venerdì 30 ottobre 2015

Maria, cuore bambino


di Vincenzo D'Alessio



Maria, cuore bambino
occhi di lacrime
vita di fatica,
verdura e frutta
avventori impudenti.

Ogni giorno un alveare
torni stanca al focolare
spegni il fuoco del dolore
con la fiamma dell’amore.

giovedì 29 ottobre 2015

mercoledì 28 ottobre 2015

ESODO‐EXIT: FUORI STRADA, CERCANDO LA VIA a Riccione 13 nov 2015




Gli intervenuti potranno leggere un paio di loro poesie o un microracconto o presentare brevemente un progetto o un percorso artistico, umano, culturale, segue dibattito aperto.


ingresso libero

Che ne facciamo di Omero, Virgilio e Dante?

Cari amici, insegnanti ed educatori,
mi permetto di segnalarvi che una mia poesia ha vinto il premio Renato Fucini organizzato nei dintorni di Pisa.Il testo poetico – dal titolo Che ne facciamo di Omero, Virgilio e Dante? – è stato ispirato dalla lettura di un articolo di Alessandro D’Avenia.
La giuria – composta in gran parte di insegnanti – ha molto apprezzato l’ approccio della poesia che è lo svolgimento in versi di una lettera che un insegnante rivolge ad un ragazzo e ad una ragazza il primo giorno di scuola.

Mi fa piacere porla alla vostra attenzione, sperando ne condividiate tono e contenuto.
Nel caso non troviate una corrispondenza, è sempre un modo utile di confrontarsi sul tema dell’educazione dei giovani.

Grazie mille per l’attenzione.




Che ne facciamo di Omero, Virgilio e Dante?*
                                          (Lettera a due ragazzi)

Ragazzo spiaggiato sul banco
con gli occhi offuscati dalla noia
e tu ragazza tutta in fioritura
assetata di essere guardata,
che ne facciamo di quest’anno di scuola?

Che ne sapete voi due dell’io di domani,
del senso della vita, adesso che la vita
dentro di voi s’inarca e preme?

Ragazzo che occulti le emozioni
dietro una spacciata sicurezza
e tu giovinetta, con quel trucco
che dovrebbe esaltare la tua bellezza
– in verità camuffa una fragilità segreta –
che ne facciamo delle lezioni di italiano,
di Omero, Virgilio, Leopardi e Dante?

Come raggiungervi, ragazzi,
là dove ve ne state rintanati?
Come spiegarvi che fra gli umani
nessuno ha la stessa vostra biografia
e che le terre di conquista
sono ancora tutte da scoprire?

Quanta unicità sprecata in scelte omologate
che rendono i ragazzi tutti uguali.
Quanta unicità sciupata dietro immagini
illusorie del così fan tutte le ragazze,
proprio ora che, come mai prima, siete in fiore.

Io, vostro insegnante, posso solo accompagnarvi
lungo questo viaggio impervio
suggerendovi come scolpire il vostro io.
Protagonisti voi, con le vostre decisioni,
dei conseguimenti e delle disfatte della vita
in mezzo a questi due argini di fiume.


* Poesia ispirata da un articolo di Alessandro D’Avenia, insegnante e scrittore

lunedì 26 ottobre 2015

“Lo spirito, la punta dell’anima”

anna dalle crete, A mio padre, Edizioni Helicon 2014

recensione di AR



Il verso che abbiamo citato nel titolo è tratto dalla poesia a p. 23 che inizia così: «La morte non è il sonno / non ha tratti familiari, ghermisce / le persone più care, è fuori da ogni / norma, da ogni misura / (…)». In effetti l’intera raccolta è una indagine di mente e viscere, in prosa e in versi, sul mistero della morte, nello specifico quella dell’amatissimo padre.
Abbiamo a che fare con un’opera di prose e versi dal tono sapienziale, impregnata di quel biblico soffio/rùach che ha dato vita alla creatura plasmata dalla terra/adamah che è l’uomo. I versi sono per lo più in corsivo, a volte in tondo quando il tono è, ci sembra, più filosofico-ermeneutico, interpretativo dei ricordi e degli avvenimenti personali in relazione alle Scritture (a p. 25, ad esempio, vengono riportarti diversi versetti di Isaia 40), al kèrigma cristiano, ma anche alla condizione umana tout court: «Sentivo davvero che era ormai troppo tardi. / (…) / Non mi restava che accompagnarti / per l’ultimo tratto, tropo breve.» (p. 26); «Volevi forse dirmi / (…) / che i morti stanno in modo non visibile / tra noi? / Sì, io lo so che ci sei, / anche se fa male non vederti, / non poter stringere la mano…» (p. 63); «E quando le labbra non si schiudono, / (…) / … tu, amato, accogli la voce / piccola della mia minuta / le sillabe storte che il sangue / suscita all’eco dell’alta tua voce» (p. 83, sono i versi che chiudono il libro già rivolti a un altro Padre, quello celeste del quale il padre terreno è figura).
Non a caso in Prefazione Neuro Bonifazi parla di «poesia “teologica”» (p. 5), di un’opera che «mostra un aspetto di unione trasfigurata, per la complicità della terra col cielo, del tempo con l’eternità, della vita con la morte» (p. 6). E nella Introduzione Loretta Iannascoli fa riferimento anche alla dimensione orante e partecipativa di questo libro che si apre alla «possibilità di andare oltre la sofferenza, di trascenderla, ed è comunicazione che ci pone al disopra del nostro dolore e, scrive Hölderlin, “Chi si pone al di sopra del proprio dolore si innalza”» (p. 16), è un testo che esprime l’amore «che nasce e permette la relazione interpersonale» (p. 17).
L’esergo scelto da anna dalle crete è il suggestivo versetto 20 del Salmo 76/77: Sul mare passava la tua via, / i tuoi sentieri sulle grandi acque / e le tue orme rimasero invisibili. Una implicita domanda/preghiera a Dio di cui si riconosce la presenza e al contempo l’intangibilità, l’invisibilità se non addirittura l’assenza. È un “nascondimento” ai sensi e alla ragione strettamente connesso con tutta la problematica della teodicea, che cerca di dare risposte alla vexata quaestio della presenza del male nell’uomo (il c.d. peccato originale) e nel mondo naturale, con i suo cataclismi (terremoti, inondazioni, ecc.) che non sembrano tener proprio conto degli uomini e di altre forme di vita.
La struttura metrica delle poesie (con l’eccezione di quella a p. 82, Mi convoca a cena, in senari) è libera, c’è un ritmo franto, spezzato, sorretto da assonanze e allitterazioni; la forma sintattica è particolarmente complessa, sia per un abile uso degli enjambement, sia per l’ambiguità funzionale di alcune parole focali e l’accostamento spiazzante (ad es. «l’upupa sbizzarrisce» a p. 75) – assolutamente poetico e ricco di suggestioni evocative – di aree semantiche lontane: «L’amore. – La terra non è che un grande / cimitero, e lo sarà da ultimo / a maggior ragione. Ma pullulante / scintille d’amorosi sensi.» (p. 23); «(…) si stacca con te / di noi ogni fibra. Si resta sospesi / e sotto è vuoto. Non ci resta / che l’alto. Null’altro. Nausea / da vuoto e lo spazio alto.» (p. 29); «Un silenzio si dilata / stamani che squarcia dentro» (p. 34).
Oltre ai molteplici riferimenti biblici, A mio padre è anche un omaggio a importanti figure del Novecento come Cristina Campo, Agostino Venanzio Reali, Margherita Guidacci, Montale, Luzi e tanti altri poeti e poetesse di cui anna dalle crete si è nutrita e che, nel caso di Reali, ha contribuito in modo essenziale a riscoprire e a far conoscere; abbiamo colto, ad esempio, un riferimento “all’umile radicchio” del poeta cappuccino nella poesia a p. 36: «(…) Solo del radicchio / il fiore affonda le radici, / l’azzurro accende più intenso il mattino, / più profondo lo sguardo – / di mio padre – nella miriade di occhi / di turchino sono occhi di padre». 
A p. 39 l’autrice affronta, in prosa, il tema della paternità/figliolanza anche con riferimento al sacrificio di Cristo che la tradizione teologica attribuisce alla volontà del Padre: «Un padre non tradisce il figlio. Il figlio può tradire il padre, come me quel giorno nel pensiero, perché ho raffrontato la sua età [di un defunto, giovane, per il quale si celebrava nell'episodio riportato alle pp. 37 e 39 che ha generato il testo di Affezione siderea] alla tua e altre strane idee mi sono affiorate alla mente che non si possono trascrivere (…) perché temo anche i pensieri producano effetti di irradiazione (…)». E a p. 42 si chiede: «Ma come può un padre volere sacrificare un figlio? Nulla di quanto la Scrittura tramanda accade a caso. (…) Con il sacrificio perfetto, quello che il Figlio porta a compimento condividendo la volontà del Padre, è Dio che prova all’uomo il proprio amore per l’umanità tutta». Riflettendo poi sul peccato originale, anna dalle crete afferma (p. 45): «il peccato non è che cedimento a un’illusione» e più avanti (p. 74) ci ricorda che siamo salvati per grazia, per amore gratuito, e non per gli sforzi della nostra mente o della nostra volontà: «L’amore si lascia intendere dai sapienti e dagli stolti ed è capace di invertire stoltezza e sapienza. La scienza può condurre a Dio ma solo se si lascia guidare dalla fede, perché la mente da sola non raggiunge il cielo». E un atto di fede è la poesia Proposito di mai dire “io” a p. 81 di cui proponiamo gli ultimi versi: «nell’Io Sono eterno / presente che suona “io” / sono la persona che sono // e nulla, io sola» – una dichiarazione splendida dove le figure retoriche si accumulano (ossimori come eterno/presente, sono/nulla; parole che si riecheggiano nel suono e nel senso sono/suono/persona; l’ambiguità sintattica di eterno che può fungere da solo da predicato oppure fungere da aggettivo di presente; e ancora l’io che è particola dell’Io Sono, del Dio che si rivela con questo nome a Mosè nel roveto, cfr. Es 3,14). Non possiamo non ricordare, chiudendo questa parziale lettura di un’opera così prorompente di una energia salmica, così attenta alle grandi domande dell’uomo, così ardimentosa da “chiedere conto” al Padre del sacrificio del Figlio e così fiduciosa nella possibilità di una ricomposizione in Lui di tutte le nostre fragilità e fratture, di tutti i nostri dubbi più angoscianti, perché Lui si fa eucaristia: «Mi dice ti amo / mi convoca a cena» (p. 82); non possiamo non ricordare queste parole di Romano Guardini: «Io non sono un “caso” fra tanti, ma qualche cosa di unico. Non sono soltanto individuo, ma anche persona. Non porto in me soltanto un’essenza universale, ma un’essenza che ha l’impronta dell’unicità: porto un nome. Questo nome l’ho da Dio. Sono nel mondo ma non mi risolvo in esso. (…) Perciò io posso conoscere il mio nome, conoscere cioè quello che ho di più mio, solo ricavandolo di là dove è custodito, cioè da Dio. (…) Ciò trova la sua piena espressione cristiana nella rivelazione della nostra dignità di figli di Dio (…)» (cfr. Id., La coscienza, Morcelliana 1933, 20094, p. 47). Non è forse un caso che il nome dell’autrice, Anna, significhi in ebraico Grazia, cioè nata per grazia di Dio.

domenica 25 ottobre 2015

Piccoli soli intrisi di polpa

di Vincenzo D'Alessio

Credo fermamente che la lezione del grande G.B. Vico sia fondamentale in ogni tempo (e per quello che noi singoli viviamo): gli artigiani ritornano e salveranno l'economia – a loro sono dedicati questi versi nella persona di Giosuè: nome del mitico leader che portò il popolo ebraico uscito dalla schiavitù dell'Egitto e dalla peregrinazione nel deserto (eufemismo della crisi) nella Terra promessa.




Mani pazienti gesti antichi

Giosuè sforna pizze, veloce

piccoli soli intrisi di polpa

intensa di pomodoro.

Ogni sera la sfida con gli avventori

il forno canta una calda canzone:

cresci in silenzio pane del buono

rendi alle labbra la nostra passione.



venerdì 23 ottobre 2015


Una felice idea
di Laura Garavaglia


Questa sola radice (Edizioni L’Arca Felice, 2015) non è solo un  prezioso omaggio dovuto a un poeta oggi giustamente ritenuto un Maestro  da tanti giovani e meno giovani che vivono l’ avventura della poesia. L’elegante plaquette, impreziosita da disegni di Massimo Dagnino, è infatti una vera e propria testimonianza di amicizia e di affetto di chi ha conosciuto e frequentato (e continua a frequentare) Maurizio Cucchi . La felice idea del curatore, Mario Fresa, di festeggiare il settantesimo compleanno di uno dei nostri maggiori poeti contemporanei  si è così concretizzata in una significativa raccolta di prose e di poesie, una sorta di canto a più voci, di vario timbro e intensità, ma tutte unite dal leitmotiv  della riconoscenza, della stima, dell’affetto nei confronti  di Maurizio Cucchi. Così, per Antonio Riccardi, è stato ”attento insegnante, “guida preziosa (…) tra i sentieri non lineari della letteratura” e  Alberto Pellegatta asserisce “Maurizio Cucchi è un maestro della poesia contemporanea, decisivo per la mia formazione”, mentre Amos Mattio sottolinea un rapporto di amicizia che “quando è buona,  come il vino acquista valore nel tempo, e si arricchisce e si rafforza delle reciproche novità”. Di “umanità sincera”, scrive  Domenico Cipriano, ricordando gli incontri con Maurizio Cucchi e certamente questo è uno degli aspetti che maggiormente delineano la sua personalità. Mario Santagostini ricorda ancora l’emozione provata da ragazzo, sentendo leggere da Franco Parenti  la poesia  Le briciole nel taschino, dove Cucchi nell’ultima parte fa una “enumerazione vertiginosa di oggetti (…) Enumerazione che diventa un messaggio formale martellante, in gradi di trasmettere l’idea dell’accatasto. Per il giovane Santagostini quella lettura fu una sorta di rivelazione, il prendere coscienza di una “realtà basica, svalorizzata, dove non ci sono merci ma oggetti allo stato puro” e quindi non soggetti  a scadenza come vuole la logica del consumo. L’importanza di riaffermare la sostanza dell’essere contro l’inconsistenza dell’avere, il recupero del valore violato delle parole, che solo la poesia può realizzare, sono temi della poetica di Cucchi che si ritrovano in molte delle prose e nei versi di questo libro. Ho già avuto modo di sottolineare  una sorta di eraclitea “armonia dei contrari” che caratterizza l’opera del poeta: realismo e dimensione mnestica e onirica sembrano sovrapporsi e confondersi.  Da un lato c’è la ricerca di attrito con le cose, oggetti “fatti per resistere, durare anche oltre noi” e tramandare “affetti e memorie”; ”( Il denaro e gli oggetti, Vite pulviscolari); dall’altro la consapevolezza del loro perdersi e svilirsi nel consumismo, nel vuoto di valori dell’era contemporanea. E anche  questa dimensione etica della poesia di Cucchi emerge nelle prose e nei versi degli autori di Questa sola radice. Titolo che è poi un verso tratto da una sua poesia, metafora della poesia stessa, la sola radice capace di scavare in profondità, di dare valore alle parole. Come si legge nella prosa sopra citata, dedicata al Maestro da Domenico Cipriano: “una ricerca inesauribile anche attraverso le sue pubblicazioni in versi che hanno la capacità di riavvolgere l’esistenza, rapportandola alla realtà e alla profondità del vivere quotidiano”.








giovedì 22 ottobre 2015

Emozionanti guizzi di luce dall'inconscio: su Muove il dove di Caterina Camporesi

Raffaelli Editore 2015

recensione di Maria Di Girolamo 




La poesia di Caterina Camporesi sembra volere realizzare  una comunicazione costante  con l’inconscio, dice e non dice, trasfigura il reale, suggerisce solo guizzi di luce che trovano espressione in pennellate pittoriche volte a suscitare emozioni attraverso immagini oniriche, che si ottengono con la plasticità della parole,non razionale ma simbolica, capace di trasfigurarsi in canto con l’uso costante della metafora, più propriamente delle sinestesia e dell’ossimoro, in assenza totale della punteggiatura.

Anche i colori forti giocano un ruolo importante unitamente ai suoni, ora aspri ora dolci, con l’intento di assecondare i diversi moti dell’animo.
La brevità della sua poesia, poi, pur rendendola essenziale non le toglie vigore, anzi a mio parere ne esalta la forza,  proponendosi come uno squarcio di luce in quella atmosfera di  mistero che aleggia su tutta la raccolta, grazie anche ai silenzi della pagina bianca che permettono al lettore di continuare a fantasticare e a riflettere su quanto evocato dai pochi versi epigrafici di Caterina


I temi a lei cari sono: il mistero della vita,

apre al mistero
la porta del cielo

sprigiona scintille
sulla terra

l’amore e l’incontro con l’altro,


ed ancora,

se lo sguardo di lui azzurra il volto di lei 


se parole si animano 

nel qui e ora

allora

brividi serpeggiano
da corpo a corpo

perisce
l’amore che nasce
se nel tempo non cresce


L’importanza della poesia per la rinascita dell’uomo,


verità naufraghe
lambiscono rime
dimora al divenire


Il senso dell’attesa sempre positiva,

non perde smalto il canto
lungo strade deserte
se incrocia ciò che manca


La malinconia della sera,

tra calli flutti ricordi
si scioglie la pena

che intera torna la sera



La fuga nell’ “altrove”, in un mondo positivo di bellezza in cui Caterina tende a rifugiarsi senza però mai perdere di vista il presente, la realtà del nostro tempo nella quale si ostina a trovare il suo ideale,

s’incupisce lo sguardo
scaduto nel reale

muove il dove nell’altrove



Ed ancora,

dialogo non monologo
nell’andirivieni di parole

che solcano l’accadere



Tutti questi spunti ed altri presenti nella raccolta rendono la sua poetica interessante, attuale ma soprattutto affascinante per l’uso magico che Caterina fa della parola, che rende il suo dettato poetico molto coinvolgente sul piano della comunicazione emotiva.

Il “lupo” di Fabia Ghenzovich

Fabia Ghenzovich: Totem, Edizioni Collezione Letteraria di puntoacapo, 2015

recensione di Vincenzo D'Alessio

La raccolta poetica che reca il titolo Totem di Fabia Ghenzovich è stata pubblicata presso le edizioni puntoacapo di Cristina Daglio a luglio di quest’anno, nell’esergo una citazione dello scrittore francese contemporaneo Christian Bobin: “Contemplare il fuoco che cova negli occhi di un lupo / e andare fino al limite del mondo.”
Il momento della contemplazione è un momento magico, della mente assorta in una visione del mondo al limite del reale, l’energia magnetica del fuoco aiuta il viaggiatore/cacciatore a tenere lontane le paure “del lupo”.
Il lupo è il totem scelto dalla Nostra per coinvolgerci nello sviluppo della trama poetico/filosofica che si svolge nelle due prime parti in assenza di luce, nell’ombra che promana dalla Natura e dalla violenza della presenza umana, più che animale, per raggiungere la terza parte dove la luce rende al lettore la realtà, lo porta a contatto diretto con il crudele mondo della civiltà umana di oggi.
Alla mente del lettore tornano le rappresentazioni del lupo nel corso della Storia reale e immaginaria: il lupo / totem delle popolazioni dell’Italia meridionale, i Sanniti Irpini (Hirpus), forte e fiero legato alle rituali “Primavere” quando i giovani venivano allontanati dalle tribù per evitare il conflitto padre/figli nei ruoli di comando. Il lupo di san Francesco d’Assisi che terrorizzava il territorio e che in realtà rappresentava forse un brigante con questo soprannome. Il lupo mannaro di tante leggende e racconti. Il lupo delle favole come quella di “Capuccetto Rosso”.
La scelta del lupo, della sua energia percepita attraverso il fuoco della sguardo e come totem pervade le prime due parti della raccolta: “Salivano all’odore della carne / fauci / tagliole pronte allo scatto / frecce / vertebre tese / verso l’età del coraggio / dell’uomo l’abitudine / il greve vassallaggio.” (pag. 8).  Si avverte, poeticamente, la volontà del confronto tra la primitività dell’uomo puro degli inizi e il pesante “vassallaggio” della civiltà che l’ha condotto all’uomo che conosciamo: non compartecipazione naturale ma violenza indotta dalla sofferenza delle trappole sociali, le fobie, le forzate abitudini, la convivenza alienante nelle megalopoli.
Il filo rosso del pensiero filosofico della Ghenzovich traspare in tutto il suo fulgore proprio quando il lettore coniuga la conoscenza delle proprie abitudini, “il suo olocausto quotidiano” (pag. 12) con la forza centripeta dei versi che seguono: “(…) E Jekyll non si nasconde forse in qualche cella / frigorifera del cervello?” (pag. 12). Cosa si nasconde in questo messaggio?
L’invito rivolto al lettore attraverso questa fulminea raccolta poetica è racchiuso nella poesia che apre la raccolta: “Tana era a falde la roccia / punte d’ossa e muscoli in tensione / nel balzo in avanti nel tempo / della pietra nel sangue / d’istinto un lupo per esempio / ecco quel che abbiamo perso / la prima vera pelle – la sola che ci salva.” (pag. 7).
L’umanità è intristita dalle necessità; manipolata nel pensiero dalla macchina del consumo; violentata dalle guerre per le poche risorse rimaste in questo piccolo pianeta: troppo piccolo per tanti miliardi di “(…) della razza senza pari / gli eretti i primi violentatori. / Noi.” (pag. 11).       
Fino a quando resisterà l’equilibrio pianeta vivente/umanità prima di deflagrare in un buco nero? Anche la stella “Sole” è stanca dell’inquinamento che giunge dal pianeta Terra e si sta trasformando in una stella buia.
Nel leggere questa prima parte, e la seconda “Loba”, sono tornate alla mente le deduzioni contenute nel volume Totem e Tabù di Sigmund Freud (Boringhieri, 1969), la presenza del totem come padre della tribù, l’oggetto dell’odio/amore verso la forza generante e la difesa attraverso i limiti, i tabù. Come nella lettura del romanzo il “Convitato di pietra”, dello scrittore spagnolo Tirso de Molina, tradotta in italiano dallo scrittore solofrano Honofrio Giliberti (nel XVII secolo), dal quale W.A. Mozart trarrà nel 1787 l’opera Don Giovanni.
La Nostra offre parte della sua anima al lettore, il convitato, che segue l’evolversi immaginifico della poetica si dilata in direzione dell’infinito, della ricerca, come spirito su acque profonde d’oceano. Un mito irraggiungibile nelle parole della Sibilla, quella Cumana più vicina a me, che nascondevano chissà quali verità e quale messaggio da parte della Divinità: “(…) sono stata né sono né di questa mia / da te libertà nulla potrai sapere / dell’affondo –” (pag. 22).
L’essenza della ricerca è in questa coraggiosa raccolta che raccoglie “pane e rose” (pag. 33), bellezza e quotidianità, immaginario naturale mutante sotto gli occhi disattenti di intere generazioni attratte dagli schermi invisibili dell’inutile: “Soffermarsi sulla necessità / deriva sotterranea conclamata / (…) nostra costrizione/ di silenzi sistemici” (pag. 33). L’invito è rivolto al lettore per conoscere l’energia reale dell’Amore, l’acqua della vita, la luce vera che scalda l’anima degli esseri viventi:

“(…) La possibilità della bellezza. / Calpestata negata e mai colta eppure perenne. / Basta fermarsi o essere fermati.” (pag. 34).

L’essenza della grande forza poetica di questa raccolta lascerà al lettore l’amaro in bocca, proprio come dopo una frenetica battuta di caccia al lupo, armati di un fucile di alta precisione, colpire la preda a distanza: da vicino quel lupo ha le sembianze di un uomo morto.

martedì 20 ottobre 2015

Elisa Alfonsini su Il tocco abarico del dubbio di Angela Caccia

recensione pubblicata  su Patria Letterratura 
Rivista internazionale di lingua & letteratura
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20 ottobre 2015 · by Elisa Alfonsini · in Recensioni

Il tocco abarico del dubbio (Fara Editore, 2015)

Leggere Il tocco abarico del dubbio di Angela Caccia è come camminare in una solitaria notte di plenilunio. Tutto tace. La luna illumina le strade solitarie. L’unico rumore è quello dei passi.
Cadenzati.
Ritmici.
A volte si sentono le fronde frusciare e il vento bisbigliare.
Camminando, seguendo i percorsi intellegibili della notte e dell’inconscio, si sente all’improvviso un rumore lontano, impalpabile – un ricordo – che viene dal passato, dai primissimi giorni di vita, fantasmi gentili evocati dalla poesia di Angela Caccia.
Abarico. Parola sconosciuta ai più, indica il punto esatto in cui alla forza gravitazionale della terra subentra quella della luna. In quel preciso punto le due gravità – molto diverse tra loro – si compensano e si equilibrano.

Un termine così scientifico e matematico sembra scontrarsi con la poesia che è bellezza, soggettività, suggestioni ed emozioni per antonomasia. Leggendo la raccolta poetica tutto si schiarisce: in quel momento – o per essere più scientifici in quel punto – di stasi in cui le due gravità si annullano si inserisce il dubbio come pungolo per una recherche interiore che spinge quindi di nuovo al movimento. Quel dubbio, quello stimolo a uscire dalla tranquilla e confortante posizione di equilibrio sembra essere rappresentata dagli enjambement di cui pullula lo stile di Angela Caccia.

Queste improvvise interruzioni del verso sono come voragini in cui la gravità esiste e fa precipitare il lettore al verso successivo, come se volesse rassicurarlo che dopo la caduta c’è sempre qualcosa che lo aspetta: una suggestione, una parola, un volto.

La silloge poetica è suddivisa in cinque parti il cui minimo comune multiplo sembra essere l’albero genealogico – volendo chiamarlo così – della poesia di Angela Caccia.

È quasi impossibile, infatti, non notare l’eredità nerudiana, un ricordo cileno che giunge alla sua apoteosi nella poesia a lui dedicata: “più di lei / amasti l’amore […]”.

Possiamo notare infatti come Angela Caccia si muova tra un verso e l’altro con la stessa grazia di Neruda, comunicando attraverso metonimie e ossimori che mai il lettore avrebbe potuto immaginare, ma grazie a qualche arcana magia risultano conosciute sin da sempre. Chi mai avrebbe pensato a dire “La tua voce ha / fatto un nido sui rami / fogliosi di un noi”, eppure chi, leggendo questi due versi della poesia le labbra al bello non ha pensato che era esattamente quello che ha provato almeno una volta, amando perdutamente qualcuno?

Il compito del poeta non è paradossalmente scrivere poesie né parlare di sentimenti, ma dire con esatte e precise parole ciò che tutti provano o sentono e che non hanno i mezzi o il coraggio per dirlo.

Si nota anche, tra un verso e l’altro, quasi nascosto, un influsso ben più vicino a noi, sia di tempo sia di luogo. Ecco che all’improvviso leggendo le poesie di Caccia ci ricordiamo della nostrana Alda Merini:

“Sono nata il ventuno a primavera
non sapevo che nascere folle
aprire zolle
potesse scatenare tempesta”

(Alda Merini)

“sono nata nel mese
dei morti squillando vita…”

(di stelle grezze)

Come per Alda Merini, Anche Angela Caccia fa percepire nelle sue composizioni un dolore sottile e un amore puro che può essere intravisto solo attraverso la poesia che “per fortunate o abili combinazioni, da più di quando dice”.

Vorrei però poter dire ad Angela Caccia: la tua poesia non dà nulla che sia nuovo, ha una funzione ben più difficile. Ci fa scoprire ciò che non sapevamo o avevamo scordato di avere: è una luce che viene accesa dopo tanti anni in una stanza dimenticata delle nostre anime.

È questo ciò che fa Caccia, poetessa dei giorni nostri, eppure antica e arcana come forse lo era Saffo.


domenica 18 ottobre 2015

Forse “il dove” ha un soggetto sottinteso…

recensione di AR a: Caterina Camporesi, Muove il dove, Raffaelli Editore 2015




Come osserva nella bellissima, perspicua ed esaustiva Prefazione (p. 13) Anna Maria Tamburini “il dove” può essere interpretato come soggetto (ovvero la dimensione dello spazio-tempo che ci è dato di vivere – la nostra condizione umana – è anche quella del movimento, della trasformazione: “il dove muove”). Credo che ciò sia vero, ma penso anche che “il dove” possa essere interpretato come oggetto: l’uomo, per non restare materia inerte, per diventare persona, è necessario che sia “animato” (per chi crede, da Dio, come ci racconta con straordinarie immagini la Genesi), che entri in relazioni con gli altri e con l’ambiente in un continuo processo conoscitivo di sé che è scambievolmente utile agli altri, perché ciascuno possa crescere, esprimere le proprie capacità, muoversi (se non sempre fisicamente, certo mentalmente) e pure com-muoversi. Interpretato il dove” in questo senso, come complemento oggetto, il verbo “muove” ha un soggetto sottinteso, inespresso, indefinito: “qualcosa/qualcuno” muove il dove, cioè anima la nostra materia, dà respiro, anzi rende possibile lo svolgimento della nostra storia individuale e sociale, amplia gli orizzonti del qui-ed-ora, mette in comunicazione gli esseri umani, li “movimenta” perché possano interagire fisicamente, empaticamente, mentalmente (si pensi solo alla funzione del linguaggio).
Tale soggetto implicito è per me il focus di questa raccolta; un focus ineffabile, nascosto, intangibile eppure efficace e inestinguibile come il fuoco del roveto di cui ci parla Esodo 3,2.  C’è bisogno di un senso fuori dal mondo, come ben ricorda a p. 14 la prefatrice commentando con parole del Tractatus l’esergo wittgensteiniano scelto da Caterina Camporesi – Impossibile scrivere in maniera più vera di quanto si è veri – e chiedendosi se in queste poesie non si celi “una verità capace di oltrepassare l’autore” (p. 15.), dato che, pur partendo da una prospettiva senz’altro laica: “L’autrice non esclude l’oltre, anzi ne scruta i segni” (p. 14). Anche Gianni Criveller, in Postfazione, scrive: “La meta del cammino segnato dalla parola poetica non è facilmente disponibile e richiede la fatica del cercare. Tuttavia la parola poetica non è uno specchio narcisistico, non è ripiegata su sé stessa. C’è un altrove, muove il dove nell’altrove, che nelle ultime poesie prende spesso il nome di luce e di attesa” (p. 75).
Lo stile poetico di Caterina è caratterizzato da un uso sapiente delle polarità, della tensione (a volte faticosa e dolorosa, altre volte gioiosa e rigenerante) fra reale e ideale, carne e spirito, vero (la parola “verità” è ricorrente) e falso, transitorietà e permanenza… quelle opposizioni yin/yang che in poesia danno vita alla figura retorica dell’ossimoro, così presente in questa come nelle precedenti raccolte e che, dal punto di vista fonosimbolico, portano a una scelta oculata e altamente espressiva dei suoni, alternando consonante rullate e aspre ad altre più dolci e nasali, e le vocali alte (e, i) alle vocali più scure (a, o, u). Consideriamo la poesia a p. 23:

sprigiona folgoranti lampi
il buio a lungo sigillato

strinando arcaici ieri
dona al domani sentieri

Notiamo nel primo  e nel terzo verso la presenza delle liquide  l/r  e della s seguita da occlusiva (p/t) che esprimono energia e dinamismo, alternata a quella delle più tranquille e riposanti nasali m/n, mentre da una vocale alta come i si scende alle vocali basse a/o per risalire con un saliscendi i-a/e-i a fine verso. Abbiamo poi nel primo distico un doppio ossimoro incrociato: la prima parola “sprigiona” si oppone all’ultima “sigillato”, mentre l’ultima parola del primo verso “lampi” è in contrasto ossimorico con “il buio” all’inizio del verso seguente.
Le parole in rima “ieri” e “sentieri” possono anch’esse essere considerate un ossimoro in quanto lo ieri è rivolto al passato, mentre il sostantivo “sentieri”, essendo preceduto dall’avverbio “domani”  indica un cammino verso mete future.
Per Caterina la poesia ha in sé una “impaziente” energia diffusiva. Già i versi che aprono la raccolta (p. 22) ci offrono importanti concetti-chiave e una forma con le caratteristiche tensioni polari di cui abbiamo detto: le parole scandiscono e al contempo si ancorano, diventano segnali utili a chi li scorgerà e ne vorrà condividere l’interpretazione “da bocca a bocca” con le persone che, per tratti più o meno lunghi di cammino,  ci accompagnano:

in scansioni ormeggiano parole
all’èrta del cenno che le riveli

traslocano da bocca a bocca
impazienti di impastarsi

Il “canto” poetico può reggere la lotta con il nulla, incrociare il vuoto e fecondarlo (p. 24):

non perde smalto il canto
lungo strade deserte
se incrocia ciò che manca

Gli eventi che compongono il nostro vissuto si coagulano nel nucleo fondante eppure sfuggente del nostro io: una casa-culla in cui il tempo si contra e si rigenera (p. 25):

amalgamando attese sogni intenti
la storia si accasa sui fondali dell’io
(…)

Se a volte traspare un pessimismo cosmico (“non quello che si dice / neppure quel che si fa // – dispera ciò che si è –”, p. 29), c’è comunque la fiducia in un agire impegnato e attento (“essere è parola / che all’azione spinge // silenzio”, p. 71, la poesia di commiato che ha quindi un peso specifico particolarmente importante), in una ricerca di sé “là dove non si è” (p. 37) che è un esodare da sé stessi per aprirsi al dialogo, alla condivisione, allo scambio, attraverso il corpo e l’anima, di emozioni (“non perde colore il suono / sul pentagramma // se in emozione-voce si fonde”, p.  45) e conoscenze (“smarrite preghiere tornano / lungo brividi indugiano // stanano il vocabolo / che rivela l’oracolo”, p. 47).
La vita è comunque lo spazio della fatica (“da abissi di corpomente / si risolleva il pensiero”, p. 57), il tempo della lotta fra bene e male (“bastano due sulla terra / per fare una guerra”, p. 65), il cammino fatto di deviazioni e sconfitte (“a pochi s’aprono varchi”, p. 60) che però ci forgiano e ci mettono sulla soglia del nulla “dove la ragione capitola” (p. 36), una soglia che può essere però anche ponte a un misterioso e affascinante altrove in cui “non si brucia l’essenza / che satura l’insistenza” (p. 48). Consideriamo la poesia a p. 49 che così bene ci descrive il divenire sfolgorante dell’essere attraverso la non facile scelta dei sentieri:

per serpeggianti sentieri
si forgia il divenire

nell’essere si sfolgora
e nel tutto si dilegua


Un libro di vera poesia, di grande intensità, ricco di umanità, conoscenza (“si placa l’irruenza / nella sapienza”, p. 61) e di amore per quanto di bello questo nostro mondo ci può offrire se solo diventiamo noi stessi più umani, più attenti, più disponibili e aperti all’incontro. Una poesia rigenerante, della rinascita, che suscita nel lettore/ascoltatore le energie migliori. Del resto l’area semantica del verbo suscitare è quella che comprende verbi come citare, re-citare, ec-citare, risus-citare… che derivano tutti dal latino citāre, ovvero “smuovere, far muovere, richiamare”: vediamo dunque come ritorni il titolo Muove il dove.

sabato 17 ottobre 2015

"Sgocciola adagio e lacera il silenzio"

Ricevo, inviatami da Rosa Elisa Giangoia, questa nota del critico Giuliano Papini di Genova alle mie parole pubblicate nella pubblicazione telematica Lettera in versi n. 55. Non nascondo l’enorme piacere che la recensione mi dona, in epoche così povere di soddisfazioni, specialmente per chi scrive. Le chiamo “parole” e non “poesie” le mie riflessioni, e nemmeno “versi”. Lascio a qualche lettore la voglia e il tempo di una risposta.

Premessa

Le seguenti osservazioni sulla poesia di Bruno Bartoletti si fondano non sull’opera completa di lui ma su un campionario ristretto di composizioni, tratte dai suoi libri, inserito nella pubblicazione telematica 
Lettera in versi n. 55. Pertanto questa non è una recensione esauriente dell’intera produzione di quell’autore, ma soltanto un gruppo di annotazioni, nate durante la lettura, limitato e suscettibile d’ integrazioni e correzioni da parte di chi conosce tutti i volumi editi dal poeta.

Critica

Bruno Bartoletti, intervistato, additò come suoi maestri di poesia Dante, Petrarca, Leopardi, Pascoli, e Luzi, aggiungendo anche i nomi del Baudelaire oltre che di alcuni rappresentanti del Simbolismo francese e, nel Novecento, di Montale, Betocchi, Bertolucci e Penna. Fra tutti, il Pascoli sembra il preferito, sia per ragioni specificamente letterarie, sia per una simpatia più genericamente umana, perché la repentina e prematura morte del padre unisce entrambi in una sorta di dolorosa fratellanza ideale. Fa meraviglia, a dire il vero, che, almeno in quell’occasione, non siano stati nominati né l’Ariosto, né il Tasso, né il Foscolo, né il Manzoni, né il Carducci, né il D’Annunzio, per limitarci ai maggiori, ma proprio questa omissione c’introduce nella comprensione della temperie spirituale del Nostro, al quale il Tasso e il D’Annunzio appaiono forse troppo sensuali e smaglianti, l’Ariosto troppo sereno, il Foscolo troppo virile, il Manzoni troppo sicuro della sua fede e il Carducci troppo vigoroso. Il Bartoletti, infatti, ha la stoffa del crepuscolare, i suoi timbri sono in sordina, i suoi colori dominanti sono il grigio e il nero, il suo stato d’animo più presente è la malinconia, le sue ore predilette sono quelle del tramonto e della notte. Qualche esempio.

In “Le parole dell’anima” sono neri i fiori che si schiudono la sera, e nere le scogliere. In “Le radici” nera è l’ombra di un fiume. Ne “Il vecchio Jonathan” sopra l’occhio spento del navigatore scende una membrana grigia e perfino le luci hanno le loro ombre. In “Anche mio padre” vi sono donne “in lunghe litanie di ombre tra le vesti buie” e “cupe ombre di silenzi scendono di lontano”. Potrebbe bastare per connotare il Bartoletti come poeta dalla tavolozza cromatica assai scura, ma non si può non citare la “foglia di tenebra” che cade su un uscio o i “cupi smarrimenti” che avvolgono la vecchia casa abbandonata o le donne che vanno oltre la soglia nera “in lunghe litanie di ombre” o le “ombre pensose” sospese sulla strada reale o immaginaria dove il poeta cammina.

La nostalgia è un sentimento che possiede la sua anima. Nel paese dove fu fanciullo

Paese di antiche memorie,
ritorno alle soglie e non trovo
che scheletri bianchi di querce
e case trafitte,
calanchi assopiti tra mute fiumare,
il tempo di ieri si sgretola e lascia
un sentiero di pioggia,
là dove restava mia madre,
lei sola, sull’uscio, nell’alba.


Rivisita la vecchia casa dove il passato e il presente si annodano in un groppo di rimpianti

Ritorno a questa casa, a questa vecchia
casa chiusa da troppo tempo, estinta
come un vecchio quaderno fuori corso
su cui sillabe vuote han perso il senso
di una frase compiuta, di un discorso
che si interrompe, vuoto, dove il segno
cade sbiadito entro tramonti cupi.

Qui la mia casa al buio come morta
esce dall’ombra, grigia, in un silenzio
di cupi smarrimenti, di abbandoni,
mentre corrono voci ed ombre ancora
là sulla soglia, sui gradini vuoti.



Nel borgo dove visse la sua prima età, i ricordi gli si affollano nella mente e infondono nel suo animo il senso della vita fuggita nel passato e del tempo che inesorabilmente lo avvicina all’ultima oscura soglia


Sgocciola il tempo ad uno ad uno i giorni
in questo borgo cupo d’altipiano
ove la luce sferza la penombra
grigia raccolta tra spigoli di case.
Cantilene di passi da cunicoli
salgono eguali e voci in lontananza.
Tornare qui da tempo e ricucire
il filo dei ricordi, i nostri giorni,
la strada che si perde oltre la riga
nera dei monti, le ceneri nel vento
cupo che scende tra rivoli di ansie,
la nostra vita. A sciami alle mie spalle
s’alzano gli anni tra ventate e scuote
l’albero nudo i rami, i nostri giorni
che il tempo ora raccoglie nello strappo
feroce sulla soglia ove già l’ombra
scuote al silenzio rami di dolore.



Naturalmente non tutta la poesia del Bartoletti è intonata su questa corda. Sfogliando i suoi libri, troviamo anche momenti di maggiore cordialità verso la vita, sebbene rari, come nella “Promenade di un amore nel giorno di San Valentino” o ne “La scuola che mi vide bambino”. Queste brevi parentesi di sereno o almeno di apertura alla luce non cancellano l’impressione del dolente pessimismo di cui si sostanzia la Weltanschauung dell’autore, davvero discepolo del Leopardi e del Pascoli sotto questo riguardo.
Quanto alla forma il Bartoletti alterna passi di assoluta chiarezza a passi di ermetica involuzione, nei quali è difficile e in qualche caso impossibile cogliere con certezza i lineamenti dell’immagine o della sentenza. Viene da pensare che egli, suggestionato dagli impasti lessicali delle avanguardie, sia voluto scendere a gareggiare con esse per coniare ardue giunture sibilline parole, dimenticando la limpidità dei suoi classici. Ancora qualche esempio.


Chiarezza:

Mi hai detto che ci sono fiori bianchi
che si aprono nella trasparenza dell’alba
e vivono eterni nei cuori dei ghiacciai
per schiudersi al tramonto nel fuoco
degli orizzonti…

Il vecchio Jonathan, dopo aver percorso tutti i mari,
raccolse le ali stanche lasciandosi trasportare dal vento,
come una grande vela aperta…
Sono partiti tutti, sono andati
per altre strade, tutti, ad uno ad uno,
tutti i miei cari, l’alveare è vuoto.

Fa freddo. Il fuoco è quasi spento.
Il tempo all’improvviso ci ha portato
questo gelo precoce. È quasi notte
e il telefono squilla nella casa
e prolunga l’attesa…




INVOLUZIONE:
                                 È l’aria
ferma sulla cenere, grigia, copre
immagini spente nell’oblio, il tempo
che ci cancella dentro vuoti soli,
è l’aria gelida che stampa il solco
che ci separa e semina l’assenza.

                                 …è un linguaggio
appreso troppo presto, quando il vento
strappava le corazze al nostro inverno.
                                 È tanta,
pare indicarmi il cedro dai suoi rami,
l’acqua che macina giorni di dolore,
le cicatrici appese ai nostri sguardi…

Di me di noi nessuna nuova, il tempo

schiaccia il futuro e asserpola il presente
nell’agonia dell’ora…



In generale, il ritmo dei versi è sentito e rispettato, ma non mancano improvvisi scarti e sprezzature che non si sa se siano stonature accidentali o voluti riscatti dal rigore della metrica e affermazioni di libertà espressiva. Ascoltiamone qualcuna:

È questa la mia storia, alla deriva

s’alzano braccia scheletri di sogni,
forse perduti o forse mai vissuti
che devo ora comprendere. E non fu vano

lo strappo della morte per capire…

… una strada qualunque, senza nome,
che da Strigara scende verso l’Uso,
una strada perduta, non segnata
se non nella memoria di chi è partito.

Sgocciola adagio e lacera il silenzio
il tempo che si sfalda, l’ora morta
che lentamente si consuma, ascolto.
Sento soltanto un suono di lamiere
e il vento tra lunghe litanie di ombre.


Siamo così giunti alla domanda capitale che il critico pone a se stesso e al pubblico dei lettori: Il Bartoletti può dirsi poeta? Se sì, quale è il carattere e il valore della sua poesia? La risposta, affermativa, necessita di alcune precisazioni. Si avverte nella sua opera una sincerità di contenuti, ossia di stati d’animo, che fa escludere ogni sospetto di affettazione menzognera. Si avverte anche un amore per la parola non suscitatrice di passioni e di moti pratici, come accade negli oratori, né plasmatrice di concetti e di giudizi come è proprio dei filosofi e nemmeno coniatrice di astratte formule quali dettano i matematici o di schemi classificanti, tipici dei naturalisti, bensì disegnatrice d’ immagini che la fantasia del lettore accoglie e contempla con estetico compiacimento. Certo, il Bartoletti non è poeta di poesia orecchiabile e popolare: l’ascolto della sua voce richiede una paziente attenzione, disposta e disponibile all’incontro con modi espressivi difficili, spesso da ripensare, non mai banali e ovvi. Poesia d’arte, dunque, di un’arte che talora rasenta l’artificio, ma che sempre s’impone per la serietà e la nobiltà della materia cantata, per la schiettezza delle intenzioni e per l’originalità degli effetti.

giovedì 15 ottobre 2015

Giovanni Dino presenta l'antologia I Poeti e la crisi a “Il verso della trama”, Rimini 27 nov 2015

Fara Editore in collaborazione con








Presenta il ciclo di incontri con narratori, poeti e…

“Il verso della trama” 


Semiramide



presso la splendida Sala degli Arazzi
via L. Tonini, 1


ogni trama ha almeno un verso 
e i versi più di una trama

Opera senza titolo di Lucia Nanni, tela di canapa con filo nero





venerdì 27 novembre 2015 alle ore 17.00


Giovanni Dino

presenta

I Poeti e la crisi





“Con I poeti e la crisi abbiamo voluto proporre un’operazione culturale, rivolta ad autori desti e coraggiosi, disposti ad un impegno creativo, ma anche – e perché no? – foriero di stimolanti idee e consigli, di qualche utile suggerimento, che in ogni caso aiutasse a riflettere, a prendere coscienza, in modo pacifico e democratico, di un grave problema del Paese. La poesia ha sempre qualche risorsa impensabile. Dunque non un coro di lamentazioni, non uno sfogatoio personale o collettivo, non uno strumento di guerra o di vendetta, né un’occasione per puntare l’indice verso qualcuno o qualcosa. Nemmeno un’occasione per una poesia incipriata per ritrovarsi dentro un libro come in un club, per leggersi e farsi leggere. Abbiamo voluto che fosse un documento-testimonianza, un modo di scendere in campo. E anche una risposta a chi, fra venti o trent’anni, si trovasse a chiedersi cosa avessero fatto i poeti di oggi in un’Italia investita da un uragano, prostrata da un impoverimento di massa. Un poeta vive la realtà di ogni giorno e quella di ognuno.” (dalla Nota introduttiva del Curatore)



Giovanni Dino è nato a Palermo nel 1959, vive ed opera a Villabate (PA). Reputa sua vera scuola le molteplici esperienze di vita con persone di diversa levatura sociale e culturale e la loro amicizia. Ha frequentato corsi di teologia e studi biblici dedicandosi anche a diversi approfondimenti filosofici sul Bene e sul Male, sul Bello e sul Buono, a studi sulla poesia nazionale contemporanea dal dopoguerra ad oggi e su poeti palermitani, molti dei quali conosciuti e frequentati. Cattolico, aperto ecumenicamente verso tutte le fedi religiose. Ha pubblicato: La parola sospesa (1995); Ritorneremo (I Cavalieri dello Spirito) (1998); Anima di gatto (2002); E ritorno a te (2004); Un albero che nutre la terra di cielo (2007), 11-12-13 (2013) con Nicola Romano; La nascita di una idea (2015). Ha curato l'Indice Generale 1986-2003 degli autori della rivista «Spiritualità & Letteratura» (2003); gli Editoriali di «Spiritualità & Letteratura» (2006) e Nuovi Salmi con G. Ribaudo (2012). Presente in varie antologie di poesie e dizionari di autori, collabora a diversi periodici e riviste letterarie.

L'Antologia contiene versi di: Ennio Abate, Massimo Acciai, Nino Agnello, Domenico Alvino, Filippo Amadei, Giovanni Amodio, Brandisio Andolfi, Amedeo Anelli, Sandro Angelucci, Cristina Annino, Lucianna Argentino, Vincenzo Arnone, Andrea Barbazza, Antonella Barina, Arnaldo Baroffio, Maurizio Barracano, Mariella Bettarini, Gabriella Bianchi, Donatella Bisutti, Rino Bizzarro, Silvana Blandino, Paola Bonetti, Anna Maria Bonfiglio, Marisa Brecciaroli, Lia Bronzi, Ferruccio Brugnaro, Luigi Bufalino, Franco Campegiani, Caterina Camporesi, Maria Cannarella, Domenico Cara, Maria Licia Cardillo in Di Prima, Mariella Caruso, Franco Casadei, Maria Gisella Catuogno, Augusto Cavadi, Viviane Ciampi, Grazia Cianetti, Domenico Cipriano, Pietro Civitareale, Carmelo Consoli, Anna Maria Curci, Salvatore D’Ambrosio, Antonio De Marchi Gherini, Jole de Pinto, Luigi De Rosa, Marco Ignazio de Santis, Adele Desideri, Rosaria Di Donato, Felice Di Giacomo, Carmelo Di Stefano, Emilio Diedo, Giovanni Dino, Angela Donna, Antonella Doria, Gianfranco Draghi, Germana Duca, Pasquale Emanuele, Gio Ferri, Giovanni Fighera, Luigi Fioravanti, Zaccaria Gallo, Sonia Gardini, Serenella Gatti Linares, Daniele Giancane, Mariateresa Giani, Eugenio Giannone, Filippo Giordano, Agnese Girlanda, Elio Giunta, Enza Giurdanella, Grazia Godio, Eugenio Grandinetti, Maria Luisa Gravina, Francesco Graziano, Diego Guadagnino, Gianni Ianuale Alfio Inserra, Carmine Iossa, Gianfranco Isetta, Giuseppe La Delfa, Stefania La Via, Giuliano Ladolfi, Alessio Laterza, Enrico Mario Lazzarin, Maria Grazia Lenisa, Maria Lenti, Aldino Leoni, Giacomo Leronni, Salvatore Li Bassi, Nicola Licciardello, Stefano Lo Cicero, Gianmario Lucini, Francesca Luzzio, Mauro Macario, Annalisa Macchia, Marco Giovanni Mario Maggi, Roberto Maggiani, Gabriella Maleti, Angelo Manitta, Nunzio Marotti, Sara Martello, Viviana Mattiussi, Vito Mauro, Senzio Mazza, Anita Menegozzo, Alda Merini, Giancarlo Micheli, Alena Milesi, Ester Monachino, Marina Montagnini, Ardea Montebelli, Alberto Mori, Maria Pia Moschini, Lorenzo Mullon, Antonio Nesci, Clara Nistri, Sergio Notario, Guido Oldani, Claudio Pagelli, Giacomo Panicucci, Nazario Pardini, Ezio Partesana, Guido Passini, Edoardo Penoncini, Guglielmo Peralta, Rosanna Perozzo, Mariacristina Pianta, Andrea Piccinelli, Laura Pierdicchi, Domenico Pisana, Marina Pizzi, Giorgia Pollastri, Paolo Polvani, Davide Puccini, Paolo Ragni, Alessandro Ramberti, Enzo Rega, Gianni Rescigno, Flora Restivo, Alain Rivière, Nicola Romano, Mario Rondi, Angelo Rosato, Ottavio Rossani, Ciro Rossi, Pietro Roversi, Stefano Rovinetti Brazzi, Marcella Saggese, Anna Santoliquido, Loredana Savelli, Marco Scalabrino, Maria Teresa Santalucia Scibona, Antonio Scommegna, Liliana Semilia, Giancarlo Serafino, Luciano Somma, Italo Spada, Antonio Spagnuolo, Santino Spartà, Marzia Spinelli, Lorenzo Spurio, Fausta Squatriti, Gian Piero Stefanoni, Anna Maria Tamburini, Luigi Tribaudino, Carmela Tuccari, Luca Tumminello, Adam Vaccaro, Mario Varesi, Anna Ventura, Emanuele Verdura, Anna Vincitorio, Ciro Vitiello, Fabrizio Zaccarini, Carla Zancanaro, Adalgisa Zanotto, Guido Zavanone, Lucio Zinna