domenica 29 maggio 2016



Il Catullo vestito di nuovo di Mario Fresa


Istintivo, scanzonato e verace, autoironico e scostumato, il Catullo vestito di nuovo, con le sue 14 imitazioni dedicate da Mario Fresa al più moderno e forse amato lirico latino; mutuato però in un linguaggio da sceneggiata napoletana, tra Merola e Murolo: «Minchietto ora saltella, con ardore, verso il Parnaso: / ma le Muse, schifate, pronti i forconi, sciù! // lo ributtano giù». Che non è altro che il breve canto 105 (in realtà un breve distico), lapidario e adorabilmente dissonante:  «Mentula conatur Pipleium scandere montem / Musae furcillis praecipitem eiciunt» (per intenderci, Enzo Mandruzzato traduceva: «Cazzo fa la scalata al monte delle Muse. / Loro lo buttan giù, con dei forcali»). Imitazioni, precisa Fresa, 14 imitazioni – sovrapposte ai bei disegni di Prisco De Vivo (all’interno di quel gustoso “laboratorio dell’evanescenza” che è la stessa collana editoriale, e Galleria d’arte Lucis), questo Catullo/Valentino “vestito di nuovo” (come le brocche dei biancospini), non è in realtà affatto pascoliano, ma semmai di aura e di matrice faziosamente partenopea, come il più amabile (e sensuale) Ferdinando Russo, d’immediata presa popolaresca, più che il melanconico Salvatore Di Giacomo, maestro d’ogni carezzevole candore… Alcuni testi celebri, che già al liceo ci dilettarono, qui son davvero ripercorsi, volti in amabilità vernacolare. Penso al canto 42: «Ah, niente, è? Dell’ira mia tu non ti curi? / Ah donna-ciofeca, super-bivella, guidona, rufarola» che il latino essenzializzava in: «Non assis facis? o lutum, lupanar, / Aut si perditius potes quid esse». Altri, come prolungati, continuati dal Nostro, in fervore appunto d’imitazione; a esempio il 102, di cui Mario s’inventa un finale felicissimo, moderato cantabile: «e all’occorrenza faccio, sta’ sicuro, / il niente-vitti e il niente-saccio».

Plinio Perilli

Mario Fresa, Catullo vestito di nuovo. Quattordici imitazioni, con opere visive di Prisco De Vivo. Edizione d’arte a tiratura limitata. Galleria Lucis, Quadrelle, 2014.

Mario Fresa

La lettura fonte di rinnovamento

di Vincenzo D’Alessio
 

La manifestazione che ogni anno prende il nome de “Il maggio dei libri” è stata celebrata anche nella classe terza E (nella foto qui sotto) dell’Istituto Statale Comprensivo Michele PIRONTI di Montoro. 


 

 Grazie all’iniziativa del Fara di Rimini, che ha realizzato l'antologia del concorso letterario dedicato alla ricerca per scofiggere la fibrosi cistica, La mia sfida al male: Per ricordare Katia Zattoni e Guido Passini, i giovani studenti della classe terza sezione E dell’Istituto “M. Pironti” di Montoro hanno esercitato il loro impegno scolastico nella lettura.

La gioia delle vincitrici del concorso: Marta Rago per la sezione racconto inedito e Valeria Tolino per la sezione poesia inedita, aggiunta a quella della loro docente di lettere Nicoletta Mari, ha contaminato tutta la classe: la forza della lettura è stata la fonte del rinnovamento dei sentimenti, l’empatia verso quanto era stato scritto, la voglia di emulare le amiche prescelte.
Quest’anno scolastico è stato l’ultimo anno passato insieme nell’aula della terza E. 


Marta Rago

Valeria Tolino

Il prossimo anno ogni uno di loro sarà nei licei, negli istituti statali dei vari indirizzi e forse si perderanno di vista ma non dimenticheranno l’avventura dell’anno trascorso nell’amore per la lettura che ha scaldato i loro cuori e le speranze in una terra il SUD lacerata dalla violenza e dalla sopraffazione dei poteri forti: proprio come scriveva il meridionalista Guido DORSO letto in classe nelle pagine della sua Rivoluzione Meridionale.
Montoro, 28 maggio 2016

venerdì 27 maggio 2016

La riconoscenza della nuova scuola del Sud

di Vincenzo D'Alessio

L’anno scolastico 2015/16 si conclude, per la classe terza sezione E dell’Istituto Statale Comprensivo “Michele PIRONTI” di Montoro, nel modo più bello e profumato dopo aver celebrato la Giornata Mondiale della Poesia, accostandosi ai giganti del Novecento Italiano: il Nobel Salvatore QUASIMODO, Rocco SCOTELLARO, Alfonso GATTO, Leonardo SINISGALLI e il poeta contemporaneo Domenico CIPRIANO venuto in classe a parlare della nuova poesia di questo XXI secolo.

Accanto a questi grandi costruttori di speranze c’è il poeta irpino Michele LUONGO fondatore della Rivista Letteraria Via Cialdini, firmatario del Manifesto dei Poeti Irpini del 1997, nonché amico dei giovani studenti irpini. La sua passione per i giovani scolari o studenti ha visto il Nostro proiettarsi in diverse occasioni e per molti anni dalla lontana Trento alla sua terra natale portando doni e una notevole carica di speranza.

Quest’anno ha concesso il Patrocinio gratuito della sua Rivista alla “Giornata Mondiale della Poesia” dedicando alla classe terza E la bellissima composizione poetica: La poesia taglia i limoni dorati



Il giovanissimo Matteo Annunziata, a nome della classe terza E e dell’Intero Istituto Statale Comprensivo Michele PIRONTI, si è cimentato nella critica letteraria ai versi del Nostro, realizzando non solo un appassionato commento quanto un vivo e palpitante ringraziamento al poeta dei giovani del SUD, Michele LUONGO: 



Colomba Di Pasquale premiata da Il Sentiero dell'Anima: Primo Premio, complimenti!



Il mio Delta e dintorni di Colomba Di Pasquale riceve un nuovo prestigioso riconoscimento: il Primo Premio della XII edizione del concorso Il Sentiero dell'Anima. Complimenti!

Cerimonia di premiazione sabato 28 maggio ore 17.00 nell'incantevole paesaggio garganico di  San Marco in Lamis a cura delle “Edizioni del Rosone”, del Centro Culturale “Il Sentiero dell’Anima”, del FAI Fondo Ambiente Italiano. Una giornata dedicata alla poesia e ai poeti, immersi nei profumi e nel cielo di Maggio.  



https://it-it.facebook.com/Il-Sentiero-dellAnima-706739332700918/

 
Da Il mio Delta e dintorni



Gentile famiglia Pirro,  

non avendo un profilo fb vi ringrazio via e-mail per il premio attribuitomi, per il bel pomeriggio trascorso presso il vostro parco artistico-ambientale,unico per i colori, i suoni e gli odori di una natura incontaminata e serena.
Vi ho promesso che tornerò per vedere l'installazione della mia poesia pirografata lungo il vostro sentiero e per leggere con calma tutte le altre.
Mi corre l'obbligo di ringraziare le gentili parole del Presidente di Giuria che ho letto stamani in
https://it-it.facebook.com/Il-Sentiero-dellAnima-706739332700918/ è sempre complicato parlare di poesia ma voi tutti siete riusciti a farlo in maniera semplice e spontanea un pò come il parco nel quale siete.

Per i miei lettori/sostenitori allego la motivazione del premio e la stampa della pirografia (che ho ammirato su tavoletta di abete e a me la sola parola abete mi ha emozionata), nonché due esempi alti di installazione poetica contemporanea che ho trovato lungo il sentiero.
Per chi volesse visitare il Sentiero dell'anima
http://www.ilsentierodellanima.org/


Grazie e a presto, Colomba











 

mercoledì 25 maggio 2016

La consuetudine dei frantumi di Fulvio Segato vince il Premio Speciale Casentino 2016!

Già vincitore del concorso Faraexcelsior e del concorso Massa Città fiabesca, Fulvio Segato ottiene questo importante riconoscimento dalla giuria del


41° Premio Letterario Casentino
per editi di
POESIA - NARRATIVA / SAGGISTICA
Abbazia di S. Fedele - Poppi (AR)
11-12 GIUGNO 2016
 
per la sua raccolta
 
 
 
http://www.faraeditore.it/html/siacosache/consuetudinefrantumi.html
 
I più vivi complimenti e ad maiora!
 

lunedì 23 maggio 2016

Su un trittico inedito di Giuseppe Vetromile

Vincenzo D’Alessio


L’ennesima salita

Quando lui morì c’era ancora un attimo di luce sul tavolo di cucina
lento a ritirarsi oltre l’oceano infinito
del mondo qualunque ed appiattito

sembrava     il pallido sole     non voler più estinguersi
dietro i monti asciutti e distaccati
così     come per scusarsi di quella morte inopinata
che era entrata di soppiatto a disordinare
il regolare fluire delle cose
nel corso di anni regolari

e il tempo pure sembrò annichilirsi      sospendersi
tra un tic e un tac del vecchio orologio bianco
appeso accanto al lunario scolorito

Eppure sentimmo il vento respirare più disteso
e i profumi e gli aromi e tutte le forme del cielo
entrarci fino al centro del ventre: serenità
che placava ogni grido di tempesta

così pure il silenzio           e il vortice dell’intero pianeta
che continuava il suo giro ineluttabile
attorno ai confini del creato

sanciva la fine e l’inizio       concentrici

ed io dall’abisso ricominciavo l’ennesima salita
con un minimo abbrivio di speranza



Le cose stanno nel cassetto


Le cose stanno nel cassetto senza nessuna fretta di scomparire
stanno inerti aggiustate per bene ognuna nell'incavo
del suo spazio secolare
in attesa di una mano che le raccolga un'ultima volta
prima di andare

io lo so
perché quando le cose nel cassetto se ne vanno
vuol dire che tu sei diventato ombra di sbieco
attraverso la casa
e non agiti più le tende non scorgi la vita
giù nel parco chiassoso

le cose si riprendono la tua anima e vibrano
di ricordi
s'apre per esempio un guscio vecchio di noce
e suona improvviso il carillon
senza corda
eppure suona!
oppure tintinna un ciondoletto d'argento
come disturbato da un pizzico magico
e il quadernetto del rosario si sfalda
recita da solo avemarie

le cose stanno così
in silenzio e ferme come sassi nel cassetto
poi si riprendono la vita
quando tu esci una volta di casa
per non tornarci mai più



Si torna sempre qui

E poi non serve la borsa della spesa nell'umano mercato
delle cianfrusaglie
dei talismani che esorcizzano inutilmente
la chiusura del confine
oltre il pensiero barricato in fondo al cuore

ho provato per un momento a decadere nel cielo
farmi volo veggente oltre il tempo e lo strato
terreno dei miei piedi
- il salto inopinato fuori dalla finestra -
cercando giorni illuminati dalle parole dei poeti

non ho trovato alcuna scienza
e i tratti di inchiostro rifluiscono indeterminati
su un foglio che è ampio tutta una vita

quindi non serve il bagaglio delle parole
né dei gridi né dei silenzi

e si torna sempre qui
sul medesimo punto d'equinozio
a risolvere un problema che non esiste

o che nessuno ci ha dato da risolvere

si torna sempre qui
con la faccia sconfitta dalla terra

e in ogni parola il mistero si fa
più fondo

***


I poeti sono la voce dell’Umanità che cammina nel Tempo.

La Poesia rappresenta la più forte evoluzione del suono, della parola, della scrittura, che hanno accompagnato la Civiltà degli uomini fino ai giorni nostri. Capita così che un poema di duemila anni fa che racconta le vicende tra mare e guerre di Odisseo giunga ai nostri sensi intatto a sommuovere i sentimenti dell’uomo di oggi universalmente tecnologico.

Da almeno quarant’anni, Giuseppe Vetromile, raccoglie consensi nei concorsi nazionali, giungendo ai primi posti, con la sua poetica affabulatrice partita dalla visionaria realtà meridionale per giungere alla liricità del solipsismo di questo Ventunesimo secolo nel quale le cose, umanizzate, scandiscono il tempo degli uomini. La sua poetica si è evoluta nel tempo.

Il trittico composto dalle tre poesie: L’ennesima salita, Le cose stanno nel cassetto e Si ritorna sempre qui, ha vinto il primo premio alla tredicesima edizione del Premio Nazionale Città di Forlì 2016.

La disamina attenta del circostante investito dagli eventi naturali, giornalieri, trasmette al lettore la caduta dei sentimenti ,quella energia che per secoli ha sostenuto il dialogo generazionale. La perdita di umanità, causata dall’industrializzazione e dallo scientismo spinti al massimo, hanno compresso l’uomo decretando la morte della bellezza e degli Dei. L’uomo non ha alcuna necessità del metafisico, del divino, ha essenzialmente fame del tecnologico, delle cose inventate che lo accudiscono.

L’uomo muore, le cose inventate restano a parlare nel silenzio. Una volta le immagini, i racconti, i monumenti erano realizzati per tramandare la Civiltà umana, erano infusi di un’ anima recondita che si risvegliava al contatto con la sensibilità dei secoli che attraversava. Oggi anche le immagini, ammalate di velocità, hanno perso di intensità scadendo nel baratro dell’inutile consumo.

“Le cose stanno nel cassetto senza nessuna fretta di scomparire” scrive il Nostro declamando la triste sorte che spetta all’ uomo di oggi divenuto “ombra di sbieco”. In questa trasmissione energetica le cose posseggono l’anima del possessore scomparso e vibrano di quell’unica forza protesa ad annodare il passato con l’irraggiungibile presente: i ricordi. La trasmissione dei pensieri lega, attraverso gli oggetti, la persona scomparsa a coloro che restano.

L’esercizio poetico di Vetromile è mirabile, proteso a svelare l’oscurità dell’abisso che continuamente si avverte ad ogni morte : “(…) ho provato per un momento a de cadere nel cielo / farmi volo veggente oltre il tempo e lo strato / terreno dei miei piedi / - il salto inopinato fuori dalla finestra - / cercando giorni illuminati dalle parole dei poeti / non ho trovato alcuna scienza / e i tratti di inchiostro rifluiscono indeterminati / su un foglio che è ampio tutta una vita”.

“Si torna sempre qui” è il titolo di questi ultimi versi citati, la ricerca che nell’anima del poeta, dell’uomo, si fa scintilla primitiva di luce, quel raggio di sole di quasimodiana memoria, proteso a svelare a noi che il dono della poesia tormenta il poeta ma sazia l’umanità che a questa fonte si disseta.

L’anafora presente nella poesia “Le cose stanno nel cassetto”, l’identità dell’io narrante, riporta alla mente i versi della poesia Non chiederci la parola di Eugenio MONTALE, il quale tenta il lettore chiedendogli di soffermarsi nell’incanto di quelle storte sillabe che lo sostengono nel dialogo senza tempo: kairos , il tempo giusto mentre tutto accade che in Vetromile si leggono così: “(…) il vortice dell’intero pianeta / che continuava il suo giro ineluttabile / attorno ai confini del creato / sanciva la fine e l’inizio concentrici.”

L’io scrive, racconta agli uomini quel tempo delle cose che sfugge, velocissimo, più delle immagini trasmesse dagli smartphone o dai satelliti che pendono sulle teste dei comuni mortali incoscienti.

La destinazione ancestrale della scomparsa terrena degli esseri umani sembra svanire in “(…) quell’oceano infinito / del mondo qualunque ed appiattito”. I versi di questa triade felice la riportano allo stato di grazia che non ha più radici nella Fede monoteistica che ha accompagnato l’uomo da millenni soggiogandolo alla paura del peccato e della pena ma destinandolo alla trasmissione dell’energia vitale negli oggetti che lo ricorderanno, che sopravvivono all’urto violento del Tempo.

“(…) ed io dall’abisso ricominciavo l’ennesima salita / con un minimo abbrivo di speranza”, questi versi che chiudono la poesia “L’ennesima salita” richiamano il fervore della foscoliana “dea speranza” questa volta, però, munita di quella forza iniziale che determina il movimento del distacco della nave dalla riva per intraprendere il viaggio. Viaggio che ogni essere vivente deve intraprendere (télos) per ritrovarsi nell’energia cosmica dell’Essere.

venerdì 20 maggio 2016

Franco Casadei: L’altrove che cerco

in AA.VV., 2016. La luminosità dell’ombra, Fara Editore 

recensione di Vincenzo D'Alessio

http://farapoesia.blogspot.it/2016/03/vincitori-del-concorso-pubblica-con-noi.html
La solida Antologia 2016. La luminosità dell’ombra, pubblicata dalle Edizioni Fara di Rimini quest’anno nella Collana Nèfesh, accoglie i contributi dei diversi autori che hanno preso parte al concorso Pubblica con noi 2016, indetto dalla stessa Casa Editrice per divulgare le poesie e i racconti contemporanei. Tra loro c’è Franco Casadei con la raccolta L’altrove che cerco.

Divisa in quattro sezioni: “L’altrove che cerco”, “Nel sonno dell’inverno”, “Percorsi” e “Paradossi”, la ricerca apre il suo percorso soffermandosi sui luoghi del silenzio, la vita monastica, la sinergia con la Natura Madre. Prende in qualche modo il “la” dalla poetica tanatologica del Nobel Salvatore QUASIMODO: «Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera.» (Ed è subito sera).

Così scrive sul tema il Nostro: «(…) Il monaco / è un solitario / prefigura in fondo ciò che siamo / la solitudine originaria di ognuno / tutti insostituibili / nessuno potrà dire io / al posto mio.» (Camaldoli, all’eremo, pag. 175). Il tema del silenzio che sconfina nel ricordo dei morti e del fine vita accompagna il lettore dall’inizio alla fine della raccolta.

L’altrove che Casadei ci indica supera l’inverno, analogia della vecchiaia, per raggiungere la bellezza delle stagioni solari, una energia potente che somiglia tanto a una vera rivoluzione, invisibile agli occhi degli uomini, una resurrezione dal buio della terra negra che avvertono gli animali, i rami neri degli alberi, provvisti di una profonda fede.

La ricerca dell’altrove, sinonimo del ritrovarsi con la propria anima senza il peso del corpo, si avvera filosoficamente in quella attesa utopica che alimenta la Fede monoteistica dell’Occidente: «L’utopia fa leva sul deserto / – un non luogo – / un progetto che riserva / tutto nel futuro / e svuota la realtà / come tutto fosse provvisorio.» ( L’attesa utopica, pag. 187).

Versi solari, sinceri, poeticamente energetici, sono inclusi nella terza sottosezione “Percorsi”: riservati alla terra dove si svolge l’iter ideale della personale ricerca dell’Autore (sinonimo di fede nella filosofia del fare), la Romagna: le vicende umane di un personaggio storico come don Oreste BENZI (pag. 182); la bellezza de L’infiorata di Romagna (pag. 179); L’uomo che abitò sul mare (pag. 180); La campana (pag. 183) dove l’oggetto umanizzato accompagna la vita del paese anche nel momento terribile in cui la terra trema seminando morte e distruzione: «(…) Per secoli / ha accompagnato il popolo / nel saluto estremo, / per sé stessa / – la campana – / ha riservato l’ultimo rintocco, / a morto.»

La raccolta del Nostro è un sincero contributo alla poesia del Novecento, vicina ai poeti romagnoli come Pascoli e al poeta torinese Guido Gozzano.

La produzione poetica di Casadei si avvale del verso libero, di diverse assonanze, di rime interne e similitudini. Permane nel racconto poetico il senso dell’arcano, dell’invisibile, la trama antica, qualcosa che sfugge ai disattenti ma non al lettore dei suoi versi: «(…) Laggiù sarei diverso, / sarei diverso io, più in pace.» (L’altrove che cerco, pag. 177).

domenica 15 maggio 2016

Giovanna Iorio: La neve è altrove

in AA.VV., 2016. La luminosità dell’ombra, Fara Editore
recensione di Vincenzo D'Alessio

http://farapoesia.blogspot.it/2016/03/vincitori-del-concorso-pubblica-con-noi.html
La poetessa italo irlandese Giovanna Iorio ha partecipato al concorso Pubblica con noi 2016, indetto dalla Casa Editrice Fara di Rimini, diretta da Alessandro Ramberti con la  raccolta La neve è altrove: venticinque corpi poetici intrisi di grande padronanza linguistica, di filosofica cosmogonia dell’universo interiore.
I continui studi sulla Letteratura Irlandese, e in modo particolare sulla poesia delle poete di quella terra, tradotte in perfetta armonia, come Eavan Bolland, Medbh McGuckian e diverse altre incluse nell’Antologia Dopo lungo silenzio (Moby Dick 1997), permettono  di leggere oggi i versi della Nostra intrisi di una luminosità intensissima, proprio come la neve che si rivela alla luce del sole.

La neve, che permane nella raccolta rivelandosi dolorosamente calda, muove dalla scomparsa dell’affetto paterno rappresentato dapprima in una rosa, poi nella voce: quest’ultima unico contatto tra gli esseri viventi: “Io non so se sia /  benedetto il giorno / ma vivo della notte è il sonno / in cui ritorna / in carne ossa la voce  / a benedirmi.” (pag. 172).
La poesia è un dialogo in versi raccontato all’infinito: non ha tempo, non ha età, si dispiega in mille ordini naturali che salvano l’Umanità dalla fine dell’esistenza. Questo stato d’animo alimenta la poetica di Giovanna Iorio, non solo in questa raccolta ma da diversi anni, di modo che la sua poesia diviene universale perché vive in tutti gli elementi naturali e anche  nelle cose che circondano l’io poetico.

Il primo elemento narrativo, la neve, è la forza  che racconta, che riverbera negli animali che vivono la stagione invernale con le  loro abitudini: “ (…) da qualche parte le volpi attraversano /  pagine bianche – Oh, voi che affondate / le zampe in questo silenzio /  tornate.” (pag. 166); “(…) Allora le volpi uscivano dalle tane / in cerca dei nostri occhi come se fosse questo vedersi / improvviso l’unico cibo.” (pag. 168); “Ho bisogno di ricordare / i giorni fermi sotto la neve / le parole sbriciolate nel becco degli uccelli / l’aria piena d’ali / i rami spezzati dal peso del bianco / cadevano senza fare rumore come segnali muti.” (pag. 168).
L’energia creativa riversa nella Natura durerà per sempre come le pagine bianche segnate dai versi della poesia eterna. Viene alla mente il bellissimo film La bambina e la volpe  del regista Luc Jacquet del 2007, dove la neve svolge il ruolo di  contatto tra due esseri viventi e il circostante.
La neve è metafora della purezza, della maturazione dei germogli che ricopre, della rinascita delle sorgenti sotterranee, del lungo sonno che precede il risveglio.
La neve è anche fonte di silenzio inglobante, quella forza che spinge la Nostra ad avvicinarsi filosoficamente al pensiero di Friedrich Hölderlin e di Hans Magnus Enzensberger: l’altrove come topos del viaggio senza fine, desiderato e continuo, nonostante l’energia del perturbante che avvicina l’umanità alle sponde del mare dove naufragano le esistenze.
La ricerca dell’altrove è  nella poeta l’energia dei viaggi che ha vissuto e che riporta nella prima poesia di questa raccolta: “Mi agito a volte come una sfera di vetro / due mani mi scuotono e mi nevica dentro.” (pag. 165).

La palla di vetro, fragile e forte allo stesso tempo come l’esistenza, viene agitata da due mani: esse rappresentano le vicende che legano la poeta all’Umanità intera, mani creative che imprimono energia vitale e danno l’avvio alla ricerca della poesia come senso di liberazione dell’io che comunica il suo “dentro” al Mondo.

Dalla ricerca dell’altrove, e dalla certezza che questo topos esiste proprio perché cercato in ogni essere vivente e nelle cose, scaturisce l’intensa vena poetica della Nostra: “Mi piacciono le mani / quando non afferrano niente / quando se ne stanno ferme e il tempo / mi attraversa le dita come fossero rami / e il vento la vita.” (pag. 165).
Dare un ordine alla propria esistenza in questo momento in cui la neve copre, come una lieve lastra tombale, l’affetto concreto che ha dato origine al corpo della poeta ed ora lei ne è la continuità rivelata: “Ho bisogno di ricordare” (pag. 168);  “Vorrei saper stare davanti al bianco del muro/  come se fosse di neve.” (pag. 169); “(…) Io mi ricordo dei petali aperti / di una rosa invernale / e foglie tormentate dal gelo” (pag. 171); “È ora di ficcarsi in un ricordo / come in una sfera di vetro” (pag. 173).
Bellissime sono le risorse personali dettate in poesia dalla conoscenza del lungo passato contadino della sua verde terra, l’Irpinia:  l’impastare e cuocere il pane in casa; lasciare l’acqua sul fuoco che bolle mentre aspetta che venga calata la pasta;  il fuoco gratificante del focolare che accoglie le scarpe sporche di neve e i vestiti evaporavano l’acqua dei fiocchi di neve; il rumore dei piatti sul tavolo; la magnificenza del calore domestico.

L’universo poetico di Giovanna Iorio muove da qui e non potrebbe essere diversamente se la sua scrittura annovera oltre alla grande poesia i più bei racconti per tutte le età: caldi come la neve raccolta all’aperto e immersa  in un bicchiere nel succo di limone e nel poco zucchero tanto da farne l’antico gelato che piaceva ai nostri antenati. Tutto ha un senso. Ogni forma poetica assume un profumo così lieve, però, che confonde il dolore del freddo con il calore delle labbra.
La bocca  racconta in versi l’antico dolore del distacco dall’affetto paterno divinizzandolo come una promessa: la memoria non muore ma migra nel tempo del fare (poiesis): “E io ti strappavo l’ultima promessa / dalle mani fredde – stringevano / i grani di un rosario di rosa” (pag. 172); “(…) poi un cero per far tornare a casa un padre / come se la notte non fosse / il mare aperto la paura che sa /  trasformare un suono in voce / (…) quello che torna non è mai uguale / e bussa alla porta una mano / che non sa cosa è venuta a cercare /  infrange il vetro d’aria / dentro ha il suono di antiche parole.” (pag. 173).
La poesia della Nostra è fondamentalmente affidata al verso libero; a svariate figure retoriche  come l’anafora , la metonimia, l’umanizzazione degli oggetti, le similitudini; in alcuni punti la rima baciata; le assonanze; la disposizione libera dei versi anche nella lezione della divisione sillabica del corpo poetico a pag.170 ( “Questa gabbia di ”).
La Giuria del concorso ha recepito appieno la grandezza di questa poeta come annunciano le parole del componente Lorenzo Mari che scrive a tal proposito: “Nevica tra le parole, in questa raccolta, dove la neve è immagine costante, emergendo a tratti – fuori da ogni luogo comune – come una presenza che può essere anche inquietante.” 

Spetta ora all’editore  pubblicare la presente raccolta  come singolo volumetto per raggiungere una maggiore diffusione per le generazioni di questo  millennio.

Montoro, 14 maggio 2016

giovedì 12 maggio 2016

Gli Specchi Critici- Il Beat toscano di Massimiliano Bardotti - Luca Cenacchi

“L’uso originario nel linguaggio di strada significava quindi esausto, che ha toccato il fondo del mondo, e da li guarda fuori o in alto, insonne, con gli occhi ben aperti, percettivo, respinto dalla società, che non ha nessuno su cui contare[…] In molti ambienti, beat era quindi interpretato con il senso di svuotato, esausto e al tempo stesso aperto e ricettivo alla visione.Un terzo significato di beat, come in beatifico, fu formulato in pubblico da Kerouac nel 1959[…] Kerouac cercò di indicare il senso corretto della parola sottolineandone il nesso con parole come beatitudine e beatifico – la necessaria beatness o oscurità che precede l’aprirsi alla luce, al superamento dell’io, al dare spazio all’illuminazione religiosa.[…]
Alcuni ideali essenziali del movimento artistico originario[…] un interesse per l’indagine della natura della coscienza, che ha condotto alla conoscenza del pensiero orientale, alla pratica della meditazione all’arte come manifestazione dell’esplorazione della coscienza e, come conseguenza, alla liberazione spirituale.[…] L’arte è concepita come pratica sacra, con un atteggiamento sacramentale verso ciascuno di noi in quanto personaggi. Il tono di schiettezza emerge con buonumore e con una disinvolta franchezza spontanea, l’immediatezza non premeditata nella vita e nell’arte[…] e infine la rivalutazione dell’eros, l’atteggiamento sacramentale verso la gioia sessuale. Questi sono i temi principali che hanno intessuto tutta l’arte e la poesia e la prosa[…]”
premessa di “Allen Ginsberg” a “The beat Book” A cura di” AnneWaldman”, il Saggiatore, 2015

In virtù di una più agile e lineare presentazione dei nessi tematici dei lavori di Massimiliano Bardotti ( Fra le Gambe della Sopravvivenza, Thauma 2011(finalista al PremioMario Luzi), A Cieli Aperti, Thauma 2013 e L’Abbraccio, Fara Editore 2015, opera selezionata dalla giuria del concorso Faraexcelsior nello stesso anno) ho ritenuto necessario prendere le mosse da questa premessa di Allen Ginsberg che delinea, in maniera lucida e sintetica, il discorso sulla beat generation.
La poetica di M. Bardotti ha esiti eterogenei e di difficile catalogazione, ma condivide alcune tendenze, per lo più ideologiche Beat. In particolare l’autore è vicino “all’arte come pratica sacra, alla rivalutazione dell’eros e l’atteggiamento sacramentale verso la gioia sessuale”. Temi che ha sviluppato, nelle “stilizzazioni” più mature, con una sensibilità tematico -tecnica legata alla cultura italiana e non.
 

 Fra le Gambe della Sopravvivenza diviso in sette parti ( lieve, inquietudine, contro-verso, incessante, requiem, risorgere, memoria e speranza) in questo incarna toni corrosivi di critica alla società massificata dove le immagini, carattere fondante di altre poesie, vengono dissolte in favore di una soluzione cronachistica che se, da una parte, dialoga con il lettore, dall’altra, nella sua icasticità tagliente, quasi fosse una rapsodia nevrotica di testate giornalistiche, denuncia crimini e squallore che man mano passa in rassegna. “Fuga di cervelli verso la civiltà. / la ricerca del nuovo porta esaurimenti nervosi. / nel paese delle meraviglie. / Schiaffi sulla nuca invece delle carezze./ accanimento terapeutico./ Chi paga il conto in sospeso di dio?/ Nelle prigioni cattoliche sentinelle col cilicio./ In libertà provvisoria tutti i condannati a morte./ Controllare le nascite/ bambini prefabbricati.[…]” .
Negli aspetti spigolosi della retorica di questo lavoro si delineano già le fondamenta tematiche su cui si baseranno le esperienze più mature. L’ideale della figura poetica che, già da questa raccolta va delineandosi, similmente a Emanuel Carnevali, è un escluso: colui che vive ai limiti della società e pur la osserva criticamente in lontananza.
Tuttavia lungo il percorso di questo libro Bardotti sembra coesistere, il più delle volte a malincuore, con la stessa realtà che ripudia. Quindi, nonostante sottolinei la sua presa di distanza, essa rimane tuttavia su un piano progettuale. “dentro/ ci sono io/ e un film di David Linch./ Ma fuori è anche la piazza/ la manifestazione / i colori della pace/ nel tempo della guerra. / fuori è l’inciviltà globalizzata/ fuori i serial killer fanno politica.” Un incoerenza necessaria perché è fra lo squallore che Bardotti riesce a ritagliare uno spazio per la sua visione della bellezza come innocenza pre- strutturata(dalla contemporaneità). Visione che se, da una parte, si sostanzia in un “presente” di simbologia visiva della delicatezza pura ( la sera, la notte, il limbo fra fine della notte e inizio del mattino,la carezza, la neve, la donna e i suoi candori, la natura generatrice, l’atto sessuale etc…) dall’altra viene espressa meglio, e più sinteticamente,  nel ricordo dell’infanzia: quel momento, quel limbo se vogliamo, in cui la meraviglia magica possiede gli occhi del bambino il quale, attraverso di essa, codifica la realtà. Abbandonati i toni dissacratori e critici, la sintesi più alta e originale della raccolta vede la dimensione infantile, rievocata attraverso il ricordo, manifestarsi in slanci di visionaria ed intima quotidianità “Una mano/ rammenda lo strappo tra notte e mattino./ Quest’ora io vivo./ Qui mi accorsi della morte/ sulla bocca di mia nonna./ Nella camera accanto/ con un soffio/ abbandonò la povertà./ Prese il volo/ ineffabile/ verso il Segreto./ Da quella notte/ ogni notte/ la sua mano sapiente / rammenda lo strappo notte e mattino/ ed io/ seguo la linea che traccia/ il suo ago sottile.” Massimiliano Bardotti è dunque il bambino che vive ai limiti dello squallore protetto dalla sua bellezza ingenua, la quale è fonte della sua massima forza. Il poeta che, per perpetuare e rievocare la magia della “stasi infantile”, sceglie di vivere nel limbo fra notte e mattino attraverso il quale, anche se per poco, può ritornare a vivere per un istante, pacificando gli slanci corrosivi, in quella dimensione, sacralmente magica e visionaria, di limbo che è l’infanzia.

 

Se Fra Le Gambe della Sopravvivenza ci ha lasciato in quel limbo di ricordi A Cieli Aperti riporta il  lettore nella dimensione del reale. La prima parte del libro, A Cieli Disperati, si presenta come un poemetto strutturato in sette parti che alterna a una versificazione breve, con un ritmo febbricitante e martellante, una versificazione più distesa, man mano che ci si avvicina al sonno rivelatore. Nel suo complesso A Cieli Disperati riprende i toni di sofferente denuncia della raccolta precedente, chiudendo nel canovaccio della formula “A cieli” l’universo in cui si svolge non solo il conflitto umano, ma anche il conflitto residuo che l’autore ha con l’umanità. I toni sono ancora pervasi da una corrosività polemica, tuttavia si nota già, anche a partire da questa prima parte, come l’autore veda l’umanità: ovvero un blocco unico da cui non si riesce a staccarsi totalmente. Nel procedere forsennato del poemetto, infatti, riaffiora, dalla mescolanza di eventi esterni, il vissuto personale dell’autore. Ciò è importante perché è in questa sede che l’autore riunisce, sotto un unico cielo, la totalità delle miserie umane. In questo impianto germina, dunque, la volontà di ambientare il tutto in un unico spazio; operazione che sarà la base delle proposte della raccolta successiva.  Riaffiorano così le simbologie già annunciate precedentemente e talvolta, alcune, vengono sviluppate con maggiore coscienza ( è il caso dell’apocalisse, la quale viene percepita, in questa prima parte del libro, come fine dell’umanità, ma per converso anche come liberazione dell’autore). La carezza e la purezza, assieme alla figura materna, prima elementi che godevano di una propria autonomia, ora vengono sporcati dal fango delle miserie umane. La figura del bambino riaffiora qua e la in una maniera apparentemente maleducata “Posso leggerti queste pagine/ leccarti fa le gambe/ i seni/ i capezzoli” la quale tuttavia non è altro che la maniera priva di filtri propria degli infanti. Egli non può far altro che immergersi, talvolta in modo poco elegante e goffo, nella vita allo stesso modo in cui, anche nella raccolta precedente, ha affondato le mani nella marmellata: “ Affondare in queste specie di serenità con mani/ sporche di marmellata alle mele”. Nella settima parte l’autore saluta il mondo per dipartire e pervenire in una dimensione di onirica rivelazione dei “ Cieli Sperati”. Momento in cui si arriva a una sorta di nuova declinazione del limbo (notte-mattino) e si manifesta il miracolo e la meraviglia verso la creazione in cui anche gli opposti, nei loro conflitti, sembrano fondersi in un armonia superiore: “ ora si giunge ai cieli sperati/ capovolti gli alberi e i prati./ Ora la Pioggia si appresta a salire/ anime aperte a bagnarsi di luce. “ Qui tutto nasce trabocca sboccia oltrepassa./ siamo in una regione rigogliosa” una specie di Eden, dunque, governato da una natura tutta femminile “ Natura scorbutica femmina/ al pari d’ogni dio nostro” un giardino in cui può brillare “ Finalmente sole di mezzanotte”.
 
Alla luce delle raccolte precedenti si può comprendere come le quattro parti che compongono il libro L’Abbraccio ( Patria notte, Febbre di Neve, Gli Esclusi, La Vita Vista da Qui) ereditino, dalle altre raccolte, una simbologia che viene sviluppata nel canovaccio programmatico dell’abbraccio. La versificazione si piega alla necessità espressive dell’autore: da una parte è frammentata per far fronte a un esigenza programmatica di raccontare o definire piuttosto che descrivere. Frammentazione cucita assieme da un procedere elencativo di aggettivi o sostantivi in assonanza e rima fra loro (sulla scorta di Campana). Ciò imprime un ritmo quasi sospirato, ma estremamente calmo, anche se non manca di essere affrettato, qua e la, da enjambement. Dall’altra si distende per reggere le descrizione del poeta bambino che riempie, trasfigurandola, la quotidianità con elementi magici e fantastici. Nella poesia di apertura, il poeta si stabilisce nella notte: nuova dimensione di limbo festante di vita e memorie in cui egli entra in comunione con gli elementi naturali, trasformandosi in essi. In questo momento, sopra alla consueta simbologia della lieve carezza presentata precedentemente, si sviluppa e addensa la figura della Fata conservatrice dello slancio vitale notturno e della speranza nonché dell’individuo stesso: poiché “ ciò che siamo è una promessa”. La Fata compie la sua magia dopo che i sogni si sono perduti al primo sbadiglio durante il mattino: “Buon giorno mia piccola fata/ acrobata fra tavole calde/ esaudisci gli altrui desideri/ La sera/ ti prende rubina./ Altrove/ con occhi di maga/ inventi la vita./ Pensi a ogni cosa conosciuta/ e la elimini./ In quello che resta/ l’universo si espande/ e le promesse si mantengono.” Il poeta, attraverso la notte, si prefigge di vivere quel momento di eterna incompiutezza dell’atto, quella promessa, che, precedentemente, era simboleggiato nel momento in cui la notte si faceva mattino e che ora è riproposto in una gamma di declinazioni più varie “ Il principio/ la fine/ ci stiamo in mezzo”. In questo senso si sviluppa una specie di estetica dell’attesa in cui Bardotti trova confortante somiglianza con la sua natura di “promessa” e di cui si meraviglia. Anche la sofferenza viene riprogrammata e, in “Febbre di Neve”, essa diviene quel fermento vitale che, se pur testimonia la sofferenza di un individuo, allo stesso tempo, ne sottolinea la lotta per la sopravvivenza. In questa seconda parte si ripropone un ritmo febbricitante, che dimostra di essersi lasciato alle spalle gli eccessi corrosivi delle raccolte precedenti. In questo tumulto si ritorna la figura femminile, a cui il poeta tende come un balsamo, la quale incarna il candore leggiadro, oltre che essere promessa e speranza della vita stessa. Ogni poeta, dunque, soffre, ma soffrendo si rafforza e sottolinea la sua vitalità fuori dal comune. Nella terza parte, gli esclusi,  si struttura definitivamente la figura e funzione dello scrittore rispetto alla società. Il poeta è l’eterno bambino, il quale abita nella notte; egli soffre e, soffrendo, non si rassegna più al suo destino, ma lotta e alimenta la sua febbricitante vitalità di neve: pura come lui. Così diventa un escluso che, idealmente, vive ai bordi della società con cui però entra in conflitto. Non riuscendo a distaccarsene, con essa, ingaggia una lotta in cui egli cerca di sovvertirla e lei di appiattire il suo estro creativo conformandolo attraverso processi educativi. Il poeta, qui inteso in senso generico, dunque è colui che ha sviluppato quella facoltà immaginativa propria dei bambini e, dunque, in sua virtù assurge a creatore di universi e mondi interiori. Nell’abbraccio, dunque, l’autore lancia il suo gesto sovversivo in cui punta a riunire tutti questi abitanti della notte, che siano già vissuti o viventi, per innalzare il loro canto di protesta inascoltato e profetizza il loro esodo. “Per andarcene useremo astronavi./ sui marciapiedi del tempo faremo capriole/ per restare bambini/ per non peggiorare.”
Nell’ultima parte del libro, La Vita vista da qui viene riscoperto Dio nelle piccole cose, nella bellezza sovversiva creata dai poeti e, più in generale nell’indefinito di quella “intera pianura di orizzonti che si/ rincorrono” perché “ Non c’è gloria sul traguardo per chi ama la/ creazione” per sfociare nella dichiarazione di amore generale che vuole abbattere il fattore di estraneità tra gli esseri umani: “Eppure ci scambiano nelle culle./ Non conoscerò mai mia madre/ Ne tu la tua. Siamo fratelli./ Ti amerò per sempre”. In questa ultima istanza, quel noi che percorre tutta la raccolta, quell’abbraccio, viene allargato all’intera umanità e finisce per essere atto e codice della lingua dell’amore che si andava cercando in tutte le raccolte precedenti, ritenendola perduta.

Massimiliano Bardotti - L’abbraccio -Fara editore, 2015
Fra le Gambe della sopravvivenza Thauma, 2011 – disponibile presso libreria Cuentame Empoli
A Cieli Aperti – Thauma 2013- disponibile presso libreria Cuentame, Empoli

Massimiliano Bardotti è nato a Castelfiorentino, dove vive, il 18/10/1976. Nel 2011 è  
uscito il suo libro Fra le Gambe della Sopravvivenza (Thauma ed., finalista al Premio  Mario Luzi), quinta opera poetica edita. Nel 2013 pubblica A cieli Aperti (Thauma). In Collaborazione con Genny Carusi cura la rubrica IO SONO TE TU SEI ME, sulla rivista on-line L’Olandese Voltante. Ideatore e docente del laboratorio di scrittura ri-creativa Cut-up, la Sartoria delle Parole. Con Giacomo Lazzeri e Sara Giomi (musicisti) porta avanti il progetto LaMinimaParte, musica e parole che si incontrano e diventano teatro. E’ presente in Letteratura… con i piedi (Fara 2014) e in numerose altre antologie, oltre che in blog letterari e social network.

 Luca Cenacchi è nato a Forlì nel 1990. Nel 2011 la poesia Laocoonte – ovvero di se  stesso è stata selezionata per essere pubblicata nell’antologia del Premio letterario  Ottavio Nipoti - Ferrera Erbognone. Ha contribuito a fondare e sviluppare il forum
 letterario I Gladiatori della Penna. Nel 2015 I suoi testi inediti sono stati presentati nella  serata Arcadie Invisibili all’interno del progetto La Bottega della Parola organizzata dalla Associazione culturale Poliedrica di Forlì. Nel 2016 il blog letterario Kerberos ha scritto un articolo critico di alcune sue poesie inedite  Valore-contenuto e valore-bellezza: il senso del sacro attraverso latrasfigurazione dell’immagine e la neutralità del messaggio. Nel mese di Aprile dello stesso anno tre sue poesie(La Perla ,  Anoressica e Francesca) sono state selezionate per essere inserite nella antologia La miasfida al male pubblicata a seguito della terza edizione del concorso letterario Come Farfalle Diventeremo Immensità , in memoria di Katia Zattoni e Guido Passini, indetto da Fara Editore. Aspirante critico letterario è ansioso di contribuire al dibattito sulla poesia contemporanea attraverso la rubrica critica Gli Specchi Critici realizzata in collaborazione con il blog Kerberosbookstore e Fara Poesia. Nel 2016 è giudice presso il concorso Faraexcelsoir 2016.
Per ulteriori informazioni sul progetto: glispecchicritici@gmail.com, facebook, twitter .

mercoledì 11 maggio 2016

Nuvole sparse: Gianluca Garrapa

Di cosa

Di mare di pietre di scaglie
Di sole di umani di sale
Di odori di vele le vele
Di cielo di bianco vestito
Di uomini d'alghe e motori

Di soffio di vita la vita
Di cielo di cose al largo
Del mare che siamo
Di storia di erbe di santi
Di tanti ricordi che ora
Di noi fanno quel che saremo
Di poi molto simili a nuvole

Di carne di ossa aquilone che invola
Di pochi frammenti
Di luce che siamo
Di nebbia per non restare
D'amore di spiagge di corpi
Di stelle di campi di fiori

Di sogni morire.

Gianluca Garrapa

(inedito)