni, Raffaelli 2016)
nota di lettura di AR
Un'atmosfera famigliare percorre le pagine di questa raccolta pulsante di vita anche attraverso le ore del sonno e tutt'altro che “morente” come potrebbe suggerire il nero della copertina (del resto il titolo stesso rimanda di fatto all'attesa del nuovo giorno). C'è una immersione francescana nel creato: «Per il sole grazie, per la pioggia / l'acqua penetra la terra / tocca le radici e sveglia i fiori» (Dieci grazie, n. 4, p. 18). Una fiducia nell'oltre nonostante le fatiche, le malattie e le croci quotidiane: «Grazie per l'alzheimer di mia madre / che avanza come un'omissione / (…) / non esiste addio ma solo / una provvisoria deviazione / sulla via…» (ivi, n. 2, p. 16). Una visione telogica del nostro esistere imperfetto eppure unico e prezioso: «Grazie per tutto quello che non ho capito / grazie a Dio davvero / se fosse già saputo / non avrei conosciuto niente / (…) / il tempo, quell'invisibile portento / rompe la crosta e ci denuda / e risemina la pelle e quindi dentro» (ivi, n. 7, p. 21).
Le incombenze, le responsabilità, i lutti, i dolori, le gioie e i piacerei che accadono a noi e ai nostri cari, al nostro prossimo (vicino o distante) vengono da Lauretano prima intensamente vissuti e assaporati poi resi poesia con parole pregnanti nella loro sobrietà altamente evocativa: «Il tuo corpo come un fiore raro / una chiesa pronta per la liturgia / campo di un gioco infaticabile / a ben vedere è dove accade tutto / dove risiedo davvero e mi ritrovo» (p. 38); «Così i miei abbracci sono rari e attivi / hanno bisogno di una decisione / quei pochi che ritrovo nelle braccia / quando spuntano tra la pelle e il niente / dalla riserva scarsa che hanno dentro» (p. 41).
La dimensione del sogno e quella del mistero si intrecciano con gli aspetti più prosastici e concreti della quotidianità donando al lettore parole-vela che lo trasportano lontano e in alto – «Sapevo che esiste un verbo discreto / in terra o in mezzo alle nuvole / a dire ciò che interessa davvero» (p. 44) –, o parole-lama che penetrano nel profondo, rivelano commuovono: «Parlare è un miracolo per me / che ho nascosto la lingua in cantina / da piccolo senza dirlo a nessuno // (…) // ma la lingua può darsi che scenda dal cielo / infatti ritorna e sistema i suoi suoni / con mille cerotti si aggiusta da sola» (p. 45); «… Sto qui nel silenzio ventoso /(…) / dove il sole cala crudelmente / portando gli anni come in uno zaino / (…) / e non smetto di pretendere le mie parole» (p. 49).
Sì il poeta è un fingitore/plasmatore di parole, conosce «le strade del sonno» (p. 50), sa che «in ogni casa accade un racconto inaudito» (p. 53), riesce a captare la «luce tenue dietro l'orizzonte» (p. 54) e la minima voce nel silenzio, perché «neppure quello sta zitto» (p. 56).
nota di lettura di AR
Un'atmosfera famigliare percorre le pagine di questa raccolta pulsante di vita anche attraverso le ore del sonno e tutt'altro che “morente” come potrebbe suggerire il nero della copertina (del resto il titolo stesso rimanda di fatto all'attesa del nuovo giorno). C'è una immersione francescana nel creato: «Per il sole grazie, per la pioggia / l'acqua penetra la terra / tocca le radici e sveglia i fiori» (Dieci grazie, n. 4, p. 18). Una fiducia nell'oltre nonostante le fatiche, le malattie e le croci quotidiane: «Grazie per l'alzheimer di mia madre / che avanza come un'omissione / (…) / non esiste addio ma solo / una provvisoria deviazione / sulla via…» (ivi, n. 2, p. 16). Una visione telogica del nostro esistere imperfetto eppure unico e prezioso: «Grazie per tutto quello che non ho capito / grazie a Dio davvero / se fosse già saputo / non avrei conosciuto niente / (…) / il tempo, quell'invisibile portento / rompe la crosta e ci denuda / e risemina la pelle e quindi dentro» (ivi, n. 7, p. 21).
Le incombenze, le responsabilità, i lutti, i dolori, le gioie e i piacerei che accadono a noi e ai nostri cari, al nostro prossimo (vicino o distante) vengono da Lauretano prima intensamente vissuti e assaporati poi resi poesia con parole pregnanti nella loro sobrietà altamente evocativa: «Il tuo corpo come un fiore raro / una chiesa pronta per la liturgia / campo di un gioco infaticabile / a ben vedere è dove accade tutto / dove risiedo davvero e mi ritrovo» (p. 38); «Così i miei abbracci sono rari e attivi / hanno bisogno di una decisione / quei pochi che ritrovo nelle braccia / quando spuntano tra la pelle e il niente / dalla riserva scarsa che hanno dentro» (p. 41).
La dimensione del sogno e quella del mistero si intrecciano con gli aspetti più prosastici e concreti della quotidianità donando al lettore parole-vela che lo trasportano lontano e in alto – «Sapevo che esiste un verbo discreto / in terra o in mezzo alle nuvole / a dire ciò che interessa davvero» (p. 44) –, o parole-lama che penetrano nel profondo, rivelano commuovono: «Parlare è un miracolo per me / che ho nascosto la lingua in cantina / da piccolo senza dirlo a nessuno // (…) // ma la lingua può darsi che scenda dal cielo / infatti ritorna e sistema i suoi suoni / con mille cerotti si aggiusta da sola» (p. 45); «… Sto qui nel silenzio ventoso /(…) / dove il sole cala crudelmente / portando gli anni come in uno zaino / (…) / e non smetto di pretendere le mie parole» (p. 49).
Sì il poeta è un fingitore/plasmatore di parole, conosce «le strade del sonno» (p. 50), sa che «in ogni casa accade un racconto inaudito» (p. 53), riesce a captare la «luce tenue dietro l'orizzonte» (p. 54) e la minima voce nel silenzio, perché «neppure quello sta zitto» (p. 56).
venerdì 17 giugno 2016
Diploma i merito e Menzione speciale del Premio Caproni a Colomba Di Pasquale
Il mio Delta e dintorni di Colomba Di Pasquale riceve due riconoscimenti dal Premio Giorgio Caproni. Complimenti per questi nuovi gratificanti traguardi raggiunti da una voce poetica che non cessa di colpire ed emozionare giurati e lettori!
giovedì 16 giugno 2016
Massimiliano Bardotti: Siamo sempre stati noi
in AA.VV., 2016. La luminosità dell’ombra, Fara Editore
recensione di Vincenzo D'Alessio
Spero di avere qualche lettore che approvi, con me, il tempo di leggere questi fogli di belle Antologie della Casa Editrice Fara, dove approdano le voci sempre nuove e diverse dei poeti, scrittori, critici, musicisti contemporanei.
Proprio a quest’ultima categoria di blues man appartiene Massimiliano Bardotti qui inserito vincente con la raccolta poetica Siamo sempre stati noi (pp.189-198). Un poema in versi lungo le rive del misterioso fiume dell’esistenza. Un soul man che ha vissuto con spensierata forza centripeta la bella gioventù ed oggi la canta alle generazioni del presente, con l’invito a sostare sulle corde del suo fantastico banjo.
La giovinezza dona le energie per raccontare alle generazioni contemporanee: “Abbiamo fabbricato il futuro senza usare le mani. Il / pensiero prigione rivolto al domani.”
La sequenza degli anni della ripresa economica, che in Italia corrispondono alla fine degli anni Sessanta inizi anni Ottanta, ha significato: “(…) E la vita viveva in ogni angolo dell’Universo, anche una / sedia emana di sé…”
Chi ha vissuto quegli anni, come il Nostro, ha raccolto tutta l’emozione dei sentimenti trasferendola in energia vitale: “(…) Si piangeva gioia e si rideva dolore / era sempre nulla di serio / lacrime d’acqua dolce”. In quel divenire musicale, dove i sogni erano reali: “(…) E non c’erano giorni che non potevano succedere / non c’erano lavori che non sapevi fare / solo non volevi.”
L’anafora “non”, presente in tutto il poema della gioventù, vuole indicarci il Nord della bussola chiamata vita. La ripetizione voluta per esorcizzare gli errori compiuti lungo la strada già fatta e indicare a se stessi, a chi legge i versi, che l’economia spezza le corde dello strumento : “(…) Credevamo a una gloria che aveva per nome / successo, fama, denaro.”
Molti miti di quegli anni sono crollati di fronte alle pulsioni del sopravvivere ai tempi successivi: “(…) A stento mi sento vivo. / (…) Poi torneremo a usare parole di Nietzsche / scoprire Schopenhauer Spinoza / e leggere Jung una volta per tutte / benedire Sabina Spielrein / compatire chi l’ha dimenticata./ Torneremo di nuovo a sperare / amare chi non ci conosce / avremo ancora una volta il coraggio di dirci poeti / guardandoci in faccia.”
L’ironia di oggi, contrapposta alla serenità di allora, regna nei versi come un ritornello, non un rimpianto ma la consapevolezza che quanto si poteva fare è stato fatto, quanto si poteva cambiare si è tentato di farlo: “(…) E c’erano ragazze con le gambe scoperte / gli occhi profondi / ferite che non volevi pulire. / (…) i pescatori tornavano a casa / la tristezza conosceva quei volti.”
Sono soltanto due degli aspetti famigliari al poeta ripresi dalla memoria e confrontati con l’oggi.
Il passato rivisto come una pellicola in bianco e nero alla luce del colore della maturità risulta in alcuni tratti scolorita, diviene un mito, un rincorrere fantasmi di tempi che non durano se non nella mente nostra, protagonisti o comparse dietro una pirandelliana maschera anonima.
Una ballata stupendamente tenuta in armonia dall’enjambement che fa da padrone insieme ad un’appropriata rima saltellante per addolcire il suono della parola/ verso ben conosciuta: “(…) Dio ti manca oggi per paura / e ti chiedi se sei ancora in tempo / a inventarti una fede su misura. / Se vuoi ti accolgo fra le braccia mie di uomo / e ti offro la sola cosa che ho imparato: / Se cominci ad amare Dio, sei da Dio amato.”
I versi di Bardotti sono visceralmente sinceri, svuotano i simulacri del lontano Novecento che non è stato soltanto di formazione interiore ma anche di immense sofferenze nascoste in un altrove senza tempo: “(…) Ai nostri padri aggrappati siamo ancora / loro lottano oramai con innocenza/ sanno in fondo più di chiunque altro / che a chieder grazia otterrebbero rimorsi.”
Risento in questo passaggio bellissima la voce di un giovane poeta meridionale spentasi troppo presto. Ma si sa che i grandi quasi sempre muoiono giovani. La voce è quella di Rocco SCOTELLARO, oggi poeta nazionale per i temi trattati, grazie all’energia meridiana dello scrittore Paolo Saggese & fratelli, che nella poesia I padri della terra se ci sentono cantare annuncia la verità ripresa anche da Massimiliano Bardotti: “(…) Ma così non si piegano gli eroi / con la nostra canzone scellerata. / Nei padri il broncio dura così a lungo. / Ci cacceranno domani dalla patria, / essi sanno aspettare / il giorno del giudizio.”
Il Nostro, dopo aver posto all’inizio della raccolta la dedica agli amici di quel tempo ci pone di fronte alla sua scelta di cambiamento che si confronta con il reale vivendo: “(…) Ora colmi di una nuova commozione / guardiamo il giorno crescere dal basso / e la vita ci par bella.”
lunedì 13 giugno 2016
Muove il dove – versi di un altro pianeta
recensione di Germana Duca a Muove il dove (Raffaelli 2015) di Caterina Camporesi pubblicata sul n. 293 de l'immaginazione maggio-giugno 2016
venerdì 10 giugno 2016
Nuvole sparse: Giusy Càfari Panìco
Soffitti
Il
cielo cambia in continuazione
come
un caleidoscopio.
Stracci
bianchi disegnano
sempre
nuovi scenari
e
volgendo lo sguardo
in
alto
sembra
di essere sempre
in
un luogo diverso,
in
un tempo diverso.
Sopra
di noi
si
creano infinite combinazioni
e
pezzi combacianti,
che
si connettono
in
un preciso momento,
chissà
per quale scopo.
Un
cielo diverso
per
uomini diversi.
Chissà
qual è il tuo adesso
E
con chi lo stai guardando…
Solo
ieri lo guardavamo
insieme.
Ma
il cielo cambia
e
porta con sé chi lo guarda.
Giusy Càfari Panìco
(inedito)
giovedì 9 giugno 2016
Gli Specchi critici - Surrealismo Fisiologico ne la Saggezza dei Corpi di Martina Campi
Questo mese ospitiamo una poetessa e performer originaria di Verona e attualmente residente a Bologna: Martina Campi con La Saggezza dei Corpi , raccolta edita da l’Arcolaio nel 2015, Forlì.
La Campi ci dona un libro che indaga sul periodo trascorso dentro una struttura ospedaliera suddivisa in sette giorni, producendo una esperienza poetica, che rivela una profonda tensione, a tratti drammaticamente
ironica, iconizzata da una stilizzazione personale e matura di sapore surreale.
Nonostante la suddivisione in giornate, i componimenti sembrano mescersi, finendo per superare spesso i
limiti della originale suddivisione, dando al lettore la sensazione di unitarietà a fine della lettura.
Il ritmo, anche grazie a un uso serrato e non arbitrario di enjambement, contribuisce a creare quel flusso(quel fiume per dirlo con le parole della Campi), che percorrerà tutto il libro. Questo non da a La Saggezza dei Corpi un ritmo forsennato. Il variare della versificazione si apre alla necessità narrativa, che può essere, da una parte, contratta, quasi dialogica; dall’altra si sa anche distendere per far fronte a un bisogno descrittivo. La sintassi si piega alla necessità delle pause, in cui si deve spiegare il respiro del lettore, donando al flusso della Campi una consistenza e un “tempo” modulare, ma preciso, aiutato talvolta da segni come le parentesi che lo rimarcano, finendo, però, per ampliare e dunque complicare il campo semantico di certi passaggi fino a situazioni di ambiguità. Ambiguità anche favorite da un interazione allitterante, anaforica, perfino rimata, delle parole che compongono questi passaggi. Oltretutto, talvolta, si cerca di suturare le parole con underscore per sottolineare ogni inclinazione possibile del discorso: “ portano fogli, scambiano nomi/ scambiano lamenti/ tagliano vestiti,/ a pezzettini e_le_menti”. Un altro esempio nelle prime due strofe di Giorno #1
Il primo respiro dopo la corsa
si sgonfia di aria e di luce
Giorno #1
E’ un fiume oggi la ferrovia
dal quale straripano i binari e oltre
gli argini folli i fogli, i sedili
galleggiano e si allontanano, lasciati (andare,
via) c’è una mano tra i palazzi e un muso
tra i raggi del sole che sbatte e sbatte ancora
da dove vieni? Dov’è trascorsa la notte?
E percorre i contorni, li stringe, li logora, li rovescia
Già da questo incipit è difficile non notare il procedere surreale della narrazione, dove l’io si nasconde dietro le descrizioni, finendo per rimanere così latente. Prevalentemente di media estrazione il linguaggio - anche se si osano accostamenti più preziosi( vertigini cerulee) fino a inserire contaminazioni extra-letterarie- sostanzia immagini dagli accostamenti concreti, grazie a suggestive ipallage e allusioni. La Campi, tuttavia, non si preclude la possibilità di arricchire l’atmosfera mediante slanci più ariosi e vaghi (il primo respiro dopo la corsa/ si sgonfia di aria e di luce[…]).
L’impianto surreale, l’ampio respiro del linguaggio e la tendenza alla sperimentazione, assieme al sapiente uso della retorica e del ritmo, favorisce la manifestazione di un discrimine fra esterno/interno (dove esterno, come è stato notato dalle note critiche nel volume).
Questa suddivisione si condensa , secondo me, non solo in un affiancamento delle due realtà, ma si prefigura, anche e soprattutto, come tendenza verticale, ravvisata nell’approccio stilistico, il quale illumina la verticalità dell’architettura esistenziale che, dalla base abitudinaria e irrilevante, si sublima in quella “sopra-realtà”, impregnata di significati e dramma.
Sono proprio gli accostamenti arditi a causare spesso spostamenti di senso e ambiguità, a favorire la manifestazione di quella sopra-realtà che caratterizza il flusso della raccolta. Il tutto è confezionato in una suddivisione "diaristica", ma è un "diarismo inconscio", in cui la narrazione si dilata per far entrare, attraverso quelli che potremo chiamare incisi poetici: ovvero una personale modalità di riflessione in cui, da una parte, si dilatano le immagini, dall'altra si prefigura un dialogo.
Questa scelta, insieme a quelle già citate precedentemente, contribuisce a sfaldare, intaccare progressivamente, il referente reale che, seppur non sparisca mai del tutto, risulta alquanto confuso.
Una delle prime dimensioni “mondane” a essere totalmente devastata è il tempo, soffocato dal fiume narrativo concretizzato dallo scrosciare degli enjambement e del ritmo continuo in cui si erge una struttura allusiva degli eventi. Ciò contribuisce a restituire e delineare al lettore il senso di spaesamento e sradicamento dalla realtà, che l’autrice deve avere provata sin dal primo momento in cui è entrata in quel mondo.
Assieme al tempo, se ne vanno poi le abitudini, la struttura rassicurante della routine in cui spesso ci si identifica e radica: “un giorno qui e ci siamo/ già stranieri/ alle ore nostre appese (ai corrimano)/ sfaldate calde perse/ che non si fanno più,/ le care abitudini […]”.
Ogni tentativo di ricreare una routine interna all'ospedale viene puntualmente ironizzato: “ andiamo a farci una nuotata, a turno/ nel nostro bagno in comune e in accordo/ e andiamo a nutrirci insieme ch’è il mezzodì/ al tavolino, ai piedi del muro (arid’osso):/ quando restiamo tra noi ci scambiamo gli avanzi/ e ci diciamo buon appetito, (ti sia gradito)”. Si può dire dunque che vi è una sorta di aggressione, spesso velata, non solo alle strutture narrative e alle caratteristiche del “diarismo” tradizionale, dunque alla realtà attraverso il progressivo sfaldarsi del referente, ma anche una aggressione interna alla suddivisione in giorni il cui limite, superato e trasceso dal flusso inarrestabile, il quale cerca sempre di suturare e connettersi con ciò che avverrà dopo.
La Campi ci dona un libro che indaga sul periodo trascorso dentro una struttura ospedaliera suddivisa in sette giorni, producendo una esperienza poetica, che rivela una profonda tensione, a tratti drammaticamente
Nonostante la suddivisione in giornate, i componimenti sembrano mescersi, finendo per superare spesso i
limiti della originale suddivisione, dando al lettore la sensazione di unitarietà a fine della lettura.
Il ritmo, anche grazie a un uso serrato e non arbitrario di enjambement, contribuisce a creare quel flusso(quel fiume per dirlo con le parole della Campi), che percorrerà tutto il libro. Questo non da a La Saggezza dei Corpi un ritmo forsennato. Il variare della versificazione si apre alla necessità narrativa, che può essere, da una parte, contratta, quasi dialogica; dall’altra si sa anche distendere per far fronte a un bisogno descrittivo. La sintassi si piega alla necessità delle pause, in cui si deve spiegare il respiro del lettore, donando al flusso della Campi una consistenza e un “tempo” modulare, ma preciso, aiutato talvolta da segni come le parentesi che lo rimarcano, finendo, però, per ampliare e dunque complicare il campo semantico di certi passaggi fino a situazioni di ambiguità. Ambiguità anche favorite da un interazione allitterante, anaforica, perfino rimata, delle parole che compongono questi passaggi. Oltretutto, talvolta, si cerca di suturare le parole con underscore per sottolineare ogni inclinazione possibile del discorso: “ portano fogli, scambiano nomi/ scambiano lamenti/ tagliano vestiti,/ a pezzettini e_le_menti”. Un altro esempio nelle prime due strofe di Giorno #1
Il primo respiro dopo la corsa
si sgonfia di aria e di luce
Giorno #1
E’ un fiume oggi la ferrovia
dal quale straripano i binari e oltre
gli argini folli i fogli, i sedili
galleggiano e si allontanano, lasciati (andare,
via) c’è una mano tra i palazzi e un muso
tra i raggi del sole che sbatte e sbatte ancora
da dove vieni? Dov’è trascorsa la notte?
E percorre i contorni, li stringe, li logora, li rovescia
Già da questo incipit è difficile non notare il procedere surreale della narrazione, dove l’io si nasconde dietro le descrizioni, finendo per rimanere così latente. Prevalentemente di media estrazione il linguaggio - anche se si osano accostamenti più preziosi( vertigini cerulee) fino a inserire contaminazioni extra-letterarie- sostanzia immagini dagli accostamenti concreti, grazie a suggestive ipallage e allusioni. La Campi, tuttavia, non si preclude la possibilità di arricchire l’atmosfera mediante slanci più ariosi e vaghi (il primo respiro dopo la corsa/ si sgonfia di aria e di luce[…]).
L’impianto surreale, l’ampio respiro del linguaggio e la tendenza alla sperimentazione, assieme al sapiente uso della retorica e del ritmo, favorisce la manifestazione di un discrimine fra esterno/interno (dove esterno, come è stato notato dalle note critiche nel volume).
Questa suddivisione si condensa , secondo me, non solo in un affiancamento delle due realtà, ma si prefigura, anche e soprattutto, come tendenza verticale, ravvisata nell’approccio stilistico, il quale illumina la verticalità dell’architettura esistenziale che, dalla base abitudinaria e irrilevante, si sublima in quella “sopra-realtà”, impregnata di significati e dramma.
Sono proprio gli accostamenti arditi a causare spesso spostamenti di senso e ambiguità, a favorire la manifestazione di quella sopra-realtà che caratterizza il flusso della raccolta. Il tutto è confezionato in una suddivisione "diaristica", ma è un "diarismo inconscio", in cui la narrazione si dilata per far entrare, attraverso quelli che potremo chiamare incisi poetici: ovvero una personale modalità di riflessione in cui, da una parte, si dilatano le immagini, dall'altra si prefigura un dialogo.
Questa scelta, insieme a quelle già citate precedentemente, contribuisce a sfaldare, intaccare progressivamente, il referente reale che, seppur non sparisca mai del tutto, risulta alquanto confuso.
Una delle prime dimensioni “mondane” a essere totalmente devastata è il tempo, soffocato dal fiume narrativo concretizzato dallo scrosciare degli enjambement e del ritmo continuo in cui si erge una struttura allusiva degli eventi. Ciò contribuisce a restituire e delineare al lettore il senso di spaesamento e sradicamento dalla realtà, che l’autrice deve avere provata sin dal primo momento in cui è entrata in quel mondo.
Assieme al tempo, se ne vanno poi le abitudini, la struttura rassicurante della routine in cui spesso ci si identifica e radica: “un giorno qui e ci siamo/ già stranieri/ alle ore nostre appese (ai corrimano)/ sfaldate calde perse/ che non si fanno più,/ le care abitudini […]”.
Ogni tentativo di ricreare una routine interna all'ospedale viene puntualmente ironizzato: “ andiamo a farci una nuotata, a turno/ nel nostro bagno in comune e in accordo/ e andiamo a nutrirci insieme ch’è il mezzodì/ al tavolino, ai piedi del muro (arid’osso):/ quando restiamo tra noi ci scambiamo gli avanzi/ e ci diciamo buon appetito, (ti sia gradito)”. Si può dire dunque che vi è una sorta di aggressione, spesso velata, non solo alle strutture narrative e alle caratteristiche del “diarismo” tradizionale, dunque alla realtà attraverso il progressivo sfaldarsi del referente, ma anche una aggressione interna alla suddivisione in giorni il cui limite, superato e trasceso dal flusso inarrestabile, il quale cerca sempre di suturare e connettersi con ciò che avverrà dopo.
Cosa rimane, dunque, dopo questa aggressione? Cosa popola questa sopra-realtà? Questa dimensione è popolata da chi va e chi viene, da chi cerca di essere di aiuto e da figure che si caratterizzano per il loro essere di passaggio, assieme alla loro impotenza, che non sono nulla di diverso dai muri, dai corridoi dalle sedie. I dottori, i visitatori etc… sono visti come puro arredamento, impotente e ornamentale: sono spettatori del dramma ospedaliero del quale sono troppo spesso anche inconsapevoli testimoni e per questo non hanno rilevanza figurale, se non tramite i loro accessori; infatti molto spesso noi intuiamo che vi sono questi fantasmi proprio dagli oggetti che si portano appresso: “e anche loro che arrivano, con l’amore/ nelle borse, e le migliori intenzioni”. Questa dimensione è popolata inizialmente dalle “voci”, perché : “ quando parliamo/( o le sento sussurrare),/ so che siamo ancora vive/ che non ci siamo mosse di qui”. Le voci gridano, pregano, si disperano, parlano e facendo tutte queste cose, come si è visto, attestano il loro perdurare, il loro esserci, sullo sfondo della minaccia del” bianco” e del “buio.” A una persona, una voce, privata ed estirpata dal suo contesto, cosa rimane se non abbracciare l’ingenuità sana di una follia che, una volta familiarizzato col dramma trova persino il coraggio di ironizzarlo, quasi sbeffeggiarlo. Ironia che si rivela nella sua doppia veste di intima attestazione e partecipazione al dramma della “sopravvivenza guidata”, perché essa in ospedale, alla fine, è sempre in mani altrui . E’ questo ciò che succede alla Campi e alle due amiche, compagne di viaggio (Gina e Maria). In mezzo a tutte le lacrime e le sofferenze ci si può ritagliare, anche solo per un momento un frangente di serenità, nonostante la tensione drammatica non ceda mai il passo. “ La Gina cercava il sole/ e controllava/ come un capitano consumato/ i movimento del vento”, oppure: “ Il computer lo chiamavamo/ bollettino dei morti/ chi è morto oggi? Chiedeva Gina/ io e Maria ridevamo e rideva anche lei/ scampate al sospetto/ della bruta follia/ scampate di brutto alle glaciazioni/ e forse non lo sapere, che Maria ha un dolore/ sommesso, piegato, sotto il cuscino”.
Le voci sono, quasi sempre, quello che rimane di ogni paziente: perché l’ospedale sembra potersi prendere anche i sensi, distruggendo la percezione che le persone hanno, relegandole, inizialmente, a un “silenzio addormentato”; in un perpetuo torpore che dilaga dal corpo: “il torpore travalica il confine dei rumori/ gli aghi nel braccio e le coperte di lana/ il freddo disumano della stanza[…]”; “ oppure ci si trae in salvo con gli specchietti/ ed è un sentirsi di nuovo le dita”. Ogni apparenza di movimento conscio, o quasi, originato dalla volontà della poetessa, si rivela, in realtà, un illusione della macchina misuratrice e monitorante ospedaliera, che delinea, oltre alle privazioni, sempre nuove prigionie “e invece: i movimenti sono della macchina/ in sussulti, mentre dentro immobili,/ sparsi, frantumanti nella memoria”.
Al culmine della sofferenza sopraggiunge il freddo, la solitudine provocata, forse, da chi è distante. Allora il dilagare del bianco diventa quasi insopportabile e minaccioso, assieme alla tenebra crescente: “ acquazzone d’amore materno al gelo/ che aspetta l’apertura delle porte/ seduta su sedia giocattolo/ seduta, a far parole crociate/ lontana nelle cavità nel freddo più/ lontano delle notti d’inverno[…]” “amici miei, dove siete? (abbracciatemi)/ qui è tutto bianco, e la notte non si rimargina/ anzi si sbobina al buio che sta in basso e viene, su”.
La coscienza corporea che ognuno di noi normalmente possiede è anch’essa un abitudine e, all’interno dell’ospedale, la Campi ci mostra come, in realtà, essa sia un dono, donato e accertato attraverso le misurazioni con cui si attesta il grado di salute di un corpo. Alla fine è questo quello che importa ai medici, il corretto funzionamento del corpo in senso meccanico. “ su gambe poco stabili/ vanno via le teste/ le linee della febbre/ sotto le vesti nei vestiboli”. Dopo la follia e la febbre, dunque, dopo che si è stati dilaniati dalla medicina,cominciano a ritornare frammenti di una vita precedente, di una tenerezza quasi dimenticata. Il caos si fa insopportabile, perché insopportabile è il moto disgregante contro l’io. Quindi si cerca di ricomporre se stessi negoziando, con esso, le abitudini nuove o passate: “ briciole che passano / nei fiori e l’erbe/ le panchine al sole/ i passi per di la, accompagnati, mai stanchi/ si fanno rotondi, si/ fanno braccia accanto/ che dicono ancora certe/ ancora carezze/[…] una tregua che non basta/ misurare il cuore misurare/ il polmone misurare le valvole/ con una tregua che non pasta” e poi, prima della fine “ arrivano i baci del luglio incerto/ delle macchine, dall’oceano/ e arrivano le voci candela/ il caos non fa più per noi/ in certi momenti si pensa/ solo al ritorno e quello che c’è/ sono vacillamenti/ sono muscoli che si allenano al bene/ ci si slaccia dalla quiete/ del libro in forma di nausea/ per poi negoziare un abitudine/ all’ordinario disorientamento”.
Alla fine sembra che non si possa lasciare mai la claustrofobia disgregatrice dell’ospedale: “riferiti deficit neurologici transitori/ oscillazioni della vigilanza/ trascinamento bilaterale/ diplopia, vertigine soggettiva/ amnesia di fissazione/ e tutto ritorna com’è/ e tutto intorno s’aggira fino/ ai prossimi giorni, ignoti”.
Martina Campi, con il libro La Saggezza dei Corpi, ci consegna un esperienza non solo stilisticamente matura, ma di grande qualità, nel declinarsi delle sue varie particolarità tutte aperte. Questo libro infatti, come ogni esperienza che lascia un segno nella esistenza della persona che l’ha scritto, necessita dunque di essere esplorato profondamente, affinché , di esso, si possa fruire ogni intimo moto e modificazione. Un libro segnato dalla privazione, dalla violenza quasi paradossale che il contesto ospedaliero esercita sull’io. Io fatto latente nel momento in cui perde,sradicato da esso, il referente reale, per pervenire inconsciamente a quella sopra-realtà in cui il caos, creato dall’imminenza della morte, dilaga e a cui si oppone, per un momento, una ironia folle e ingenua di chi non ha alternative, se non lasciare, nelle mani(impotenti) altrui, ciò che si ha di più prezioso: il proprio corpo, la salute e dunque se stessa. Perché alla fine la Saggezza dei Corpi, nella mia personale interpretazione, è proprio quella possibilità che noi, attraverso di essi, abbiamo di radicarci nel mondo.
Potete ordinare qui: La Saggezza dei corpi, Arcolaio 2015
Luca Cenacchi è nato a Forlì nel 1990. Nel 2011 la poesia Laocoonte – ovvero di se stesso è stata selezionata per essere pubblicata nell’antologia del Premio letterario Ottavio Nipoti - Ferrera Erbognone. Ha contribuito a fondare e sviluppare il forum letterario i Gladiatori della penna. I suoi testi sono stati
presentati nella serata Arcadie Invisibili all’interno del progetto La Bottega della Parola organizzata dallaAssociazione culturale Poliedrica di Forlì. Nel 2016 il blog letterario Kerberos ha scritto un articolo critico di alcune sue poesie inedite Valore-contenuto e valore-bellezza: il senso del sacro attraverso latrasfigurazione dell’immagine e la neutralità del messaggio. Nel mese di Aprile dello stesso anno tre sue poesie(La Perla , Anoressica e Francesca) sono state selezionate per essere inserite nella antologia La miasfida al male pubblicata a seguito della terza edizione del concorso letterario Come Farfalle Diventeremo Immensità , in memoria di Katia Zattoni e Guido Passini, indetto da Fara Editore. Aspirante critico letterario è ansioso di contribuire al dibattito sulla poesia contemporanea attraverso la rubrica critica Gli Specchi Critici realizzata in collaborazione con il blog Kerberosbookstore, Fara Poesia e ora anche L'Arcolaio. Nel 2016 è giudice presso il concorso Faraexcelsoir 2016. Ha partecipato alla rassegna poetica di Pianetto “Poeti alla finestra” presentando una serie di poesie inedite. Per ulteriori informazioni sul progetto: glispecchicritici@gmail.com, facebook, twitter
Martina Campi è nata a Verona nel 1978. Vive a Bologna dove ha studiato e si è laureata in Scienze della Comunicazione. Vincitrice del Premio Renato Giorgi 2012 con Estrazioni del tempo (Edizioni Le Voci della Luna Poesia, 2012), è tra gli autori finalisti al Premio Lorenzo Montano 2014, con la raccolta inedita Manuale d’estinzione.
Le voci sono, quasi sempre, quello che rimane di ogni paziente: perché l’ospedale sembra potersi prendere anche i sensi, distruggendo la percezione che le persone hanno, relegandole, inizialmente, a un “silenzio addormentato”; in un perpetuo torpore che dilaga dal corpo: “il torpore travalica il confine dei rumori/ gli aghi nel braccio e le coperte di lana/ il freddo disumano della stanza[…]”; “ oppure ci si trae in salvo con gli specchietti/ ed è un sentirsi di nuovo le dita”. Ogni apparenza di movimento conscio, o quasi, originato dalla volontà della poetessa, si rivela, in realtà, un illusione della macchina misuratrice e monitorante ospedaliera, che delinea, oltre alle privazioni, sempre nuove prigionie “e invece: i movimenti sono della macchina/ in sussulti, mentre dentro immobili,/ sparsi, frantumanti nella memoria”.
Al culmine della sofferenza sopraggiunge il freddo, la solitudine provocata, forse, da chi è distante. Allora il dilagare del bianco diventa quasi insopportabile e minaccioso, assieme alla tenebra crescente: “ acquazzone d’amore materno al gelo/ che aspetta l’apertura delle porte/ seduta su sedia giocattolo/ seduta, a far parole crociate/ lontana nelle cavità nel freddo più/ lontano delle notti d’inverno[…]” “amici miei, dove siete? (abbracciatemi)/ qui è tutto bianco, e la notte non si rimargina/ anzi si sbobina al buio che sta in basso e viene, su”.
La coscienza corporea che ognuno di noi normalmente possiede è anch’essa un abitudine e, all’interno dell’ospedale, la Campi ci mostra come, in realtà, essa sia un dono, donato e accertato attraverso le misurazioni con cui si attesta il grado di salute di un corpo. Alla fine è questo quello che importa ai medici, il corretto funzionamento del corpo in senso meccanico. “ su gambe poco stabili/ vanno via le teste/ le linee della febbre/ sotto le vesti nei vestiboli”. Dopo la follia e la febbre, dunque, dopo che si è stati dilaniati dalla medicina,cominciano a ritornare frammenti di una vita precedente, di una tenerezza quasi dimenticata. Il caos si fa insopportabile, perché insopportabile è il moto disgregante contro l’io. Quindi si cerca di ricomporre se stessi negoziando, con esso, le abitudini nuove o passate: “ briciole che passano / nei fiori e l’erbe/ le panchine al sole/ i passi per di la, accompagnati, mai stanchi/ si fanno rotondi, si/ fanno braccia accanto/ che dicono ancora certe/ ancora carezze/[…] una tregua che non basta/ misurare il cuore misurare/ il polmone misurare le valvole/ con una tregua che non pasta” e poi, prima della fine “ arrivano i baci del luglio incerto/ delle macchine, dall’oceano/ e arrivano le voci candela/ il caos non fa più per noi/ in certi momenti si pensa/ solo al ritorno e quello che c’è/ sono vacillamenti/ sono muscoli che si allenano al bene/ ci si slaccia dalla quiete/ del libro in forma di nausea/ per poi negoziare un abitudine/ all’ordinario disorientamento”.
Alla fine sembra che non si possa lasciare mai la claustrofobia disgregatrice dell’ospedale: “riferiti deficit neurologici transitori/ oscillazioni della vigilanza/ trascinamento bilaterale/ diplopia, vertigine soggettiva/ amnesia di fissazione/ e tutto ritorna com’è/ e tutto intorno s’aggira fino/ ai prossimi giorni, ignoti”.
Martina Campi, con il libro La Saggezza dei Corpi, ci consegna un esperienza non solo stilisticamente matura, ma di grande qualità, nel declinarsi delle sue varie particolarità tutte aperte. Questo libro infatti, come ogni esperienza che lascia un segno nella esistenza della persona che l’ha scritto, necessita dunque di essere esplorato profondamente, affinché , di esso, si possa fruire ogni intimo moto e modificazione. Un libro segnato dalla privazione, dalla violenza quasi paradossale che il contesto ospedaliero esercita sull’io. Io fatto latente nel momento in cui perde,sradicato da esso, il referente reale, per pervenire inconsciamente a quella sopra-realtà in cui il caos, creato dall’imminenza della morte, dilaga e a cui si oppone, per un momento, una ironia folle e ingenua di chi non ha alternative, se non lasciare, nelle mani(impotenti) altrui, ciò che si ha di più prezioso: il proprio corpo, la salute e dunque se stessa. Perché alla fine la Saggezza dei Corpi, nella mia personale interpretazione, è proprio quella possibilità che noi, attraverso di essi, abbiamo di radicarci nel mondo.
Potete ordinare qui: La Saggezza dei corpi, Arcolaio 2015
Luca Cenacchi è nato a Forlì nel 1990. Nel 2011 la poesia Laocoonte – ovvero di se stesso è stata selezionata per essere pubblicata nell’antologia del Premio letterario Ottavio Nipoti - Ferrera Erbognone. Ha contribuito a fondare e sviluppare il forum letterario i Gladiatori della penna. I suoi testi sono stati
presentati nella serata Arcadie Invisibili all’interno del progetto La Bottega della Parola organizzata dallaAssociazione culturale Poliedrica di Forlì. Nel 2016 il blog letterario Kerberos ha scritto un articolo critico di alcune sue poesie inedite Valore-contenuto e valore-bellezza: il senso del sacro attraverso latrasfigurazione dell’immagine e la neutralità del messaggio. Nel mese di Aprile dello stesso anno tre sue poesie(La Perla , Anoressica e Francesca) sono state selezionate per essere inserite nella antologia La miasfida al male pubblicata a seguito della terza edizione del concorso letterario Come Farfalle Diventeremo Immensità , in memoria di Katia Zattoni e Guido Passini, indetto da Fara Editore. Aspirante critico letterario è ansioso di contribuire al dibattito sulla poesia contemporanea attraverso la rubrica critica Gli Specchi Critici realizzata in collaborazione con il blog Kerberosbookstore, Fara Poesia e ora anche L'Arcolaio. Nel 2016 è giudice presso il concorso Faraexcelsoir 2016. Ha partecipato alla rassegna poetica di Pianetto “Poeti alla finestra” presentando una serie di poesie inedite. Per ulteriori informazioni sul progetto: glispecchicritici@gmail.com, facebook, twitter
Martina Campi è nata a Verona nel 1978. Vive a Bologna dove ha studiato e si è laureata in Scienze della Comunicazione. Vincitrice del Premio Renato Giorgi 2012 con Estrazioni del tempo (Edizioni Le Voci della Luna Poesia, 2012), è tra gli autori finalisti al Premio Lorenzo Montano 2014, con la raccolta inedita Manuale d’estinzione.
Figura tra i segnalati nel 2012 con la raccolta che compone questo libro: La saggezza dei corpi; al medesimo premio, e risulta menzione d’onore, l’anno successivo, con la raccolta Le metamorfosi della gioia, ora divenuta Cotone (Buonesiepi Libri 2014). Nel 2015 consegue il medesimo risultato con la silloge inedita Quasi radiante.
Autrice e performer, fondatrice insieme al compositore e musicista Mario Sboarina, del progetto di musica e poesia Memorie dal SottoSuono, nel quale si fondono reading poetico, elettronica, jazz/ ambient, contaminazioni afro e accenni di musica popolare; del 2010 è l’uscita del cd Mani e qualcos’altro. Il progetto Memorie dal SottoSuono è oggi un vero e proprio collettivo di artisti di diversa formazione.Per dicembre 2015 è prevista l’uscita dell’omonimo album.Fa parte da tre anni del Comitato Bologna in Lettere (B.I.L.) E’ giurata per la sezione B del premio Giorgi 2015 e della sezione giovani 2013..Collabora con diverse realtà poetiche, tra cui Letteratura Necessaria e il festival multimediale di Letteratura Bologna in Lettere 2013,14,15. Nel 2014 entra a far parte della redazione della rivista Le Voci della Luna e collabora con la rivista online L’Antenna. Con il poeta Giampaolo De Pietro si occupa del progetto Il foglio d’aria. Fa parte del Censimento di Poeti di Pordenonlegge, oltre che del futuro Atlante dei poeti italiani contemporanei a cura dell’Università di Bologna(ancora work in progress). Partecipa a diversi festival e recital di poesia e/o musica in vaie parti d’Italia.
Siti:
www.martinacampi.it
memoriedalsottosuono.wordpress.com
boinlettere.wordpress.com
fogliodaria.wordpress.com
Autrice e performer, fondatrice insieme al compositore e musicista Mario Sboarina, del progetto di musica e poesia Memorie dal SottoSuono, nel quale si fondono reading poetico, elettronica, jazz/ ambient, contaminazioni afro e accenni di musica popolare; del 2010 è l’uscita del cd Mani e qualcos’altro. Il progetto Memorie dal SottoSuono è oggi un vero e proprio collettivo di artisti di diversa formazione.Per dicembre 2015 è prevista l’uscita dell’omonimo album.Fa parte da tre anni del Comitato Bologna in Lettere (B.I.L.) E’ giurata per la sezione B del premio Giorgi 2015 e della sezione giovani 2013..Collabora con diverse realtà poetiche, tra cui Letteratura Necessaria e il festival multimediale di Letteratura Bologna in Lettere 2013,14,15. Nel 2014 entra a far parte della redazione della rivista Le Voci della Luna e collabora con la rivista online L’Antenna. Con il poeta Giampaolo De Pietro si occupa del progetto Il foglio d’aria. Fa parte del Censimento di Poeti di Pordenonlegge, oltre che del futuro Atlante dei poeti italiani contemporanei a cura dell’Università di Bologna(ancora work in progress). Partecipa a diversi festival e recital di poesia e/o musica in vaie parti d’Italia.
Siti:
www.martinacampi.it
memoriedalsottosuono.wordpress.com
boinlettere.wordpress.com
fogliodaria.wordpress.com
Manifesto dei fariani avellaniti
versi di Dante dedicati da Vincenzo D'Alessio a tutti i partecipanti alla kermesse Preghiera (e…
ospitata dall'Eremo di Fonte Avellana dall'1 al 3 luglio 2016
ospitata dall'Eremo di Fonte Avellana dall'1 al 3 luglio 2016
mercoledì 8 giugno 2016
Caterina Camporesi: La forza della poesia narrante… anche in lingua serba
In
principio era il Verbo… E
la poesia dove era nascosta? Nel verbo? Nel suono? Nella melodia? Nel silenzio
che veniva dopo la prima Parola? Cioè come si è arrivato alla Storia che ha sconfitto
il silenzio che minacciava di inghiottire l’Uomo tutto paralizzato dalla paura
dopo il primo Scoppio del Big Bang estistenziale e linguistico? Cosa facilissima.
Bastava solo spalancare occhi e bocca per vincere sia lo stupore umano che il
silenzio universale. Ed è così che è nato il primo suono. Il prossimo era già
il ponte verso il canto che ci racconta ancora oggi che dall’emozione e dal
silenzio nasce sempre la Storia. Ovvero la poesia narrante.
Questo è anche il caso della poesia di
Caterina Camporesi. Poetessa, psicoterapeuta, condirettrice e redattrice delle
varie riviste che si occupano della poesia (La
Rocca Poesia, Le Voci delle Luna) collaboratrice ed ideatrice dei diversi
eventi culturali e Premi letterari nazionali in realtà non fa nient’altro che
osservare ed indagare quel legame – filigrana tra le emozioni ed pensieri,
propri ed altrui. Il che poi è solo il suo mestiere che sta nel riordinare le
nostre emozioni facendo uscire il nostro cuore dal silenzio della sofferenza
quotidiana, esistenziale, storica, cosmica… Ma prima di tutto umana. E la
Camporesi lo fa in modo eccezionale già da decenni con la sua poesia-rimedio
ovvero con i suoi sette libri di poesia (Poesie
di una psicologa, Euroforum, Rimini, settembre 1982, Sulla porta del tempo, Edizioni del Leone, Venezia, febbraio 1996, Agli strali del silenzio, Edizioni
dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli, marzo 1999, Duende, Marsilio, Venezia, ottobre 2003, la silloge Solchi e nodi, Fara Editore, Rimini,
gennaio 2008, Dove il vero si coagula,
Raffaelli, Rimini, 2011).
L’ultima raccolta Muove il dove (Raffaelli, Rimini 2015) è l’ultima perla della lunga
collana delle risposte poetiche che l’autrice dona sia ai suoi lettori che a se
stessa. Si tratta di una cinquantina di pagine dei componimenti brevi che a
volte assomigliano alla poesia haiku per la loro concentrazione e la semplicità
lessicale e retorica che eppure riflette una sagacia incredibile della
poetessa. Diremmo anche una filosofia poetica tutta sua. L’antologia infatti
comincia con l’incipit-aforisma del filosofo Ludwig Wittgenstein: “Impossibile
scrivere in maniera / più vera di quanto si è veri.” Siccome il dialogo e la
ricerca sia del sentimento giusto che della parola addatta e capace di
esprimere le vere “misure” dell’animo umano fanno il nucleo della poetica e
dell’ottica intima di Camporesi, la sua risposta: Il proprio andare / la meta rappresenta la sua introduzione in un
insolito viaggio della parola poetica che racconta e rivela sia se stessa che il
motivo del proprio andare. Ovvero della vita umana.
La sua è una ricerca poetica immaginata
come l’eterno gioco artistico che dovrebbe darci una valida risposta alla
domanda come nasce la poesia. E poi qual’è il fenomeno più antico: l’emozione o
la poesia? Cioè è la prima che innesca la seconda o viceversa? In
principio era il Verbo, ma seccondo la Camporesi esserci è parola / che all’azione spinge / silenzio. La seconda domanda che la poetessa si
pone è dove va la poesia? Ed è così che comincia il viaggio della parola
poetica fino allo stesso fine, il viaggio con i versi dove essa si tramuta in
tante cose, prima nei suoni e nelle luci e in seguito nei tempi ed eventi. Il
muoversi della parola poetica che diventa una poesia prima m(u)ovente e poi
narrante è l’invito della poetessa rivolto sia a noi che a lei stessa a
scoprire i nuovi spazi della poesia e dell’anima umana. Nello stesso tempo è un
incanto eterno che a volte con la nostra ricerca da lettori e da artisti
assomiglia ad un circolo vizioso da cui si esce solo muoversi o seguendo la
parola e la traccia magica della poetessa: apre
al mistero / la porta del cielo //
sprigiona scintilla / sulla terra.
Ed in più la ricerca-viaggio diventa un “cartellone” significativo durante
il nostro cammino per la strada “poetica” che ci indirizza verso l’essenza della
poesia e dei noi stessi: sprigiona
folgoranti lampi / il buio a lungo sigillato / strinando arcaici ieri / dona al
domani sentieri”
Questa sì che è la forza della parola
narrante delle poesie di Camporesi che narrano il processo - collana della creazione
artistica insieme alla crescita interiore di ogni suo lettore. Si cresce
muovendosi, emozionandosi cercando il motivo, il dove ed un magico e felice
altrove. L’eterna ricerca umana dei nuovi spazi, delle nuove conoscenze e di un
fine ‘finale’ o assoluto che ci renderà eternamente felici e sereni. In somma
una ricerca artistica e personale che non smetterà proprio mai perchè ci porta
sempre avanti, verso un futuro che cancella la fine. Ossia muove il dove nell’altrove. E tutto ciò che si muove rispecchia la
vita. La parola poetica che si muove va ancora oltre scoprendo l’essenza sia di
se stessa che del nostro essere: la creazione. Proprio la creazione che
illumina il vero senso della nostra esistenza: fare, ideare, dare la vita (a),
illuminare… In breve, poetare. Nonostante tutto. Ed inanzitutto.“…da abissi di corpomente / si risolleva il
pensiero / come luce di fuoco risale / per avvampare il tutto”
Per dire tutta la verità la poesia di
Camporesi “avvampa” o illumina proprio il vero significato del poetare. E lo fa
in modo semplice, breve e forte. Per non dire essenziale. Gianni Criveller ha notato benissimo
nella sua postfazione di questa ultima raccolta di Camporesi scrivendo che “la
parola chiave è essenzialità. Non ci sono tittoli per le poesie, suddivisioni
tematiche o cittazioni introduttive.” Un’impresa dificillissima visto che le
emozioni e lo slancio poetico a volte vincono la razionalità linguistica di cui
anche deve essere dottato un bravo poeta e scrittore. Ivo Andric, il premo Nobel serbo,
rinomatissimo inoltre per il suo stile impecabile, diceva che quando si scrive,
bisogna sempre togliere il superfluo e tornare al testo scritto più di una
volta cancellando sempre qualcosa finchè non si arrivi all’unica parola che
esplode dall’espressione. Cioè a quella che è la portatrice del significato. È
ovvio che la Camporesi ha trovato un modo giusto per billanciare la sua ricerca
poetica e lessica. I suoi componimenti che rispecchiano una certa musicalità
abbondano di tantissime assonanze, alliterazioni, insolite metafore e
neologismi (es: presentepassatofuturo, emozionivoce, corpomente ecc.)
E per finire in bellezza, basta seguire la
formula vincente di Caterina Camporesi lasciando la sagacia e l’acutezza della
sua poesia parlare da sola. “luce /
nell’unico lampo / che genera suoni // nell’arsura del vero / nidifica suoni
il canto // cova il senso atteso // esserci è parola / che all’azione spinge //
silenzio”.
Buona lettura ovvero buon silenzio poetico
che è sempre ben narrante!
MUOVE IL DOVE
Impossibile
scrivere in maniera
Più vera
di quanto si è veri.
(Ludwig Wittgenstein)
La meta?
Il proprio andare
in
scansioni ormeggiano parole
all’èrta
del cenno che le riveli
traslocano
da bocca a bocca
impazienti
d’impastarsi
sprigionano
folgoranti lampi
il buio
a lungo sigillato
strinando
arcaici ieri
dona al
domani sentieri
non
perde smalto il canto
lungo
strade deserte
se
incrocia ciò che manca
amalgamando
attese sogni intenti
la
storia si accasa sui fondali dell’io
nella
paradossale congerie dei tempi
presentepassatofuturo
si fa lampo
aggruma
vigore si racconta in evento
si
scioglie
in gocce
di accidia
l’agonia
del giorno
apre al
mistero
la porta
del cielo
sprigiona
scintille
sulla
terra
su acque
dell’alba
cammina
l’incontro
concepito
al tramonto
non
quello che si dice
neppure
quel che si fa
- dispera
ciò che si è –
procrastinata
scalpita
la parola
invoca
il tu
per
farsi canto
tornare
a sorgenti di ruscelli
navigare
in nebbie di anse
disseminare
intenti
divalgando
eventi
verità
naufraghe
lambiscono
rime
dimora
al divenire
in tane
lunari
trame
segrete
perpetuano
mete
scaramantiche
danze
propiziano
sortilege
il di
lui volto
nei
colori del tramonto
verità
inseguite
scompaginano
illusioni
dischiudono
percorsi
tallonando
scorci
in
pupille scorate
arcobaleni
radicano luci
nell’afonia
di notti
incendiano
voci
sulla
soglia
di
attesa sempre protesa
la
ragione capitola
corrompe
i cuori
a poco a
poco
il poco
diventa
tutto
il mai
sempre
ci si
cerca
là dove
non si è
per divenire
l’assolo
di loro
tu noi
e del
resto disperse
che
sempre si sottrae
in fessure
d’alba
s’allunga
la notte
tra
ciglia di buio
dischiude
segni
se ci si
perde
ci si
ritrova
annegando
nel
vuoto rovente
***
nell’arsura
del vero
nidifica
suoni il canto
cova il
senso atteso
esserci è
la parola
che all’azione
spinge
silenzio
TAMO U PESNIČKOM POHODU
Ne može
se pisati na verodostojniji način
nego što to sami jesmo.
(Ludvig Vitgenštajn)
Cilj?
Sopstveno kretanje
u trzajima pristižu reči
uz strminu znaka što ih odaje
sele se od usta do usta
nestrpljive da se zaodenu
munjevite odbleske oslobađa
tama dugo zapečaćena
dok gori vremešnost jučerašnjici
daruje puteve sutrašnjici
pesma ne
gubi svoju snagu
po osamljenim ulicama
sretne li ono što joj nedostaje
stapajući iščekivanja bremenite snove
priča se udomljava u dubine svog jastva
u besmislu spleta vremena
u trenu blesne sadjučesutra
zgrušava snagu u zbivanje se ovaploti
rastapa se
u kapima apatije
agonija dana
tajanstvenosti se otvaraju
nebeska vrata
šire se na zemlji
iskre
po vodama svitanja
brodi viđenje
začeto kad i dana smirenje
ne ono što se zbori
niti ono što se tvori
- gubi nadu u ono što postoji -
odgođena
utabana reč
zaziva tvojsto
da bi postala pesma
da se vrati na izvorišta potoka
da plovi po maglama okuka
da seje naume
preinačujući zbivanje
nasukane istine
zapljuskuju rime
opstajavanje u poretku stvari
u jamama mesečevim
skrivene spletke
ovekovečavaju ciljeve
sujeverne igre
umilostivljuju čini
obrise nekog lica
u bojama sutona
progonjene istine
razvejavaju opsene
otkrivaju puteve
sledeći u stopu izgone
u zenicama zamagljenim
duge gnezde svetla
u muklosti noći
bukte glasovi
na pragu čekanja
vazdan u produžetku
razum se predaje
miti srca
malo pomalo
ono malo
postaje sve
a uvek nikad
tražimo se
tamo gde nismo
ne bi li postali jedno
od njih tebe nas
i od ostatka razvejanog
što uvek izmiče
u pukotinama svitanja
produžava se noć
među trepljama tame
otkriva znamenja
ako se izgubimo
opet ćemo se naći
utopivši se
u uzavrelu prazninu
***
u muklom žaru istine
pesma gnezdi zvuke
tinja smisao što se čeka
postojanje je reč
koju na delanje podstiče
tišina
[Traduzione di Vesna Andrejević]
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