giovedì 30 luglio 2015

Le nuvole che sono: Rita Pacilio


Molte volte i canti delle magnolie
ritornano nell'imbrunire
al mio respiro.
Non temono l'intreccio dei venti
né le linee curve del seno nelle nuvole.
Indugiano solo quando l'eco disperata le insegue.

Rita Pacilio

(da Gli imperfetti sono gente bizzarra, LVF, 2012)



mercoledì 29 luglio 2015

Intralci ed intervalli – la nuova raccolta di Elena Varriale


Elena Varriale



€ 10,00 pp. 60 (Il filo dei versi 10)

ISBN 978 97441 70 0


Postfazione di Alessandro Ramberti

«Versi che portano il lettore a navigare in un mare di parole, che alternano toni leggeri con toni più intensi e contenuti di sostanza…» (Caterina Camporesi)

«Poesie in cui l’osservazione del reale e del presente apre orizzonti di riflessione esistenziale.» (Rosa Elisa
Giangoia
)

«Forte è l’aratro dei versi in questa raccolta che finalmente mette a nudo la condizione disperante del Sud di ogni luogo del nostro azzurro pianeta…» (Vincenzo D’Alessio)

Sono strane le parole del poeta / raccolgono voci di materia inerme / e nei dettagli fermano il pensiero. (p. 13)

Fiato del cosmo è il dubbio / scritto con esili contorni di luce: / la carne è solo cenere / nelle mani rugose del tempo (p. 15)

Le parole che si allungano / come ombre sulle pareti /non hanno stanotte / un centro, una trama, un fine. / (…) / ondeggiano incompiute / tra intralci ed intervalli. (p. 19)


Elena Varriale è nata a Napoli, terra di mare e fuoco e nell’aria che respira ci sono oracoli di Sibilla e canti di Sirene. Ha pubblicato articoli, saggi e due raccolte di poesie (Lo so che sbaglio, Tracce 2007, e Solubile Scompiglio, Tindari Edizioni 2012). Suoi scritti (poesie e racconti) sono stati selezionati e pubblicati in antologie e riviste (Aletti, Giulio Perrone Editore, Lietocolle, Fara, Limina Mentis) e nel blog di Poesia Rai News curato da Luigia Sorrentino. Ha ricevuto riconoscimenti in premi letterari nazionali e internazionali. Il suo romanzo breve Se sei nato caos non puoi diventare armonia è stato pubblicato nell’antologia Faraexcelsior 2013. Il suo scritto “La parola è un silenzio abitato” è inserito ne Il luogo della parola (Fara 2015).

“Il Tocco Abarico del dubbio” a Crotone 30 luglio

Il Comune di Crotone presenta:

Il Tocco Abarico del dubbio di Angela Caccia

Incontro con l’autrice

Giovedì 30 Luglio 2015 ore 18:00
Museo Civico – Castello Carlo V, Crotone

Il Tocco Abarico del dubbio

Orme che chiamano in causa

recensione di Annalisa Ciampalini


Premessa.  È bello trovarsi davanti a una raccolta poetica in cui vi sono una premessa, un antefatto, un prologo e un’apertura, e poi alla fine un epilogo e un congedo. Tutte queste fasi possono significare che l’autore intende progettare qualcosa di compiuto, non solo mettere sulle pagine una sequenza di versi riusciti.
Prima della premessa si legge: Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola al servizio degli altri. (I Pt 4,10) e nella premessa l’autore scrive: Raccontami di te, del tuo cammino, / di ciò che opprime il cuore o lo dilata, / del senso che ti sembra incomprensibile, / della felicità legata al vivere /(…) e dopo il congedo troviamo: (…) Noi siamo la nostra parola, ma la nostra parola non esisterebbe se non si fosse costituita attraverso la parola degli altri che ci hanno parlati (Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco…). Dalle frasi riportate si può intuire che l’autore desidera proporre un percorso  e che gli altri, quindi anche il lettore, faranno parte integrante dell’iter che il poeta ha in mente.
La raccolta si presenta, al solo sfogliarla, densa, piena di richiami e note: si capisce subito che esige una lettura attenta, da ripetere. Il fatto che il lettore sia in qualche modo chiamato in causa aggiunge una nota di entusiasmo utile per addentrarsi nella conoscenza del testo.

La struttura ci parla. Ancora un appunto su quello che si può evincere da uno sguardo sommario: l’opera si sviluppa, per la maggior parte, attraverso quartine di endecasillabi e alla fine di ogni quartina vi è un verso tra parentesi. Dopo ogni poesia troviamo una parola in lingua cinese sempre tradotta. Devo dire che nell’ordine grafico dato dalle quartine, la singola parola in lingua cinese spicca per brevità e per un diverso carattere che ci rimanda subito a qualcosa di esotico. Mi sono chiesta perché l’autore abbia deciso di affidarsi a uno schema metrico così rigoroso e ho trovato la risposta nella illuminante prefazione di Vincenzo D’Alessio, in cui si dice che tale scelta è da ricercarsi nelle letture dei Salmi dell’Antico Testamento. Procedendo con la lettura a pagina 20 si trova: Che meraviglia è avere la coscienza / di navigare oltre i quattro arti – / un gancio qui nel mondo contingente / di quella illimitata permanenza / e a pagina 21: in atomi di solidarietà / con il coraggio unito all’obbedienza / che implica la fede e l’alimenta / curando il campo della società. Coraggio e obbedienza sono quindi fondamentali per la fede, per un dialogo costante con l’Eterno. L’obbedienza è in stretta connessione con la disciplina, non si improvvisa, si raggiunge dopo tanto esercizio. Il coraggio è l’ardire che ci consente di andare oltre sfidando la paura e la limitatezza insite nell’uomo. In questo caso credo ci si riferisca al coraggio che ci fa dimenticare noi stessi e ci rende totalmente disponibili all’incontro con l’altro. O al coraggio che serve per affidarsi interamente alla chiamata della fede. Ho trovato, nella perfetta struttura metrica delle quartine, il riflesso dell’obbedienza e della disciplina che la fede esige, e nell’uso della lingua cinese, il coraggio di spingersi oltre il limite personale,  l’invito ad una splendida avventura in una terra lontana dove la lingua segue altre regole e si incarna in simboli differenti.

La lettura.  La mia preparazione non mi ha consentito una lettura da subito agevole perché ho dovuto soffermarmi del tempo sulle  note e sulle citazioni; pertanto, prima che il tutto diventasse fluido, che le frasi  di altri autori  formassero un corpo unico assieme ai versi di Alessandro,  ho dovuto leggere il testo più volte. Solo così sono riuscita ad assaporarne appieno la bellezza e la portata del significato. 
A pagina 26, terza quartina, leggiamo: se mi accompagni in questa digressione / non ti prometto altro che uno sguardo / una domanda-verso un compimento / un desiderio di continuazione. In questi versi il poeta tende la sua mano a tutti, indistintamente, e il suo sguardo sul mondo è volto a cercare un compimento, un senso che, sebbene  non sia sempre manifesto,  può essere intuito da ogni creatura tramite la fede. Questa è la sfida principale. Non a caso, all’inizio dell’opera, prima della premessa, troviamo: Così, da qualsiasi parte si volga, l’uomo si trova isolato nella realtà come un’isola circondata da un mare fragoroso di possibilità e interrogativi. Se ne può concludere che il mondo ha un significato. (Camus, Taccuini II, pp. 82-3). L’esistenza di un senso per il nostro stare qui è una delle premesse da cui si sviluppano le tematiche principali dell’opera.
Siamo dunque tutti in viaggio, un cammino difficile, spesso tortuoso; ma se vogliamo siamo capaci di trovare il sentiero giusto da percorrere e la meta luminosa. Chiarificanti, circa la specie di percorso che ci attende, sono i versi a pagina 49, ultima quartina, in cui si legge: (…) – a noi non resta / che partire mettendo in fila i passi – / la meta dell’andare si deduce. Tali parole hanno però  un significato ben più ampio: esprimono lo spirito del viandante-fedele che non si muove secondo schemi prestabiliti, che non esige una vita tranquilla e costruita solo per sé stesso,  ma intraprende un iter scomodo e coraggioso: quello della fede. A proposito si legge alla fine di pagina 39: La conversione è sempre una chiamata: / “Vattene” affidati all’invito folle / che fa di te il viandante del respiro / la parte della terra più animata.
L’opera è talmente densa e stratificata che i significati si aggiungono ad ogni lettura, di continuo si innestano dubbi e possibili risposte, sebbene il chiarore finale della fede giunga sempre a dare compimento alla complessa avventura dell’uomo.
Personalmente, tra le tante questioni interessanti che si incontrano nel percorso di lettura, ho trovato fondamentale la riflessione  sul narcisismo, sull’aspetto che assume una vita quando è riempita solo dal soggetto. In molti versi riscontriamo il riverbero di questo pensiero che sembra diventare, a ragione, una preoccupazione per l’autore.  A pagina 52 leggiamo: Le giustificazioni personali / dell’io-senza-nessuno e autocentrato / ci escludono di fatto dal giardino / che fa fruttare i beni e annulla i mali. E ancora (…) un nesso narcisistico ma stanco / inabile a veder fuori di sé: / tutto è ridotto, tutto consumato / se ira, invidia e rabbia sono a fianco. Alla fine di questa poesia troviamo, in lingua cinese, la parola “palude”. Una vita immobile quella che ha un solo centro, destinata a implodere, a non arrivare da nessuna parte.
Mi preme riportare la prima quartina di pagina 41: È attraverso il sentimento e l’incontro / che ci riconosciamo: il tu diventa / presenza indispensabile al soggetto / all’unità profonda dello scontro. Per definirci, per conoscerci e riconoscerci, l’altro è pertanto indispensabile. Bellissimi versi che riecheggiano il “Principio di indeterminazione” per cui le misure che definiscono certi parametri di una particella (soggetto) sono sempre condizionati dall’osservatore (oggetto). Una condizione di reciprocità che si riscontra tanto in fisica quanto nell’esperienza di stabilire un dialogo profondo con l’Eterno.
D’altra parte l’autore mai si sottrae dalle questioni fisiche, non teme l’idea di un universo fatto di particelle, non esita a nominare gli uomini quanti vivi e misurabili (pagina 22) e l’anima (…) Un’azione / sublimata, l’effetto di una chimica/ancestrale, (…)(p. 23). Nessuna di queste concezioni, per quanto plausibili, può mettere in discussione il significato della fede, nessun pensiero sulla natura dell’universo può essere in conflitto con l’amore che precede ogni fenomeno, che deriva da Dio e si sparge negli uomini.
Desidero concludere questo commento  con i luminosi versi di pagina 57 in quanto testimoniano come uno spazio immane e un tempo senza fine possono essere concepiti dalla mente-anima finita di un uomo. Eccoli: Lo splendido brillio di una risata / il flusso del big bang in espansione / l’amore per cui l’anima è al futuro / sapendosi da sempre generata.
Anche questo dovrebbe stupirci.


martedì 28 luglio 2015

È uscita la nuova raccolta di Griselda Doka (con testo albanese a fronte)

Griselda Doka



€ 9,00 pp. 96 (Il filo dei versi 9) ISBN 978 97441 69 4

Prefazione di Pierino Gallo
Postfazione di Angela Caccia
testo albanese a fronte


«L’intera raccolta potrebbe essere letta come un libretto di canti, di nenie, la cui scansione ritmica non cessa di richiamare le elegie e i lamenti funebri delle antiche donne albanesi: il tuo corpo / il tuo corpo ripete la poetessa in una poesia dal tono quasi mistico.» (dalla Prefazione di Pierino Gallo)

Ricordo il tempo in cui ti chiedevo / di non essere pianta se fossi morta / (è valido tuttora) / il nero dei vestiti è un gioco da passerella / che non ho mai sopportato / e poi la memoria non si impone / credo… (p. 51)

Mi hanno abbandonato i pensieri veri / quelli che scavano la gola / e picchiano la testa / mi specchio in te / e non mi rivedo / oh povero gabbiano impaurito / che sfiori appena l’aria / sopra la mia frangetta… (p. 83)

«Nel verso sincopato il riflesso di un’essenzialità che ha dell’inesorabile: malinconico, dolcissimo (…). A volte è un tamburo di guerra. Il ritmo deciso inneggia al coraggio e alla fierezza di un popolo che, nella Nostra, non si identificano solo in radici, vanno oltre: una pregnanza viva e attiva, di cui sarà ricco lo sguardo e di cui è già testimone la forza poetica della parola.» (dalla Postfazione di Angela Caccia)


Griselda Doka è nata a Tërpan, Berat (Albania). È attualmente dottoranda in Studi letterari, linguistici, filologici e traduttologici presso l’Università degli
Studi della Calabria. I suoi interessi scientifi ci si basano principalmente sulla lingua e la letteratura albanese, sulle scienze traduttologiche e sulla letteratura della migrazione, con un focus particolare sugli autori di origine albanese. Ha ideato e portato avanti il Concorso Internazionale di Poesia della Migrazione “Attraverso l’Italia”. La sua prima sillogeSoglie è stata pubblicata di recente da Aletti Editore.

News da Adele Desideri

* È stata pubblicata la traduzione in spagnolo di Carlos Sánchez al mio libro di poesie Il pudore dei gelsomini (prefazione di Tomaso Kemeny, Raffaelli, 2010): El pudor de los jazmines, traducción di Carlos Sánchez (prólogo de Tomaso Kemeny, Raffaelli Editore, maggio 2015), e-book, euro 1.20. Al link http://www.raffaellieditore.com/el_pudor_de_los_jazmines

* La poesia 14 agosto, Airola (tratta da Stelle a Merzò (Moretti&Vitali 2013) è stata tradotta in albanese e inserita nell’antologia Sponde. Panoramica sulla poesia contemporanea della Svizzera Italiana. Brigjet, Panoramë e poezisë bashkëkohore të Zvicrës Italiane përzgjedhur nga, a cura di Diamant Abrashi, Copyright@Autori, Katalogimi në botim – (CIP), Biblioteka Kombëtare e Kosovës “Pjetër Bogdani”, 2015

* Una sezione di 11 agosto, Carro (da Stelle a Merzò, Moretti&Vitali 2013), tradotta in russo da Evelina Schatz, è stata pubblicata nell’antologia internazionale di poesia CEMEЙHAЯ ЛИPA (La lira familiare), Mosca, 2015

* Le poesie Vexation entr’acte (tratta dalla raccolta inedita L’eremo dei pensieri sospesi), Tsitsernakaberd (Yerevan, Armenia, Al memoriale del genocidio, tratta da Il pudore dei gelsomini, Raffaelli, 2010), Cristalli (tratta dalla sezione “La terra delle croci”, nella raccolta inedita L’eremo dei pensieri sospesi), Monastero di Sanahin (Armenia settentrionale, tratta dalla sezione La terra delle croci, nella raccolta inedita L’eremo dei pensieri sospesi), Quod super est (tratta dalla sezione “La terra delle croci”, nella raccolta inedita L’eremo dei pensieri sospesi) sono state tradotte in armeno da Gurghen Ter Avakian, e pubblicate in Gurghen Ter Avakian, Il mio mondo, Yerevan, 2014

* Segnalo il Premio Internazionale di Poesia: sulle orme di Lèopold Sèdar Senghor
Finalità: promuovere la pace, la solidarietà e l’amore tra i popoli tramite la scrittura poetica.
Sezione in lingua italiana
Sezione in lingua francese
Presidente Pap Khouma
Giuria: Desideri Adele, Gaye Cheikh Tidiane, Ghinelli Paola, Giangoia Rosa Elisa, Infante Maria Teresa, Raimondi Stefano, Riva Silvia, Taddeo Raffaele e Vidoolah Mootoosamy
​Link in italiano
www.africasolidarieta.it/2015/07/premio-internazionale-di-poesia-sulle-orme-di-leopold-sedar-senghor
in francese
www.africasolidarieta.it/2015/07/prix-international-de-poesie-sur-les-traces-de-leopold-sedar-senghor <
pagina facebook
www.facebook.com/pages/Premio-Internazionale-di-Poesia-Leopold-Sedar-Senghor/700872980025135?fref=ts

“Nessuno si illuda di esaurire la parola, di darvi fondo, di essere arrivato al suo completo svelamento. La parola ci trascende. Perciò è sempre da scoprire” (David Maria Turoldo, Anche Dio è infelice, Piemme 1991, pag. 39)


Un gigantesco anacoreta della parola meccanica: sui Canti Digitali di Alberto Mori


recensione di Vincenzo D'Alessio

Alberto Mori: Canti Digitali, Fara Editore, 2015



Caro Alberto Mori
ho dedicato buona parte del mio tempo di lettore al tuo gigantesco volume di versi che reca il titolo Canti Digitali: forse acronimo del Compact Disc che oggi raccoglie le emozioni, le immagini, le notizie destinate in passato al millenario foglio di sostanze vegetali. Ti scrivo, oggi, in questa sfrenata giornata di caldo umido per imprimere su questo frammento di carta, con la calligrafia manuale antica, i “Canti” che hai raccolto per lanciarli nei labirinti “Digitali” alla ricerca degli occhi dei lettori, futuri ascoltatori di un mondo lontanissimo: “Nel mondo web quello che si sa e non si sa diviene visibile.”

L’esergo posto alla tua raccolta richiama alla mente il flessibile canovaccio teatrale dell’ottimo lavoro di Massimo Sannelli Digesto (2014, Tormenta1945 Editrice). I tuoi versi sono principalmente destinati alla rappresentazione teatrale, al diverbio con il pubblico, all’attacco diretto tra immagine e ontologia. Prendo in prestito le parole di Sannelli: “il palliativo è dadà, il successo è dadà, dadà è il passatempo e ha la sua bellezza, dadà è un’azione che non serve: dadà è baciare” (pag. 17, op. cit.). Riporto inoltre dalla postfazione di Franco Gallo questo suo pensiero: “Il testo si presta infatti, proprio per le frequenti allusioni fonematiche, per il ricorso a neologismi evocativi, a imitazioni omofoniche, nonché per l’accentuata vocazione alla scena di genere, a una interpretazione orale e gestuale integrativa molto libera, dove l’elemento della scelta della curvatura recitativa può essere decisivo” (pag. 148).

Non riesco a pensarti diversamente da un anacoreta della parola meccanica, quella forza realizzata dai Movimenti dell’Avanguardia Italiana ed Europea agli albori del Secolo Breve, prima che il cavallo di fuoco delle due Guerre Mondiali riportasse indietro la condizione delle classi sociali dispersa nelle trincee. Rivedo nella tua splendida raccolta lo sforzo di annunciare il nuovo linguaggio che tanto imperversa agli inizi di questo XXI secolo, sembra di ascoltare lo scoppiettante dialogo tra un padre e la sua creatura che vivrà gli affanni velocissimi di questo nuovo tempo, un linguaggio sperimentale, utilizzato socialmente da miliardi di esseri umani nel silenzio luminoso del Web, l’eclissi del linguaggio.

Ho scelto i versi del poeta Aldo Palazzeschi che si autodefinisce “Il saltimbanco dell’anima mia” (Chi sono?) nel suo componimento più letto: “Clof, clop, cloch, / cloffete, / cloppete, / chchch… / È giù, / nel cortile, / la povera / fontana / malata; / che spasimo!” (La fontana malata), per accostarli alle tue rappresentazioni pubbliche, al tuo connetterti visibilmente con gli occhi degli spettatori che inconsapevolmente divengono protagonisti delle tue opere.

Oltre il linguaggio, così scriveva il nostro filosofo Emanuele Severino: «Ma nella “storia” dell’Occidente l’epistéme della verità è destinata al tramonto” (pag. 167). Così il tuo linguaggio è la ricerca della filosofia della scienza nuova per aggiungere, attraverso l’analisi perfetta della Poesia, il linguaggio poetico premoderno: “Andiamo / È tempo d’Android / Allaccio fresco adolescente dei sorrisi / La triade fragrante allo stesso passo / medesimo chatto fra schermi ravvicini / trova App ad opzione gratuita scoperta insieme…” (pag. 39).

Caro Alberto i versi fuggono dalle pagine del tuo libro verso gli schermi dei social network ad inebriare gli occhi e le faccine pronte ai commenti dei lettori. Quanto dureranno? La filosofia che i tuoi versi contengono quanto contagerà i lettori della “techno vision”. Quale gioco interpreterà la tua bocca tridimensionale nella narrazione delle 139 pagine dove la scenografia complessa del metodo potrà offrire godimento liberatorio a quella che una volta chiamavamo “cultura di massa” ?

Credimi l’analisi attenta del filosofo Franco Gallo rende piena giustizia ai tuoi testi poetici e coordina quello che definiamo ipertesto, libero da ogni forma di condizionamento, aperto a tutti gli algoritmi di questo perturbante secolo di barbarie.

“Sulla piccola duna della spiaggia / Summer Card verde pallida / ricorda alla sabbia / Connette con la plastica / materia comunicativa dismessa / nel moto cellulare del tempo” (pag. 38). La Natura è la Madre Eterna del Pianeta Terra. L’immortalità della Poesia aiuta a ritrovare il ruolo che l’Umanità ha scelto da millenni: un Cantico delle Creature anche dal Mondo Digitale dove: “Tutto si fa schermo / Nessuna sera senza dislpay / Canti Digitali / Algoritmi dislocati fra le stelle” (pag. 16).

Luglio, 2015 vincenzo d’alessio


lunedì 27 luglio 2015

Federica Volpe su Orme intangibili

Recensione di Federica Volpe pubblicata nel blog

Federica Volpe – semplicemente poesia

Appena terminato Orme intangibili di Alessandro Ramberti, si rimane con la sensazione di essere stati toccati da qualcosa di grande. Questo libro è un viaggio, il viaggio che Alessandro fa tra le sue mille domande di uomo (universale e del suo tempo), di cristiano, di filosofo, e a cui ci invita a partecipare, pur sapendolo un viaggio difficoltoso.

Il linguaggio, infatti, fortemente filosofico, teologico, alle volte scientifico, unito ad una sintassi non sempre immediata, ci fa trovare di fronte a delle perle avvolte da un abisso oceanico da affrontare con ogni propria fibra, per poterle far riemergere con sé dopo l'apnea, a riprendere il respiro. Un viaggio di fatica, dunque, che se intrapreso non sarà più solo il viaggio dell'autore, ma anche quello di chi legge, che diventa per Ramberti l'interlocutore specchio di sé stesso.

È un vero e proprio invito la prima poesia, Premessa, che apre la raccolta. Alessandro si rivolge a chi legge, lo interroga per coinvolgerlo in quelle che saranno le sue interrogazioni. “Raccontami di te, del tuo cammino / di ciò che opprime il cuore o lo dilata, / del senso che ti sembra incomprensibile, / della felicità legata al vivere”. È, dunque, un appello da essere umano ad essere umano, di reciproca condivisione. Le domande che Ramberti pone sono dirette, frecce che colpiscono là dove l'interiorità è delicata e scoperta, ma al contempo sensibili: “Hai già trovato il modo di investirli [i tuoi talenti]? /Te li hanno derubuati, li hai nascosti / nell'angolo da cui non riesci a uscire? // Forse devi spiccare ancora il volo / trovare l'energia che ti motivi?”
Gli ultimi due versi di questa prima lirica contengono in sé tutto il senso della raccolta: “ricorda che se cerchi la tua strada / è necessario prima che ti perda”. È del suo essersi perso che parla l'autore, ma il testo non vuole essere un semplice racconto di questa dispersione: anche se non ci si ritrova, se le domande sono troppe e le risposte sfuggono, è il viaggio stesso il fulcro, la strada da trovare.

Quasi tutta l'opera (ad eccezione dei primi testi e degli ultimi due, che fanno da introduzione e da congedo) ha una struttura che si ripete e che la rende unitaria. Alessandro sembra avere due voci: una voce prevalente, rappresentata da quartine nelle quali il primo e il quarto verso rimano tra loro, ed una seconda voce fuoricampo rappresentata da singoli versi messi tra parentesi e rimanti tra loro, che interrompe e spesso disturba la lettura poiché essa va ad innestarsi negli interstizi presenti tra una quartina e l'altra, che sono spesso legate l'una all'altra da enjambement. Proprio per questo la lettura di questa raccolta è una sfida: la stessa sfida che Ramberti combatte contro se stesso, i suoi pensieri e le filosofie da lui conosciute, sperando di trovare una risposta, un compromesso che dia pace alla mente. Una sfida, questa, tipicamente umana nella quale il lettore non può non immedesimarsi.

Ogni lirica che abbia questa struttura si conclude con uno o più ideogrammi cinesi, che sembrano riassumere il testo. Esse sono come una poesia più piccola racchiusa in un'altra poesia, come la vetta raggiunta dopo l'immensa fatica del confronto con le proprie domande, come un titolo che pare essere piombato in fondo ma che rapprensenta invece il vertice, il punto d'arrivo. Stretto è il legame dell'autore con la lingua e la cultura cinesi, studiate all'Università, e questo legame si legge, oltre che nei testi che intrisi di una terminologia fortemente cristiana non si negano però ad influssi orientali, anche nella volontà che Ramberti ha di rendere la lingua italiana una lingua agglutinante, come quella cinese. Una lingua è agglutinante quando tende ad unire più morfemi, ad incollarli tra loro, tendenza che la lingua italiana, romanza e flessiva, non ha per sua natura. Ma ecco che nelle mani di Alessandro la lingua si fa creta, e nascono così delle vere e proprie parole-concetto: “riempie-emana”, “mondo-senza”, “cuore-spirito”, “essere-in-rete”, “voce-colomba”, “manto-scudo”, “la crepa-confessione”, sono sono alcune delle sue creazioni.

Il lessico utilizzato rende la raccolta particolarmente cacofonica (mi sembra vengano preferiti i suoni più grevi della lingua, quelli con un ritmo e una musicalità concreti e particolari),
una scelta che intensifica il senso di ricerca e di sfida con le domande che l'autore si pone e con la lingua che deve riuscire ad esprimerle e allo stesso tempo ad esprimere lo stato d'animo che ne deriva.
Ramberti, inoltre, non vuole tenere i campi del sapere scollegati tra loro, ma ben intersecati (e proprio per questa visione completa e non miope nascono in lui tante domande) a formare una fitta rete di pensiero. Ed ecco, per esempio, che i temi classici della cristianità sono mischiati ed inficiati dalle conoscenze scientifiche, che fanno sì che Alessandro si interroghi continuamente su questa dicotomia, cercandone la conciliazione: “cos'è alla fine l'anima – mi chiedi. / diciamo che è la sonda dello spirito: / […] porta traccia delle nostre emozioni / delle ferite aperte e anche radiose / su cui si costruisce il nostro piccolo / sapere grazie ai mobili neuroni / […] Ma in cosa differisce dal cervello? / Se questo calcola misura valuta / progetta tiene memoria connette - / l'anima lo trasforma in un cancello / […] canale di energia relazionale / inconscio serbatoio del vissuto / spazio di libertà e di decisione / del tuo essere-in-rete e personale.”

Questo lavoro, volontariamente complicato e complesso così come è complicato e complesso l'essere umano, è una sfida da intraprendere anche con sé stessi, poiché, come conclude l'autore: “bisogna uscire fuori dal sepolcro / per nascere di nuovo ma dall'alto. // Chi vola non imprime tracce a terra”. Chi volesse cimentarsi in questa sfida, scoprirà in Alessandro Ramberti un ottimo compagno di viaggio.

Francesco Di Sibio legge le Orme

recensione di Francesco Di Sibio

“Vattene” affidati all'invito folle
che fa di te il viandante del respiro
la parte delle terra più animata.

(pag. 39)

Orme intangibili di Alessandro Ramberti è un viaggio, su questo siamo tutti d'accordo.
Per me è il racconto di un viaggio intellettuale, creativo, di fede.
Mi sembra di riscontrare l'uso poetico del verso già utilizzato da fini teologi dei secoli passati.
Ci sono state figure considerate maggiormente legate alla poesia, come Dante Alighieri, altre più vicine alla teologia, come Tommaso d'Aquino.
Per Ramberti forse scorgo un'equidistanza che lo rende affine all'uomo di oggi.
Sì, perché il bisogno di riscoperta del trascendente e di una diffusa influenza poetica incombe sull'umano dei social.
Lì dove manca un elemento, va compensato.
Un viaggio, si diceva, ma il percorso è stato fatto, vissuto, sudato, sedimentato, infine narrato con l'artificio del verso poetico.
La struttura stessa, quartine di endecasillabi, rimanda a gruppi di scalini da salire, con un pianerottolo per tirare il fiato, il verso tra parentesi, ritmato e puntuale.
È un raccontare le salite effettuate, ora che è giunto alla vetta momentanea. Infatti, l'autore sa benissimo che nella vita, soprattutto nella conversione cristiana, non si giunge mai a un traguardo ultimo, ma sempre a tappe intermedie.
Tante possono essere le chiavi di lettura del titolo scelto, a me piace trovarci la diversità delle impronte che ognuno pone nel proprio percorso. La vita non è una cordata. Non c'è un percorso impostato dal primo della fila e da seguire passo dopo passo. Per chi crede, l'imitazione di Cristo non può prescindere dal calare l'esempio nella propria esistenza, nel particolare (particolarissimo esistere).
Potremmo prendere le quartine una alla volta, una al giorno. Ruminarla per scovarci dentro non il senso dell'autore, ma il nostro in quelle parole.

Per capire la poesia della Caccia bisogna soppesare le sue parole


recensione di Carmine Chiodo pubblica su Il ciottolo



Uno scritto, quello del Prof. Carmine Chiodo (Università Tor Vergata, Roma), che mi ha profondamente commossa: mi son sentita avvolta da braccia robuste e sapienti che hanno saputo pienamente comprendere il “non detto” affidato al verso. Grazie… (Angela Caccia)


È ovvio che una silloge poetica mostra la fisionomia, la cultura, la sensibilità di chi la scrive: leggendo allora questa di Angela Caccia ci si rende subito conto che si sta davanti a testi ben articolati e amalgamati, che presentano diverse gradazioni e una incessante ricerca linguistica, aspetto questo importantissimo che rende un poeta degno di attenzione. Una poesia, questa di Angela Caccia che si mostra subito originale nei suoi temi e nella lingua con la quale quei temi sono espressi.

Si coglie molto bene l'atteggiamento della poetessa verso il mondo, le cose, la sua realtà interiore, il suo modo di essere e di pensare. Dicevo prima incessante ricerca linguistica, uso di un linguaggio che esprime le varie percezioni dell'io poetante, e già dal titolo troviamo quel particolare termine “abarico” che è il verso motore di questa ben riuscita silloge poetica, termine che viene preceduto da un altro che ne rende più incisiva la funzione: “tocco", è come se la poetessa toccata da quel "dubbio" che ha quella caratteristica, dispiega sotto la sua forza determinante il suo essere lirico, realizza quindi i suoi versi, nei quali parla, ragiona, pensa una persona, la poetessa stessa che appunto determinata da quel tocco genera una poesia intima, intrinseca, unitaria, che si basa su varie immagini, metafore, situazioni che predicano l'essere stesso, la persona che -come in questo caso- dispiega la sua voce interiore e poetica in cinque sezioni.

Orbene a mio parere questa silloge si mostra ben fusa e amalgamata in ogni sua parte, e non di rado ciò si imbatte in delle immagini essenziali nelle quali sono calate certe sensazioni, riflessioni che dicono momenti di vita.
Tutto è ben disegnato e scandito e nel contempo si accompagna a una lingua piana, molto suggestiva, e al riguardo faccio alcune citazioni: “Un abbraccio questa notte d'estate/e noi abbandonati / senza più pelle /nella sua nota dolcissima e muta…” (Noi l'aurora, p. 88); “Sono nata nel mese dei morti / squillando vita / nella cordata degli anni / conobbi piccoli peccati / e la vergogna / la grazia ombrosa della timidezza / la transumanza dei sogni / in utopia” (Di stelle grezze, p. 70); “Enzo è urologo / Giulia è morta / io sono quella che / adora ancora le matite” (Compagni di scuola, p. 51).

Bastevoli sono queste citazioni per spingermi a dire che la poesia della Caccia non è rimasticatura o imitazione meccanica di versi altrui, ma possiede e mostra una sua propria tecnica versificatoria e linguistica che appartengono interamente alla poetessa.

Voglio dire questo: che per capire la poesia della Caccia bisogna soppesare le sue parole, le sue frasi, ripeterle in se stessi e vagliarle poi nel contesto generale del componimento intero, solo cosi si può seguire la voce della poetessa, le sue sensazioni, i suoi istanti esistenziali, la sua maniera di dire, di predicare, di presentare la realtà non solo quella esterna ma quella interna, intima.

Ma nella Caccia le due realtà sono fortemente fuse ed espresse con un linguaggio ad esempio metaforico che ci fa vedere le varie gradazioni e sfumature, i modi di dire le cose o i sentimenti, e cosi si vengono a concretizzare in dei versi che si confermano come riflessioni, ragionamenti che investono i diversi piani dell'io, della realtà, della presenza dell'io appunto in essa. La mente pensa e detta versi e sentimenti vari che si ricollegano a certe situazioni che pur avendo riferimenti realistici, corposi, dicono, mostrano certi stati interiori: un “sentirsi” talvolta iterato: “Noi un mare notturno / dove il cielo / all'improvviso / duplica stelle. / Noi/fuochi lenti / da spiagge immacolate” (Compagni di scuola, cit., p. 52).

Una poesia che nasce anche dalla sensibilità e dalla cultura. Mi par di capire che da molto tempo l'autrice si dedica alla poesia, alla parola poetica, da vario tempo scrive versi con esiti felici, positivi: “Ogni giorno raccoglievo con cura / le mie promesse in una cesta bucata / che puntualmente si svuotava” (Il rigo sbilenco, p. 50); “Ci scruteremo l'un l'altro / nel cicaleccio di una pizzeria / e conteremo sottecchi / rughe che non credevamo” (Compagni di scuola, cit., p. 51); “Resisti Nina / resisti da sola / così curva / in questa pozza di dolore / ci fosse un dio dei cani…” (Per i tuoi occhi, p. 31).

Sono momenti questi, di piena grazia poetica, e al riguardo non posso non citare questi altri versi seguenti: “Dentro, la tua voce / ha fatto il nido sui rami / fogliosi di noi / resto nel tuo sguardo / una pianura placida / un sogno senza scadenza / è in questa luce spersa / la tua assenza” per cui si legge poi immediatamente: “l'ombra colma la stanza”, e poi ancora l'esito finale: “sul pavimento cubi / castelli torri merli / e la mia cella” (Le labbra al bello, p. 47); e per terminare con le citazioni: “l'aria è strana stasera in paese / cielo a scacchi / notte bianca lunata / cade a latte e s'arancia in un neon / passo a passo / per le strade annottate / un giardino spigato di case.” (Mi prende per mano, p. 79).

Ciò che mi colpisce di questo libro poetico, e perciò è lodevole, è la varietà linguistica e tematica, per lo stile, e tutto ciò esplicita situazioni e sentimenti, emozioni e sensazioni continue.

Una varietà che fa apprezzare maggiormente il libro, lo fa apprezzare di più e nel contempo mostra la bravura e la sensibilità che ha la poetessa nel presentare il suo modo di essere, di sentire e di pensare ed esprimere la vita. Certo Angela Caccia ha letto vari poeti perché persona colta, ma che comunque ha saputo filtrare e assimilare né imita sterilmente. Potrei fare nomi ma – a mio parere – citare e dire quel nome quel poeta lascia il tempo che trova: non amo, diversamente da molti, dire che la poetessa procede al modo di questo o tal altro poeta oppure presenta suggestioni di questo altro poeta oppure ancora nella silloge son presenti certe movenze o echi del tal poeta… ma atteniamoci ai testi e non scriviamo tutto ciò che ci passa per la mente: i testi della Caccia sono eloquenti al riguardo e mostrano un linguaggio originale, temi originali, e il pregio di tal poesia sta appunto qui e, quindi, è poesia degna di essere ascoltata, sentita, analizzata, e per il momento prendo congedo dalla silloge citando alcuni versi che danno o, meglio, dicono la profondità e la varietà di questa poesia-racconto esistenziale che si basa talvolta su “visioni” antiche e recenti, su riflessioni, sui colloqui interiori, che generano versi come questi seguenti: “Dio è troppo in alto / perché cada su di te / la Sua ombra /… dimmi / come raggiungerti” (Vento e coperta, p. 83); “E tornano i silenzi /come gallerie / caligine sui fianchi / la testa è di medusa / digrigna i denti / sibilano serpi.” (Frammento I, p. 57), e infine: “Lasciami i tuoi occhi / vedrò il fiore minuto / e bianco tra le agavi/aprirò con le tue/le mie labbra al bello.” (Le labbra al bello, p. 47), e Angela Caccia ci fa appunto vedere e gustare il “bello” della poesia.

giovedì 23 luglio 2015

Le nuvole che sono: Gian Ruggero Manzoni


Dagli scavi di Alesia

(tutto il calore del libro)

VI

Le tortore entrarono dal cielo in quel tempio del ricordo
e lo abitarono per millenni.
Una chiesa senza tetto diviene altare che si coniuga col nome dell'intero.
Il racconto (di ciò che sembra vita) scorre sulle pareti muschiate
come fosse una via crucis, un andare della croce, un procedere di alleanze
o di tormenti... di parole, ma anche di silenzi.


Gian Ruggero Manzoni


(da Tutto il calore del mondo, Skira editore, Milano, 2013)



venerdì 17 luglio 2015

Lettera/critica di Filippo Amadei su Orme intangibili





Ciao Alessandro,


nella mail che ti avevo inviato avevo riportato quelli che a me erano parsi versi molto belli. Ora però, riprendendo in mano il tuo libro, provo a scriverti qualcosa di più strutturato perché ne sento il bisogno. Perdonami da subito per le mie brevi riflessioni, ma sono davvero impressioni molto sincere.

Questo tuo libro è innanzitutto un libro complesso e denso. Denso di significati complementari che si sposano come i colori dell'arcobaleno.Un libro sapienziale quasi, dove ragioni e ti interroghi continuamente sui grandi temi esistenziali e assoluti (l'anima, il tu altro dall'io e in verità uguale, la vita – in molte accezioni – la morte, il loro indissolubile legame). Riprendi e percorri diverse filosofie/fedi per farlo: dalla cristiana a quella orientale (non a caso gli ideogrammi)… sembra che tu chieda loro in prestito una chiave di lettura. Insomma una trama fitta di senso che nasconde un cuore segreto e che ad una prima analisi si può solo intravedere. Sono necessarie diverse letture, a più livelli per “districare” (passami il termine) i versi, quasi che il mistero sia dietro di essi e non in essi, capirne l'intreccio, entrare nel cuore. E questo perché i concetti espressi appartengono non alla realtà, ma al senso profondo che sottende la realtà, un senso da “percepire” più che da vedere, un senso “metafisico” più che fisico. E forse le Orme intangibili (le orme sempre conducono ad un punto di arrivo in cui si fermano) sono proprio i tuoi versi, eterei ma forti, i versi del tuo libro, così profondamente leggero, che vanno a costruire un sentiero di riflessione sull'essere e sul vivere, un sentiero da “sentire” con il tatto dei piedi, più che da vedere, un sentiero da percorrere col cuore prima di tutto. Ma in fondo la vera poesia è quella che prima arriva alle emozioni, ci scuote e non sappiamo il perché… e poi entra col suo significato nella mente, in quanto l'essere umano deve e vuole pur sempre capire la magia, comprenderla, spiegarla… ma ce la fa davvero?
E in questa accezione che cosa è la poesia se non una grande magia, una grande orma intangibile, capace di aprire mondi immensi nelle lievità di un foglio di carta?

Alcuni dei versi per me molto belli che mi hanno in particolare colpito:

È attraverso il sentimento e l'incontro
che ci riconosciamo: il tu diventa
presenza indispensabile al soggetto
all'unità profonda dello scontro


*
attenta a dove andiamo: anche gli errori
ci posizionano;


Congedo a pag. 59 è bellissima.


Spero di avere centrato almeno uno dei temi e delle riflessioni che hai voluto esprimere con questa tua bella opera.
Dovrò leggerla altre volte. Grazie ancora per la condivisione e scusa per le mie poche e inesatte parole.
Un abbraccio.

Filippo



giovedì 16 luglio 2015

È uscito Oltre il margine di Sergio Pasquandrea, vincitore del concorso Faraexcelsior V

Sergio Pasquandrea
Oltre il margine

€ 10,00 pp. 64 (Il filo dei versi 6)
ISBN 978 97441 64 9

Opera vincitrice del concorso Faraexcelsior 2015



Poesie così aderenti alla realtà che sanno proiettarla e trasfigurarla fino a presentarcela con tutte le sue vibrazioni e chiaroscuri in immagini avvolgenti, sensuali e musicali sempre “dirette” da una chirurgica ed empatica intelligenza del cuore.

Fra il termosifone e la lavastoviglie secerne il cartone del latte /
la sua tristezza d’ippopotamo.
(p. 16)

… meglio pensare /
che i fonemi guariscano le cesure /
possano sempre suturarsi
(p. 18)

Spero nel fuoco fermo
delle pupille – in questo laccio di parole.
(p. 25)

La linea più breve fra due punti
è la linea indifferente.
(p. 38)

Mi chiedo – ogni volta che ne vedo
una – come facciano a tenersi insieme
le libellule – come funzionino
(p. 50)

quanta bellezza si può sopportare
prima che le costole cedano?
È per questo che le poesie parlano sempre
d’altro: sono traiettorie evitate.
(p. 55)


Sergio Pasquandrea è nato a San Severo (FG) nel 1975. Dai primi anni Novanta vive a Perugia, dove insegna Lettere in un liceo e collabora come ricercatore con l’Università. Ha pubblicato la sillogeApprossimazioni (Pietre Vive/ iCentoLillo 2014) e due plaquette: Topografia della solitudine (Fara 2010) e Parole agli assenti (Smasher 2011). Di prossima uscita, il volume Un posto per la buona stagione (Smasher). Suoi testi sono apparsi in riviste («Scuola di poesia» de «Lo specchio», a cura di Maurizio Cucchi; «Gradiva»), su blog letterari (Via delle Belle Donne, Carte sensibili, Poetarum Silva, La dimora del tempo sospeso, Words Social Forum) e in varie antologie. Svolge attività di giornalista e critico musicale per il bimestrale Jazzit e per i blog Nazione Indiana, La poesia e lo spirito e Jazz nel pomeriggio. Ha pubblicato nel 2014 il libro di racconti Volevo essere Bill Evans. Storie di jazz (Fara) e nel 2015 il volumeBreve storia del pianoforte jazz. Un racconto in bianco e in nero (Arcana Editrice). Gestisce inoltre due blog: Ruminazioni e Gusci di noce.

mercoledì 15 luglio 2015

Paesi e affetti a Fiera di Primiero (a cura di Giovanna Fozzer)

qui sotto le locandine di Paesi e Affetti 2015, realizzate da Gianco Bettega. 
Con cordialità. 

Il bibliotecario di Fiera di Primiero 
Mariano Longo




Le nuvole che sono: Narda Fattori

rubrica di Silvia Castellani (autrice anche delle foto)
le precedenti “Nuvole”: Sebastiano Adernò - Sonia Caporossi - Chiara De Luca - Cinzia Demi






Nuvole e pensieri 



Gregge di pecorelle 
a pascere l'azzurro 
voi lontane e bianche 

cirri vezzosi dimentichi 
che altrove avete 
tempestato e giocato 
al diluvio spaventando 
con serpi d'energia ebbre
e rumoreggianti 

ora fingete l'innocenza 
felicità vaganti a sagome 
d'animali per lo stupore 
dei bambini per i miei 
pensieri consci in cerca 
di ristoro e di una semplicità 
lieve che prenda il volo. 

(inedito)

È uscito L'Abbraccio di Massimiliano Bardotti

opera selezionata dal Concorso Faraexcelsior


Massimiliano Bardotti
L'Abbraccio

€ 10,00 pp. 64 (Il filo dei versi 8)
ISBN 978 97441 68 7

Prefazione di Vincenzo D'Alessio

«I versi di questa raccolta hanno fondamenti storici, sono realizzati con il taglio breve; (…) il racconto esercita il suo fascinoso viaggio nel lettore accanto alla turbolenta realtà.» (dalla Prefazione di Vincenzo D’Alessio)



Ciò che siamo è una promessa. L’abbraccio del mattino
il risveglio cullando
sui rami del giorno
i sogni aggrappati.
(p. 20)

Decidi in tempo da che parte stare tribune elettorali affittate a ore parlamentari in via d’estinzione. (p. 44)

Con mani di neve raccolgo il coraggio come fosse rabbia. (p. 48)

Le nostre facce negli specchietti retrovisori del tempo. (p. 50)

Non ti arrendi mai
a essere chi non sei.
(p. 56)

Massimiliano Bardotti è nato a Castelfiorentino, dove vive, il 18/10/1976. Nel 2011 è uscito il suo libroFra le Gambe della Sopravvivenza (Thauma ed., finalista al Premio Mario Luzi), quinta opera poetica edita. Nel 2013 pubblica A cieli aperti(Thauma). In collaborazione con Genny Carusi cura la rubrica IO SONO TE TU SEI ME, sulla rivista on-line L’Olandese
Volante
. È ideatore e docente del laboratorio di scrittura ri-creativa Cut-up, La Sartoria delle Parole.
Con Giacomo Lazzeri e Sara Giomi (musicisti) porta avanti il progetto LaMinimaParte, musica e parola
che si incontrano e diventano teatro. È presente in Letteratura… con i piedi (Fara 2014) e in numerose altre antologie, oltre che in blog letterari e social network.

martedì 14 luglio 2015

Note di viaggio verso un mare senza tempo

recensione di Fulvio Sguerso 
pubblicata ne Il Ciottolo 
dalla rivista online TRUCIOLI SAVONESI 



Questa nuova raccolta di versi di Angela Caccia si presenta fin dal titolo (Il tocco abarico del dubbio, Fara Editore, 2015) come un itinerario di scoperta o disvelamento del senso dell’esistere, nel quale si inscrive, ontologicamente, l’inquietudine agostiniana (inquietum est cor nostrum…) e pascaliana tra l’infinito essere e l’infinito nulla, e talora “uno spazio abarico dove / ogni cosa è demandata” e “– tiene duro solo la volontà –” (Sei letti), e quel male di vivere spesso incontrato da Eugenio Montale e da grandi anime sensibilissime e infelici come Simone Weil, Virginia Woolf e Amelia Rosselli, nonché dall’autore del Salmo 68 (… l’acqua mi giunge alla gola / Affondo nel fango e non ho sostegno; / sono caduto in acque profonde…) e di cui anche ci parla quel detto di Anassimandro “iscritto sulla pietra di confine della filosofia greca” che ha dato da pensare a Nietzsche: “Non sarà logico, ma è certamente molto umano… considerare ora con Anassimandro ogni divenire una castiganda emancipazione dall’eterno essere, un’ingiustizia che dev’essere espiata con la morte. Tutto ciò che un giorno è nato, un giorno anche perirà…” (La filosofia nell’epoca tragica dei Greci) e ad Heidegger: “La traduzione più letterale del detto dice: ‘Ma da ciò da cui per le cose è la generazione, sorge anche la dissoluzione verso di esso, secondo la necessità (katà tò khreòn), esse si rendono infatti reciprocamente giustizia e ammenda per l’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo’… Noi andiamo alla ricerca di ciò che fu greco non per amore dei Greci, né in vista d’un progresso della scienza e neppure allo scopo di rendere il dialogo più rigoroso; ma lo facciamo esclusivamente in vista di ciò che in questo dialogo potrebbe giungere a farsi parola, nel caso che vi giunga in base a sé stesso. Si tratta di quel Medesimo che, in maniere diverse, investe, in conformità della sua struttura (geschicklich), i Greci e noi. Si tratta di ciò che porta il mattino del pensiero nel destino (Geschick) della terra della sera” (Sentieri interrotti).

Il mattino del pensiero greco sembra proprio che faccia parte del nostro destino di “occidentali” sempre più prossimi al tramonto. Ebbene, anche nei versi e nelle prose poetiche di Angela Caccia traluce quel destino “secondo cui l’essere stesso si illumina nell’ente e pretende un’essenza dell’uomo (e della donna, ndr) che, in quanto conforme a questo destino, trova il suo corso storico nel modo in cui essa è custodita nell’essere o da essa dimessa, senza tuttavia esserne mai separata”. Non ci si può dimettere da quello che siamo (stati) neppure morendo: “Morire d’emblée / sottrarsi alla sacca / del tempo che / tacca lo sguardo // lasciare ammassati in ripiani / gomitoli di sogni / ricordi…” (Le braccia allungate); morire è impossibile per chi non è mai nato, senza la vita non c’è nemmeno la morte dato che: “Vita morte / indissolubile diade / e i nostri occhi impigliati nei suoi fili…” (Nello sguardo di chi resta). Questa indissolubile diade forma come la trama, l’intreccio tematico-musicale che ritorna in quasi tutti i versi in metro libero e nelle prose del “Caro Libello” a cui l’autrice confessa, in una lettera a lui indirizzata come fosse una persona (o, meglio, un personaggio), come e perché non ha poi preso da lui il congedo che sembrava ormai deciso: “… Ho provato a salvarti. Avevo un buon consiglio da usare per scandaglio: uno scritto è valido se, anche l’indomani, lo regge la forza della sua autenticità. Solo allora varrà la pena continuarlo. E continuarlo fino a quando il testo sarà rivelazione di una visione, intima reale, a cui, chi scrive, è legato come da un patto di fedeltà.”

La visione quindi preesiste come una meta nell’anima (nell’inconscio?) dell’autrice, la quale non può fare a meno di cercarla, o meglio, di ritrovarla in uno spazio “abarico”, cioè senza peso, al di là delle determinazioni e dei confini spaziotemporali entro cui accade e si svolge, nel bene e nel male, la vita di ognuno, e di riconoscerla come la visione del principio che dà origine al divenire stesso ma che non vi si identifica, altrimenti perirebbe anch’esso come tutte le cose che divengono: “Chi videro quegli occhi spalancati / nel varcare il confine? / Una parola d’amore / una bestemmia / cosa impastò per ultimo la bocca? // A noi, strati di tempo, / memorie ancora da colmare / il difficile piacere del dubbio”. Di quale dubbio si tratta? Di un dubbio sospeso “abaricamente” tra speranza e disperazione; la speranza è “che sia finta / la frontiera su quel crinale / se chi muore chiede conto / della propria morte / a chi resta”; la disperazione è non poter rispondere alla domanda muta negli occhi di chi muore, uomo o animale (“ci fosse un dio dei cani…”), è non avere “parole sacre / per i tuoi occhi / stelle senza capanna / sullo stesso meridiano dell’umano: / privilegio di chi vive / è la morte” (Per i tuoi occhi).

La disperazione è quando non si scorge nessuna buona ragione per vivere, quando l’esistenza stessa è vissuta come una colpa da scontare con la morte.
Ma la morte, per l’autrice di questo poetico viaggio, che è anche un cammino euristico del dubbio e della disperazione, non può essere la meta della vita: e difatti la speranza rinasce, ora dinanzi a “Tre rosai impettiti / scoppiettanti di bocci // … bisognerà che scavi / nelle consonanti / tra le vocali / associate al suono / odori canto immagini / dovrò annaffiare parole / che rifioriscano reali / nella penna / tra le mani; // camminare a ritroso sulle mie sponde / sulle orme di ieri risparmiate / dall’onda… // ripetere più volte / Padre nostro Padre nostro / senza mai disgiungere / l’aggettivo dal nome; / ricordarsi di riposare: / la meta un’illusione / solo una carota / per riprendere il viaggio” (Propositi); ora leggendo Rilke: “… profumo di stanze segrete / quanta anima fa la tua atmosfera // elegante il mistero / un velo che ti è carne / e un tratto d’allegria // leggero / è cederti ognuno / il suo essere nel giorno / per sperdersi nel tuo mare / senza sponde” (Sera); ora quando urge l’ispirazione: “Ho da scrivere una poesia / lo sento…/ Non ho un tema preciso / non un piato da cui / spigolare un verso…// scala la ringhiera l’eco del fuori / inverdisce e mette in fiore / parole // sanno di libertà / di mare / - una goccia e / m’azzurrerei le mani” (Nella mia pozza); la poesia (come le mele di Cézanne o il Chiaro di luna di Debussy), non ha finalità pratiche, la parola poetica, come dice felicemente l’autrice “è quella parola che, per fortunate o abili combinazioni, dà più di quanto dice”. Tanto è vero che: “Le nostre parole, tutte, / rimarranno alla soglia / – servissero a costringere, a legare / l’aria ai polmoni!… – le poche / saranno un sottovoce perché / il fondale muto non si sconvolga. // Ma se muore un poeta, Signore, / concedigli che il silenzio più ottuso / si faccia canto di una vita / alla vita che non muore e / si sposta altrove…” (Se muore un poeta). La poesia per Angela Caccia, non è, evidentemente, un mero esercizio letterario, anche per lei, come per Christian Bobin – uno degli autori da lei citati (gli altri sono Fernando Pessoa, R. M. Rilke, Pablo Neruda e Guido Passini) – è l’esperienza spirituale della vita, la più alta densità di precisione, l’intuizione accecante che la vita più fragile è una vita senza fine”. E la morte? Oltre a essere un “privilegio” che tocca solo ai viventi è una linea di confine che possiamo valicare in ogni momento (“divelto il piede da terra / basterà un solo / colpo di reni e voilà…”); una linea di confine che, nondimeno, è parte integrante dell’umana natura e che sta lì a ricordarci che siamo pur sempre esseri finiti aperti sull’infinito.

sabato 11 luglio 2015

Orme intangibili: un percorso che contagia

di Carla De Angelis

Caro Alessandro, ti invio la mia nota di lettura sul tuo libro Orme intangibili, forse è più una lettera, una riflessione prima dentro di me poi ad alta voce infine scritta.


Appena ho ricevuto il libro Orme intangibili l’ho letto tutto d’un fiato con avidità e subito ho avuto il desiderio di scrivere le emozioni e il tumulto di sentimenti che mi aveva suscitato. All’atto pratico, però, sono rimasta con la penna in mano perché ho capito che dovevo rileggere con calma una poesia alla volta e dare il valore che meritava a una scrittura così corposa, forte e colta, ma che Alessandro Ramberti ha saputo rendere godibile a tutti. Così sono andata In cerca ed ho trovato Pietrisco ed altri libri che hanno segnato anche il mio percorso. Orme intangibili mi ha riportato indietro nel tempo, è stato come riscoprire antichi gioiosi cammini, dove l’attesa e la speranza erano tangibili (pag. 26): 

Perché questo contendere e lottare 
questa inquietudine continua questa 
volontà di procedere ed agire 
senza potere nulla conservare?

(Fiducia è
sempre ascolto)

Io posso valutare se fermarmi
o fare avanti e indietro sulla soglia:
il paradiso è un varco da scoprire
né il male che mi insidia può annullarmi:

(il seme dà il raccolto)


Perfette quelle parentesi destinate a incidere, a sottolineare il poeta filosofo che è il Nostro e che trasmettono al lettore la voglia di sentirsi parte del libro ( pag. 29) : “Nessuna strada è data a chi si arresta / sui suoi passi la storia corre sempre: / le genti si dislocano e il migrante / è il simbolo vitale che l’attesta.  // (Lo sciame si avvicina.)”

È stato molto bello leggere un percorso spirituale che contagia ogni lettore, tanto che io mi sono ritrovata bambina a percorrere la “Scala Santa”; per questo ringrazio Alessandro Ramberti che con la sua passione e l’amore per il prossimo ha saputo toccare e riportare alla luce i sentimenti più profondi che spesso l’avventura della vita seppellisce (pag. 43): “Chi troveremo là se non chi abbiamo / gratuitamente aiutato? Quel prossimo / magari senza nome ci verrà / incontro e ci rivelerà chi siamo // (la grazia è proprio questo).”


Roma 11 lug. 15, festa di san Benedetto