mercoledì 27 gennaio 2016

CLAUDIO TUGNOLI TRA LINGUA DI BUDRIO E HAIKAI

di Massimo Parolini

Claudio Tugnoli è un filosofo poetante nativo di Budrio, vicino a Bologna: ha insegnato filosofia e storia nei licei trentini (soprattutto al classico “Prati” di Trento) e nelle Università di Trento e Bologna. Inoltre ha svolto per anni attività di ricerca presso l’Iprase trentino (ente per l'aggiornamento insegnanti) pubblicando vari volumi di filosofia e antropologia filosofica con un’attenzione particolare al tema del tempo: tra le sue varie pubblicazioni   ricordiamo Diacronia e sincronia. Saggi sulla misura del tempo, Zooantropologia (entrambi della Franco Angeli)  e  Girard. Dal mito ai vangeli (ed. Messaggero Padova).
Come poeta Tugnoli  ha pubblicato  La tua ombra (Manni 2011), Gli anni riapparsi in umiltà di gloria. Poesie in dialetto brudriese (Manni 2012), Sarà forse la rana, o alcun che solo canti. Centosei haikai (Manni 2013), Or tutta la palude è come un fiore. Nuovi haikai (Il Monogramma 2014), Terra terra inesausta matrice. Poesie dell’infanzia budriese (Manni 2014),  e la recente In sul declinar fiamma m’accende.  Novantahaikai (Il Faro 2015).  
I temi cari della sua poesia sono quelli universali della precarietà della vita, della riflessione sulla morte, del ricordo di un mondo contadino di ispirazione camoniana e olmiana. Tra le poesie più belle in budriese (che ha ricevuto il primo premio per la sezione poesia in dialetto al concorso  di poesia  “Nestore” organizzato da “Nuovo arcobaleno” di Savona), c’è senz’altro  La gramadåura  (“Impastatrice di legno”), contenuta nella citata Terra terra inesausta matrice. Poesie dell’infanzia budriese: quaranta poesie in dialetto budriese inframezzate da versi in italiano e da sporadiche citazioni dotte.
Come scrive il linguista Daniele Vitali nella sua  Prefazione  “Il tono  dei pezzi in dialetto e quello degli intermezzi in italiano è molto diverso”: il dialetto Tugnoli lo usa per i ricordi e contiene tracce di rimpianto, “L’italiano è una specie di contrappunto” dotato di una certa ironia e distacco che va a spezzare il “flusso di coscienza dialettale” della raccolta. Il dialetto di Budrio svolge quindi la funzione letteraria, mentre gli inserti in lingua nazionale – come scrive sempre Vitali – hanno una valenza “ancillare”. Il budriese, ci ricorda Vitali (autore, con Luigi Lepri,  di un importante Dizionario Bolognese-Italiano, Italiano-Bolognese  e della  grammatica Dscarret in bulgnais?) appartiene al ramo rustico orientale della galassia dei sottogruppi dialettali bolognesi. In calce del volumetto ricordiamo una “Nota sulla lingua” di Tiziano Casella (al quale si deve anche la revisione ortografica delle poesie della raccolta), impegnato da anni nell’insegnamento del dialetto ai giovani budriesi e dell’ortografia ai meno giovani.
La poesia svolge una “filosofica” similitudine tra gli elementi della terra (da un lato) che nelle mani sapienti della madre e lo strumento tecnico (impastatrice) diventavano pane  che “ terminava di morire nelle nostre bocche/ e infine diventava terra/ e poi grano di nuovo” (insomma: la ciclicità della ruota naturale e il “tutto si trasforma”) con l’uomo e la sua esistenza effimera  (“Anche noi diventiamo terra,/ma ad esser rinato come fa il grano,/sappiamo che finora è stato solo Uno”) che può aspirare ad una propria rinascita solo nel solco della fede nell’uomo-Dio.
Pubblichiamo di seguito la versione in “budriese” e la traduzione in italiano:


La gramadåura

Apànna l’avêva preparè la pâsta,
int al quâtar dla matîna,
mî mèdar l’um mitêva sòta
a môvar la gramadåura,
pr an avàir da mnèr la pâsta
tótta con al män, con una grän fadîga.
La gramadåura l’îra un’âsta ad làggn
che mé a fêva andèr só e żò
parché ch'la squizéss l inpâst
che mî mèdar la muvêva
par dèri al tûran.
Una vôlta mnè pulidén
l inpâst l andêva taiè in tänt pîz
par fèr al pagnòt e i panén.
Dal män svêlti ad mî mèdar
ai gnêva fòra al fåurum ad pän
biänchi biänchi con un udåur spezièl:
âli andêvan lasè quêrti un zêrt tänp
prémma ad méttri int al fåuran
par dèr môd al livadûr ad bérra
ad fèr livêr la pâsta al necesèri.
Cûṡar al pän al n îra mìa fâzil,
biugnêva ch'al fóss còt al giósst
né tròp còt né tròp pôc.
Arê vló dmandèr a mî mèdar
se cal pagnòt acsé bèli
âli avéssan vójja d andèr int al fåuran.
Lî l'um arê détt che ai vlêva al fåuran
pr avàir al pän prónti da magnér.

Da biänc al pän al guintêva
dal stàss culåur dal furmänt madûr!
Al pagnòt apànna gnó al mònd
as lasêvan cûṡar sänza dîr gnìnt:
dòp che la calûra la i avêva tôlt al fiê,
âli îran prónti da magnèr.
Al pän còt e al furmänt madûr
se i avêvan al stàss culåur,
ai avêva da èsar un parché:
l îra che tótt dû i îran arivê ad cô.
Al pän al finêva ad murîr
int al nòstar bòcc
e âla fén al guintêva tèra
e pò furmänt un’ètra vôlta.

Panis angelicus
fit panis hominum;
dat panis caelicus
figuris terminum;
O res mirabilis:
manducat Dominum
pauper, servus et humilis.

Nuètar invêzi quänd a sän ad cô
a pirdän al culåur dal furmänt madûr
o dal pän còt e a guintän biänc biänc,
ch'a parän alżîr alżîr, quèi prónti
par èsar spazè vì da un cåulp ad vänt.
Änc a nó a guintän tèra,
mo a turnèr a nâsar cum é al furmänt,
fén adès a savän ch'ai é stè såul Ón.


L’impastatrice di legno

Dopo aver preparato l’impasto
verso le quattro di mattina,
mia madre mi metteva all’opera
per azionare l’impastatrice,
così da non dover lavorare l’impasto
solo con le mani, con una gran fatica.
L’impastatrice era un’asta di legno,
che io facevo andare su e giù
per schiacciare l’impasto,
mentre mia madre lo muoveva
per dargli il turno.
Una volta lavorato ben bene,
l’impasto si tagliava in tanti pezzi
per farne pagnotte e panini.
Dalle mani svelte di mia madre
uscivano forme di pane
bianchissime con un profumo speciale:
si lasciavano coperte per un po’
prima di metterle nel forno,
per consentire al lievito di birra
di far lievitare la pasta il dovuto.
Cuocere il pane non era facile,
doveva essere cotto il giusto,
né troppo, né troppo poco.
Avrei voluto chiedere a mia madre
se quelle pagnotte così belle
volessero andare nel forno.
Lei mi avrebbe detto che ci voleva il forno,
per avere il pane pronto da mangiare.

Da bianco il pane diventava
dello stesso colore del grano maturo!
Le pagnotte appena nate
si lasciavano cuocere senza dire nulla:
dopo che la calura gli aveva tolto il fiato,
erano pronte da mangiare.
Il pane cotto e il grano maturo,
se avevano lo stesso colore,
doveva esserci un motivo:
era che entrambi eran giunti al capolinea.
Il pane terminava di morire
nelle nostre bocche
e infine diventava terra
e poi grano di nuovo.

Panis angelicus
fit panis hominum;
dat panis caelicus
figuris terminum;
O res mirabilis:
manducat Dominum
pauper, servus et humilis.

Noi invece giunti al capolinea
perdiamo il colore del grano maturo
o del pane cotto e diventiamo così bianchi,
che sembriamo leggeri leggeri, quasi pronti
per essere spazzati via da un colpo di vento.
Anche noi diventiamo terra,
ma ad esser rinato come fa il grano,
sappiamo che finora è stato solo Uno.


Condividere la vita fino all'ultimo






Gladys Basagoitia Dazza
Fara Editore 2015

recensione di Vincenzo D'Alessio



Gladys Basagoitia Dazza ha donato alla poesia contemporanea un’altra splendida raccolta di versi dal titolo La via del arco iris / La via dell’arcobaleno. Come nelle precedenti raccolte il testo in spagnolo, a fronte ha quello in italiano, e la poeta descrive con questi versi il bilinguismo: “(…) / controcorrente scrivo / in un’altra lingua / altra lingua che amo / tanto come la mia / sebbene scriva versi umili e semplici / nati dal profondo complicato sentire” (pag. 129).
L’azione di tradurre i propri versi deriva, alla Nostra, dall’esercizio costante di traduzione nella lingua italiana di poetesse che scrivono in spagnolo, altrettanto di poeti italiani tradotti in spagnolo.
Questa raccolta è suddivisa in quattro sezioni: “Los rostros del amor / I volti dell’amore”; “Mas allá de la imagen / Oltre l’immagine”; “Voces del dolor / Voci del dolore”; “La vía del arco iris/ La via dell’arcobaleno”. Nella prima sezione c’è il dialogo personale con gli affetti che formano la base dalla quale parte l’arcobaleno; nella seconda sezione c’è la ricerca dell’identità nella Fede; nella terza sezione c’è la consapevolezza del divenire e infine nella quarta sezione c’è il testamento poetico condiviso con l’Umanità contemporanea.
Nel percorso dei corpi poetici vengono incluse dediche ai famigliari, agli amici, ai conoscenti e ai poeti scomparsi: sono quest’ultime le poesie dedicate alla poeta di Perugia, Brunella Bruschi scomparsa a marzo del 2015, che la Nostra definisce “Amica sorella” (p. 41) e consola la sua perdita con i versi che seguono: “vivo lo stordimento della sua dipartita / nebbia fitta / aghi di ghiaccio nei miei occhi”.
L’arcobaleno, metafora dei colori, dei profumi, dei sogni, degli affetti, delle aspettative esistenziali che vivono in noi, si infrangono contro il cinismo della sofferenza e del fine vita purtroppo reali. La tempesta non lascia che pochi istanti all’arcobaleno per far brillare i suoi colori in tutto lo splendore che gli occhi, le telecamere dei poeti, percepiscono. Il gelo della fine ricrea le distanze incolmabili che separano il mondo dei vivi da quello dei morti. La poesia tenta la strada della permanenza nel tempo umano.
Riprende, la Nostra, il tema dell’esistenza condotta con la poeta Bruschi nella seconda composizione a p. 85, La fede del vivere: “(…) impegnate a sorreggere la speranza / superando i tempi minacciosi / superando gli occhi dell’angoscia / superando le debolezze del corpo / muscoli ossa sangue fiato”. La forza dell’anafora imprime ai versi la reale energia che ha sostanziato gli attimi di vita vissuta nell’impegno della scrittura e delle opere realizzate.
I versi di Gladys Basagoitia Dazza vengono scritti per allontanare il buio interiore della perdita della vita: arcobaleno di colori che invita a superare gli scogli dove il mare umanità si infrange nel continuo metronomo del tempo: “lo spirito della saggezza della sabbia dilavata / la sublime purezza fra la terra e il mare / (…) spalancare le porte a tutto l’invisibile / esorcizzare / problemi e conflitti di ieri e di oggi / ignorare le brutte cicatrici di un tempo passato / superarne i dolori intensi a volte quotidiani” (p. 71).
Ricerca dell’energia positiva che alimenta il continuum dell’esistenza per donarla, con l’uso dei versi, al proprio spirito assetato di eternità e al lettore. La metafora che viene utilizzata è quella della donna al telaio, ripresa dalla cultura Inca e Maia dove si preparavano tessuti dai colori vivissimi , nella composizione a p. 135: “(…) proseguo intenta a tessere / con fili d’amore / e di speranza la gioia di vivere / per donarla a tutti / anche a te lettore poiché sei tu / una delle ragioni per cui scrivo”.
Dall’incipit questa raccolta, i versi dedicati alla madre Ecilda richiamata alla mente davanti alla macchina per cucire Singer intenta a tramutare il disagio della povertà in energia positiva, il vestito della festa trasformato in un vestito nuovo per la propria figlia, fino alla fine della stessa vibra del sorridere, dell’allegria, del superamento delle pene che impone l’esistenza. Il vivere è gioia condivisa con chi ti vive accanto, con gli sconosciuti, con i profughi i diseredati che giungono da lontano (vedi p. 95).
La bellezza della strada che ci insegna la Nostra è un arcobaleno di serenità, di fiducia nell’esistenza, nell’immensità di un dio paragonabile alla forza del pianeta in cui viviamo, al desiderio della continua ricerca per ritrovarsi nuovi ogni giorno, di guardare con passione all’unico bene che conosciamo: l’amore verso noi stessi e gli altri. Lo ribadisce nella postfazione l’editore Alessandro Ramberti: “Questi versi non possono non ricordarmi lo spirito/ ruach librantesi sulla faccia delle acque di Genesi 2 e la parola verbo ha ampie risonanze giovannee (si pensi al bellissimo Prologo del Quarto Vangelo)” (pp. 141-42).
La semplicità della bambina che gioisce nello scorgere nel cielo i colori dell’arcobaleno muove la poetica della Nostra. Il senso cosmico del fine vita non spaventa quella serenità perché condivisa con il Creatore e il Creato, quest’ultimo costituisce il colore dominante mentre gli altri colori ai nostri occhi potrebbero essere impercettibili se non fosse per: “(…) la forza invisibile ci farà accettare / l’inesorabile trascorrere del tempo / e così sorridere a tutto l’infinito / del mondo profondo senza età / fluire nel flusso degli elementi / per far emergere la forza della creatività / perennemente rinnovata” (p. 139).
Accosto ai versi di Gladys Basagoitia Dazza i versi di un’altra poeta latinoamoericana vissuta nel secolo appena trascorso. Si tratta di Gabriela Mistral che nella poesia Paradiso scrive: “(…) Ricordarsi del triste tempo / in cui entrambi avevano Tempo / e da esso vivevano afflitti / nell’ora del chiodo d’oro / in cui il Tempo restò alla soglia / come i cani vagabondi…”.

Montoro, 27 gennaio 2016 (Giorno della Memoria)

martedì 26 gennaio 2016

Una presenza in assenza

recensione di Anna Maria Tamburini pubblicata su Città di Vita, novembre-dicembre 2015, numero 6
Alessandro Ramberti, Orme intangibili 
FaraEditore, Rimini 2015, € 10,00 


Trascurando la presenza di prefazione e postfazioni – (empatica, la prima di Vincenzo D'Alessio; illuminanti, le postfazioni di Alfonsina Zanatta, Gianni Criveller, Ardea Montebelli), frequente in qualunque tipo di pubblicazione, anche poetica –, il libro si struttura in vero come un saggio articolandosi attraverso una premessa, un antefatto, un prologo, l'apertura, l'insieme dei 32 componimenti che rappresentano lo svolgimento delle proprie tesi, un epilogo e un congedo. Il tutto doviziosamente corredato di un ampio apparato di note, che in poesia è più raro incontrare (anche se ci sono poeti che vi fanno ricorso), ma è indice di serietà del lavoro svolto.
Sotto l'aspetto formale, che non si può mai disgiungere dal contenuto, non solo i componimenti centrali del libro, ma anche premessa, antefatto, prologo, apertura, epilogo e congedo sono stati costruiti in versi: rispettivamente endecasillabi organizzati in quartine (premessa), settenari (antefatto), endecasillabi e settenario (prologo e apertura) – scansione poi adottata per quasi tutti i componimenti centrali con la sola eccezione del componimento L'amore porta l'anima all'inizio (p. 37) – soli endecasillabi liberi in libere strofe (epilogo e congedo). 
Trionfa dunque uno schema metrico che si accorda a quello più tipico della tradizione poetica italiana, sia lirica che enciclopedica o didattica. Fa eccezione qualche parisillabo in luoghi che intenzionalmente evocano una disarmonia (emblematico, di cui il luogo più avido è l'inferno di p. 20). Ma recuperare l'endecasillabo dopo tanto verso libero è un po' sospetto, nel senso che occorre farne un uso davvero sapiente. Si esige in sostanza, oltre che destrezza tecnica, un quid in sovrappiù di poesia, al fine di superare con immagini, o scatti metaforici e o varie altre soluzioni formali, la melopea del ritmo che si genera. Elemento innovativo in questo contesto, sempre sotto l'aspetto stilistico è il settenario che ricorre, a scandire le quartine, sempre rigorosamente tra parentesi. 
Alla tipologia del verso adottato corrisponde inoltre l'impiego delle rime. A parte i frequenti casi delle rime al mezzo, nelle quartine rimano sempre e solo i versi estremi, il primo e il quarto; mentre i settenari posti tra parentesi, quando si ripetono (solo in alcuni – pochissimi – componimenti rimangono singoli ) sono monorimi e pertanto questa unica rima prevale su quella semincrociata degli endecasillabi. Un fatto questo che sembra paradigmatico dell'intero lavoro, non a caso intitolato orme intangibili. La parentesi è un tratto soprasegmentale del discorso, che nella catena parlata evidenzia una incidentale, un po' come le lineette. Ma pensando al caso della Dickinson, che, prodiga di incidentali (oltre che amante della quartina) predilige le lineette, la parentesi si differenzia da queste perché non interrompe il flusso del discorso principale, non frammenta: solo, come queste, integra o corregge o sottolinea delle verità che possono restare in ombra. Dunque, per sottolineare quanto la forma sia strettamente legata al contenuto, c'è una verità che, non esplicitata, può rimanere criptata, ma che si fa voce, con un suo suono: presenza che ci attira con la musica (p. 20) e parla con un suo significato di verità. La rima sottolinea una presenza in assenza, di orme invisibili, anzi già intangibili, ma orme, deposito di un passaggio; e la formula, del resto, adottata per il titolo allude in tutta evidenza al Salmo 77(76), un testo che, direi, ha avuto una certa fortuna nella poesia contemporanea pensando alla sublime esecuzione del Passo d'addio di Cristina Campo (per la condivisione col Salmista di una analoga condizione di veglia nella solitudine, per la disposizione personale raffigurata nei gesti di supplica che richiamano pure un altro Salmo – «Verso di te protendo le mie mani», Sal 88 (87),10 –  e per lo stato d'animo – «Tutta la notte la mia mano è tesa e non si stanca; rifiuto ogni conforto». La poesia della Campo si dispiega tutta per immagini, conducendo il lettore a desumere da queste l'universo culturale di riferimento), ma anche l'idea della musica del sapiente in incantagioni, come l'esprime ne Il flauto e il tappeto, sembra recuperata in questa musica dell'Eterno – che raggiunge l'uomo – della poesia di Ramberti. 
Alessandro Ramberti recupera gli ultimi versi di questo Salmo e li trascrive in apertura del libro come prima epigrafe: «Nel mare passava la tua via, nelle grandi acque i tuoi sentieri e le tue orme nessuno le conosce» – alcuni traduttori optano per la formula «e le tue orme rimasero invisibili» –. Altre epigrafi seguono in questo libro molto colto, inframmezzato da continue citazioni, spesso collocate a fine pagina, come per avallare la propria esecuzione personale con la testimonianza di altri maestri, non tanto poeti – anche poeti, come Georg Herbert –, quanto essenzialmente cercatori della verità. Ritroviamo infatti filosofi (Kant) e testimoni di spiritualità anche non credenti: ricorre ripetutamente, ad esempio, Albert Camus, scrittore franco-algerino che, «alla ricerca della verità sull'uomo» (François Livi, Albert Camus. Alla ricerca della verità sull'uomo, Leonardo da Vinci 2013), nella ulcerazione della coscienza si confronta sul terreno del Sacro e anche da una prospettiva filosofico teologica sembra avere percorso le tappe di un'ascesi dal territorio disincantato dell'assurdo, sulla via della rivolta per la liberazione dell'uomo, sino all'amore, in una ricerca solitaria e strenua di contatto con l'Assoluto senza nome e senza volto, oltre l'immanenza tragica e la trascendenza muta  (così, di recente, Alberto Rinaldis, facendo ricorso a uno schema interpretativo insolito ma fecondo di possibilità ermeneutiche. Antonio Rinaldis, Paesaggi del sacro in Albert Camus. Oltre l'immanenza tragica e la trascendenza muta, Aracne 2013). 
A chiusura di ogni testo centrale, un ideogramma cinese, con la sua traslitterazione e con la traduzione italiana tra parentesi, più che titolo, sembra il precipitato della propria riflessione, il portato del discorso svolto. Il cinese apre al lettore italiano uno spiraglio su un mondo altro, su quella estraneità che le lingue orientali sottolineano già nella grafia, ma occorre tenere presente che entrambi questi elementi (estraneo e familiare), che fondano da sempre il linguaggio della poesia, si rivelano congeniali ad Alessandro, il quale si è perfezionato in lingue orientali. Poesia di testimonianza, quindi, e al tempo stesso poesia di formazione spirituale, oltre i contesti confessionali che pure sono richiamati dalle citazioni – provenienti da una mistica del Carmelo come S. Teresina di Lisieux, o dai padri gesuiti sia del passato (Matteo Ricci) che viventi (Jorge Mario Bergoglio)… – , ma sempre con uno sguardo alto, in un'ottica di apertura che sembra bypassare il significato ordinario di religio, percepito come una serie di pratiche e culti che vincolano l'uomo, per riportarlo al valore etimologico di ri-raccogliere, nuovamente scegliere. “Scegliere” è anche il verbo che si può assumere come titolo di un testo centrale (p. 39), una testimonianza di liberazione e gioia nella libera adesione a una chiamata: “Vattene” da Ur. È l'irruzione del divino in Abramo, come dal libro di Genesi. Abramo, il primo monoteista nella storia dell'umanità, colui congeda gli idoli recidendo i legami con le sicurezze di una patria, usi e averi…, fa di sé il viandante del respiro…, definizione sublime anche per la sapiente sintesi, giacché il divino è alito di vita, quell'alito che aleggiava sulle acque all'origine, che suscita la vita nelle creature viventi, nell'uomo…, alito vivo e vivente e operante, che ha parlato ai profeti, ad Elia (1 Re 19, 11-13)… Una esperienza che vale non solo per un patriarca del passato ma per ogni suo discendente sino ai nostri giorni. 
Coraggioso questo libro, perché in qualche modo fa risalire il lettore alle origini dell’esperienza religiosa che nell'epoca del postmoderno, secolarizzata e spesso ostile, pure non può fare a meno di una fede che si radica in una realtà che risponda a un bisogno di senso, di vita autentica…, una Realtà più reale del reale visibile e tangibile, pena la scomparsa persino fisica dell'uomo stesso. Perché il male è presente, ci assedia da ogni parte, ma il veleno del male nei ventricoli / rallenta la sua corsa quando ami (p. 17). Il dubbio sistematico, che alligna nel pensiero dell'uomo moderno, si insinua pervasivo: nel fango si propagano le scaglie / della madre seducente di ogni dubbio (p. 27). Ma il rischio vale la pena e nessuna strada è data a chi si arresta / sui suoi passi la storia corre sempre (p. 29). 
Vive in tal modo, l'autore, il proprio evangelii gaudium, la gioia dell'annuncio nel testimoniare la propria fede, mentre realizza al tempo stesso una sorta di introduzione a un percorso di formazione spirituale e, come condividendo le esperienze della mistica, disegna la via dell' ascesi attraverso il distacco e la determinazione… Una spiritualità laica per il nostro tempo in una sorta di breve trattato… Sintomatica del trattato è la distinzione tra anima, mente e spirito che viene formulata nel componimento persona (se possiamo assumere come titolo la parola conclusiva, persona, riportata anche in cinese (p. 40) – … L'antefatto stesso, un sogno, assume il significato di una esperienza del trascendente che nella fattispecie rappresenta un mandato personale, una chiamata… 
È la via del cuore, il desiderio, il sogno a rimandare a tutto ciò che si è perduto dopo il proclama della morte di Dio. Anche sul piano filosofico desta interesse questo fenomeno dell'Emotional Turn, che un filosofo come Max Scheler aveva in altri termini anticipato sviluppando una fenomenologia delle emozioni attraverso opere fondamentali, tra le quali Ordo amoris, un saggio di ascendenze agostiniane (Max Scheler, Ordo Amoris, a c. di Loretta Iannascoli, Aracne 2009). Ora, posto che termini come simbolo, bellezza, anima, amore… si richiamano costantemente nel libro, non è certo per caso che l'ultimo testo si chiuda con la parola amore, facendo balenare la luce nella notte e aprendo scorci di terra dell'origine e del ritorno: Il nostro quid non ha per meta il niente / compresso negli errori di sistema / ma uno scoprire nell'atto perduto / la luce di una notte sconvolgente // (ricolma di segreti) / lo splendido brillio di una risata / il flusso del big bang in espansione / l'amore per cui l'anima è al futuro / sapendosi da sempre disegnata. Il riso dei beati del Paradiso dantesco (lo splendido brillio di una risata), la teologia dell'universo in espansione (il flusso del big bang in espansione) verso il Punto Omega di Teilhard de Chardin, già di derivazione paolina, e la trama dell'arazzo del nostro vivere (l'anima è al futuro / sapendosi da sempre disegnata), già di Isaia e del Salmista…, si intrecciano in questi ultimi versi del libro proiettando il tracciato dell'anima oltre la soglia del tempo e dello spazio, attestando così il libro non tanto sul versante della lirica – capace tuttavia di accostarla a tratti –, non certo sulla linea della poesia pura di matrice petrarchesca, ma sicuramente su quella dell'impegno. 
È il proprio cammino spirituale e di fede che sostanzia questo intenso diuturno lavoro di poesia di Alessandro Ramberti. A mo' di sunto, l'epilogo raccoglie una serie di interrogativi aperti e l'ultimo punto di domanda sintetizza quello che è stato il messaggio fondamentale di de Chardin: Forse l'evoluzione spiega tutto / o siamo il nesso di una elevazione? 
Il congedo, infine, liberando liricamente il volo con il Vangelo di Giovanni (bisogna uscire fuori del sepolcro / per nascere di nuovo ma dall'alto, p. 59), si accompagna a una lettura della paternità di Massimo Recalcati, riportata in esergo, che si fonda sulla osservazione delle dinamiche relazionali primarie, quelle dinamiche che ontologicamente fondano l'umano recando la cifra della relazione originaria: «Noi non siamo altro che (…) le tracce, le impressioni, le parole, i significanti che provenendo dall'Altro ci hanno costituito. Non possiamo parlare di noi stessi senza parlare di Altri, di tutti quegli Altri che hanno (…) plasmato la nostra vita. Noi siamo la nostra parola, ma la nostra parola non esisterebbe se non si fosse costituita attraverso la parola degli altri che ci hanno parlati» (p. 59). 



Solo brevi domande esiliate, il debutto nella poesia di Griselda Doka, giovane studiosa albanese in Italia



recensione di Salvatore Verde
pubblicata in Tursitani.it



Solo brevi domande esiliate segna il pregevole debutto nella poesia della trentunenne Griselda Doka, calabrese, nata a Tërpan, Berat (Albania). La pubblicazione (FaraEditore, Rimini, 2015, pp. 96, euro 9), notevole già sul piano formale e tecnico-linguistico ed espressivo, si avvale della prefazione di Pierino Gallo e della postfazione di Angela Caccia.
Quasi prodromica la dedica “A quei passi solitari e silenziosi”, per sé stessa, ma anche per tutte coloro che hanno conosciuto un intenso destino, analogo al suo, di studi elevati e di affetti stringenti, nella sintesi veloce del tempo vissuto.

Tutto l’insieme delle trentadue liriche caratterizza una personalità matura, potente e profonda, a dispetto di una fisicità quasi da adolescente indifesa, soltanto in apparenza fragile ed eternamente inquieta. Contrasto sublimato già dal primo verso in apertura “Potrei anche morire” e dal primo in chiusura “Saprò di essere stata amata”, in una parabola esistenziale che rimanda e racchiude l’essenza del suo universo poetico, ricolmo di fascino anche doloroso, di debordante ispirazione e di più motivi di suggestione.

In mezzo, anche psicoanaliticamente, altrettanti incipit di univoca compattezza e coerenza: “Odorava di morte / Servirebbe un incantesimo di sonno / Non mi lascerai annegare / Non sappiamo il disagio / Le risposte ormai ce l’avevi / Mi ricorderò di te / Tu non conosci i miei passi / Vorrei strapparti da quella croce / L’ho pagato a caro prezzo / Mi insegue mi calma mi terrorizza mi prende mi stringe mi trascina / C’è un’ora del giorno / (Alla zingara) / La noia mi ucciderà / Perdonami madre / Anche tu eri fronda / Ricordo il tempo in cui ti chiedevo / Ero la brezza / Mi aggrappavo alle nuvole / Non posso immaginare un cammino / La grandezza eclissa i sogni e le conquiste /Ti ritrovo sempre lì / Solo le ore non hanno senso / Morì di crepacuore, povera donna / A volte ho l’impressione / A lungo sono stata nutrita /La luce di ottobre / Io sono un’inguaribile egoista / Cono sco il senso nascosto / Non voglio restare un pugno in faccia / Mi hanno abbandonato i pensieri veri”. Un vigore palesato nell’opera prima, con altrettanto disincanto e senso di verità, soltanto dai migliori giovani autori contemporanei.

La forma tecnica del verso è libera e moderna, ritmica e sonora, sintetica e ricca, dall’inizio alla fine senza titolo e priva di alcuna punteggiatura, di joyciana memoria, mentre la scrittura si propone come densa architrave di due mondi così lontani così vicini, nell’inversione cronologica del passato italico-meridionale allineato al presente albanese, tutta sedimentata nella personalissima sovrapposizione della cultura balcanica e mediterranea della Doka.

Il tentativo linguistico e la creazione poetica ambiscono, riuscendovi appieno, alla riattualizzazione della tradizione di origine, della terra naturale e del territori culturali, segnati finanche nell’inconscio dal passato cupo e oppressivo del comunismo. E questo agevola la restituzione del senso, che si palesa attraverso simboli e metafore, rendendo appieno il groviglio interiore dell’autrice, irrequieto e inappagato. Quasi una elaborazione della sindrome da sradicamento, ma con felici esiti lirici dai quali, però, è (ancora) assente il sorriso e la pulsione sincretica della libertà onnivora.

Una contrastante visione tormentata e lacerante, nostalgica e dolce, che pare scaturire da una donna ormai nel disincanto dell’avventura umana e intrisa di ricordi lontani, mentre si avverte tutto il peso dell’essere distante dalla terra madre, dai luoghi dell’infanzia, facendoci anche partecipi di una dimensione sofferta, dolorosa e quasi pessimistica dell’esistenza, che sembra non avere un orizzonte altro, una prospettiva.

Al contempo, però, proprio il lavoro dell’Autrice sulla memoria, sul paesaggio interiore, sull’essenzialità dei ricercati versi, non ha il sapore della rinuncia a voler essere felice. E il lettore ne avverte subito la contagiosa dimensione di verità.
Salvatore Verde

Griselda Doka è dottoranda in Studi letterari, linguistici, filologici e traduttologici nell’Università degli Studi della Calabria, con il prof. Anton Nikë Berisha. Nella stessa università si è laureata con lode (nel 2010) in Lingue e Letterature Moderne, Filologia, Linguistica e Traduzione e, l’anno dopo, ha conseguito il Master II Livello Didattica dell’Italiano, con la prof.ssa Anna De Marco. In patria si è diplomata brillantemente al Liceo Scientifico dell’Istituto Bilingue “Asim Vokshi” di Tirana, nel 2003.

Una giovane età arricchita già da una rispettabile attività di organizzazione di eventi culturali e seminari, di partecipazione a convegni e di incarichi scientifici, oltre a contributi in pubblicazioni e articoli e traduzioni dall’albanese in italiano e viceversa.

giovedì 21 gennaio 2016

Ai giovani del mio Sud



Ai giovani del mio Sud

Il Cristo che guarda
dall’edicola ha occhi
socchiusi al patire
ai piedi un lumino
devoto fiori appassiti

All’incrocio il pullman
raccoglie studenti
nell’alito gelido dell’Est

Barcolla la fiammella
alle voci sommesse
aspettando il domani
senza troppo tormento.

Costa davvero tanto, tanti sacrifici umani, condurre i figli del mio Sud ad una meta possibile di riscatto dalla servitù politico/sociale che viviamo da troppi secoli – cerco di sostenerli nell'atroce divario di chi ha troppo (per furbizia e senza dignità) e di chi non ha nemmeno il poco (tanta bella intelligenza e onestà). 
Montoro, 21 gennaio 2016


domenica 17 gennaio 2016

“Non l'ha creata il Dio la morte”: su Abele di Lucianna Argentino

Lucianna Argentino, Abele, Edizioni Progetto Cultura, 2015

nota di lettura di AR



C'è amorosa sapienza in questo poemetto biblico di Lucianna Argentino. Biblico non solo per l'esplicito riferimento al racconto del primo omicidio (per di più “fraterno”) ma anche perché con il Testo sacro l'Autrice ha una profonda frequentazione come dimostrano, oltre alle citazioni dirette e indirette, l'interesse per la lingua ebraica in cui è stata scritta la Torah. Abele è poesia che mette in gioco le questioni esiziali: il tentativo di definire chi siamo, il nostro rapporto con gli altri e con Dio, quello con l'universo, il senso del nostro andare, il non poter eludere il male né i nostri limiti e condizionamenti ed aver al contempo un costitutivo desiderio di infinito (o quantomeno, foscolianamente, di durata nel ricordo dei nostri cari), il dover fare i conti con un margine di libertà che, quanto è più “ristretto”, tanto è più prezioso. 
La prospettiva è quella di Abele in dialogo con la madre Eva. Abele, quel soffio-vapore (cfr. p. 25) che è quasi niente. Nella sua nota-prefazione Argentino ci ricorda che questa parola è la stessa che apre il Qohèlet e che viene tradotta spesso con “vanità”): «Abele non ha un volto (…) è soltanto un soffio, un'ombra. (…) Lo scrittore sacro vuole dirci che la significanza di Abele sta proprio nella sua insignificanza (…) ciò che porta frutto è ciò che marcisce. Questa è la storia dell'amore» (p. 11).
Abele la vittima che, come ci ricorda Alessandro Zaccuri nella Introduzione, è così spesso messo in ombra dalla personalità violenta ma forse per questo più intrigante del fratello maggiore.
Qui invece si dà voce al soffio, a questo alito effimero, per sua stessa natura predisposto a una veloce scomparsa, che pure mette in crisi Caino, chiamandolo a una responsabilità da cui vorrebbe rifuggire.  
Già l'incipit è di tono epico (Abele si rivolge a Eva): «Parlami madre, raccontami ancora / del tempo nel giardino che quando lo fai / (…) / nella tua bocca è frusciare di arbusti, / frullo d'ali, è il passo di Dio quando viveva qui» (p. 17).  
Eva risponde: «Senza doglie nascemmo / il Dio ci fece – polvere dal suolo – (…) / (…)  e con noi s'è fatto padre inesperto e imprudente / a dire “non si tocca” a due bambini, in fondo» (p. 19).
Abele ripercorre, dialogando con la madre, il racconto di Genesi 3 e a un certo punto afferma: «Ma era necessario, madre, / che i vostri occhi mutassero sostanza, / che la nudità si trasformasse in mistero / (…) / che cadeste nell'abisso del possesso / e vedeste le vostre impronte sulla terra / (…) / che arrivaste al luogo dell'io e del tu» (p. 22); «Non vi cacciò madre, il Dio andando via / portò con sé il giardino, / ci lasciò liberi di piantare il nostro» (p. 22).
L'uomo viene così reso libero e al tempo stesso responsabile, le sue scelte hanno conseguenze, il bene e il male sono sempre al suo fianco. Abele infatti riconosce di aver amato «le creature del quinto giorno / anime senza la parola» (p. 24) mentre lui finisce per essere invidiato da Caino: «davanti a sé c'ero io fatto cosa, intralcio. / E muto fu il suo gesto madre. Terribile» (p. 26); «Caino avrà terra e discendenza nella carne / ma io avrò la discendenza in spirito dei giusti e degli innocenti» (p. 27); «Sarò nei verbi all'infinito e nel gerundio» (p. 28); «Sono il custode e il segno sulla fronte di Caino / – così tu mi torni fratello, nella mia ferita ti battezzi, / nella mia morte ti reincarni a nuova vita» (p. 29).
Come si vede il tessuto poetico di questo densissimo eppure scorrevole poemetto ha una grande presa perché tratta di teodicea e quotidianità, di questioni teologiche e di sentimenti, di carne e di spirito, di scienza e coscienza, del «tempo come un bambino che gioca / sulle ginocchia di Dio» (p. 30), di peccato originale che è indifferenza verso l'amore (questi sì veramente originario) «è perdere l'immagine e la somiglianza» (ivi) col divino e appiattarsi in un un orizzonte basso dove constatiamo che «Il male è lo schianto tra il nome e la cosa» (ivi). Un'opera che ben si presta a una suggestiva e coinvolgente rappresentazione teatrale. Del resto Lucianna si congeda con queste bellissime parole: «scrivo non quando le cose accadono, ma quando si avverano» (p. 31).