Pubblicato il 11/11/2014 12.00.00
[ Recensione-saggio breve di Adele Desideri ]
Umberto Piersanti è nato,
nel 1941, a Urbino - “dove vive e insegna all’università”.
Ha pubblicato diversi romanzi e
prestigiose raccolte poetiche,tra le quali è da segnalare un “trittico” per i
tipi di Einaudi. “Autore di film”, saggista,“operatore culturale, organizza
eventi spesso legati alle radici della sua terra d’origine”.
Cupo tempo gentile, romanzo autobiografico, narra le vicende del giovane Andrea Benci, che
- nell’autunno del 1967 - si avvicina al Movimento studentesco di Urbino e vi
rimane attivo -madissidente e accusato di decadente, reazionario revisionismo
- fino a dopo il termine della formazione universitaria:nellesueintime
aspirazioni c’è, infatti, la volontà di costruire un “tempo più gentile”;
proprio mentre, invece, il cupo tempo della violenza della sinistra
eversiva e delle stragi della destra neofascita si va preparando.
La prosa scelta da Piersanti
alterna lo sboccato, tribale, linguaggio quotidiano della gioventù degli anni
Sessanta-Settanta a un dettato colto, raffinato, prossimo alla saggezza deipiùantichi
maestri.Nei monologhi interiori di Andrea, Piersanti tesse poi incisivi,
timbrici dialettismi: “il sole scende lento sopra Cartoceto, si posa su una
collina tra gli olivi, quasi sguilla giù per la discesa”.
Intensi e ben calibrati si intrecciano i
dialoghi,che mettono in scena il clima politico dell’epoca: i disegni
oltranzisti e quelli moderati; gli eccessi e i tentativi inutili di porre
misura ed equilibrio alle troppe, vuote, paroleinfuocanti il Movimento; i
silenzi dubbiosi, perplessi, di Andrea.
Egli apprezza i temi
fondativi della sinistra europea e italiana e critica la società iniqua e
ottusa a lui contemporanea, tuttavia lasuaè essenzialmente un’anima da
letterato - amante, in primis, dell’arte e della natura. Andrea è un
temperato intellettuale di sinistra, e il disagio di appartenere al gruppo
degli studenti rivoluzionari si fa presto evidente: “Ahimè, io sono
d’un’altra razza, c’è il mare e i campi”…
Andrea vive in bilicotra due opposti
universi:il passato - denso di pregiudizialibigottismi,eanche di valori
giusti e certi - e il presente,che propone innovazioni culturali e sociali,
marischia di perdersi in un’ideologia schizoide, sanguinaria,
assolutista.Resta così immerso in un continuum di scettici, cruciali, quesiti,
fino a capire, solo all’ultimo, quanto del vecchio mondo è da rifiutarsi e
quanto del nuovo è da accogliere: “Stalin campeggiava nei manifestini dei
marxisti-leninisti (…) tra Lenin che lo precedeva e Mao che lo seguiva. A lui
invece sembrava che quel cammino del PCI verso la ‘democrazia formale’ fosse
inevitabile: anche perché, senza quel ‘formale’ così disprezzato dal
Movimento, c’era la dittatura, certo ‘del proletariato’, ma pur sempre
dittatura. E allora cosa ci faceva lui nel Movimento? Era quell’entusiasmo
che lo affascinava, quei ragazzi pieni di speranze, anche di sicurezze”.
Inoltre, l’educazione
affettiva di Andrea è tradizionale, pudica, non ancora del tutto segnata
dagli scossoni della rivoluzione sessuale, dalle intuizioni della
psicoanalisi.
Le donne sono,per Andrea, sia
voluttuosamente invitanti, sia sempre lontane, sempre da conquistare. È
distante, Andrea, dalle comuni, che visita solo per mera curiosità:
“mettere in comune le cose e i corpi, no… (…) lui non vorrebbe mai che una
sua donna gli si rinchiudesse davanti, in una stanza, a scopare con un altro…
(…) un po’ di gelosia, sì è umano… santa madonna se è umano… loro sono
primitivi, comunismo primitivo”.
Andrea è pure diffidente nei confronti
dei gay; lo stesso termine “omosessualità” - accostato magari al concetto di
latenza - gli pare “inquietante”. Le sue riflessioni in proposito sono
illuminanti: “Ah, questo è troppo, che ci sia qualcuno che vuole andare a
letto con i maschi, bene, ma che tutti vogliono questa roba, no, è troppo!
(…) a me un maschio nudo mi fa quasi schifo”… “non che la chiesa abbia
ragione… però che siano completamente normali…“.
Andrea, invero, non è né rozzo né
ignorante, e riconosce alle donne e agli omosessuali di essere gli
unicichesanno dare respiro alla “vita”, alle “emozioni”, ai “sentimenti”;
ipotizza addiritturacheloro siano, in effetti, “il meglio del Movimento”.
In particolare, Andrea è
affascinato dalla naturachevive e palpita sulle Cesane:ne individua ogni
forma, ogni colore, ogni suono; in controluce vi legge le proprie
fibrillazioni, le proprie oscurità.
E - nel descrivere quella e queste -
Piersanti affonda la penna, come già in moltiprecedenti libri, nella cifra
poetica: “era un pomeriggio chiaro di febbraio, la chiostra dei monti
luminosa e perfetta; sul Catria intravedevi il verde dei grandi prati appena
sotto la neve e il Nerone con le sue costole grigie d’argilla e i boschi
verde scuro perfettamente disegnati dentro l’aria. Su, nei muri del vecchio
ospedale, l’antico convento di Santa Chiara, erano fiorite le violacciocche,
fitte tra le pietre”.
Perché Andrea-Piersanti è figlio di“Ca’
Mandorlo, sotto le Cesane alte, oltre la Torre, verso Scotaneto. Lì c’è la
casa dei suoi antichi autunni e delle estati lontane”, la casa dove sono
custoditi isuoi più cari ricordi d’infanzia.
Si sofferma allora, Piersanti, sul
glicine pasoliniano, opposto all’umile favagello appenninico, nel quale -
insieme a Andrea - si identifica: “E per lui il favagello in quel momento era
come il glicine per Pasolini: la verità eterna delle cose che nascono,
crescono, muoiono e si rigenerano, incuranti del tempo e della storia. Segno
di quell’energia, di quella pulsione di vita che sta in fondo a noi, più
forte di ogni ragione e di ogni storia”; il “favagello campestre e
appenninico, medioevale o quattrocentesco come le pievi sparse per la sua
terra”. Tuttavia, se Pasolini “la vita la viveva fino allo spasimo, anche la
sua tenerezza era totale e disperata come il dolore e il piacere che lo
squassavano senza mai piegarlo”, Andrea-Piersanti “invece sognava
l’equilibrio (…) d’una armonia delle sfere, d’alberi e cieli”.
Nella sensualità della natura e della
donna Andrea, in realtà, si riconcilia con se stesso, trova requie, e
Piersanti vi aderisce con uno stile altrettanto sensuale, fortemente lirico:
“Giulia stava nuda e possente alla finestra e lui, lui ci si era stretto da
dietro, piccolo e meschino, a quel corpo stupendo che l’aveva accettato e
accolto con un fremito intenso e pacato: tra i capelli della donna Andrea
scorgeva lì, quasi attaccata, una luna enorme sopra le tenere e struggenti
colline umbre”.
Eppure, si riscontra tra le righe vergate
da Piersanti, nei pensieri di Andrea, un’insinuante difficoltà a lasciarsi
andare lungo i misteriosi percorsi dell’amore, a farsi coinvolgere totalmente
dal trasporto affettivo nei confronti della donna: “lui non era come Don
Giovanni che le donne le odiava e ingannava, lui era più come Casanova (…)
perché ognuna gli piaceva e in qualche modo l’amava, incarnazione di
quell’archetipo femminile che aveva lì stampato nella testa (…) le donne gli
piacevano senza troppo rancori e contrasti”.
E così Andrea-Piersanti pare ispirarsi a
una sorta di sobrio paganesimo, nel quale la natura e il genere femminile
sono quasi divinizzati, l’erotismo è un lieto, gustoso, rito festivo, l’ars amandi essenziale nella vita e nella poiesis: “Sì, la fuga, una fuga pagana e carnale (…) era il suo modo di sentire
e mordere le cose”.
Importanti, inoltre,
in Cupo tempo gentile, sono gli accenni agli artisti
apprezzati da Andrea-Piersanti: rappresentano una concreta, autentica visione
critica della letteratura, della pittura, dell’architettura, della musica,
redatta dal “più tradizionale dei poeti”.
Aspro, e improvviso, è il commento su
Dario Fo: “Lui è sempre preso da ciò che è più a sinistra della sinistra (…)
ha fatto il repubblichino da ragazzo, e questa non è una colpa, così giovane…
ma un po’ di mentalità assolutistica gli deve essere rimasta dentro, lì,
conficcata nel cervello”.
Invece, i poeti prediletti - non quelli
dell’avanguardia e dello sperimentalismo - si avvicendano come fossero
mostrati nelle pagine d’una pregiata antologiadi classici dell’Ottocento e
del Novecento: Verlaine, Proust, Manzoni, Leopardi, Carducci, Pascoli,
D’Annunzio, Gozzano, Montale - “quello della Casa dei doganieri e dell’Anguilla, due delle più belle poesie del secolo
(…) quelle due liriche equivalogno (un po’ meno, d’accordo) ai vertici di
Leopardi, al Passero solitario e A Silvia”.
E poi, “Luzi, Sereni, Caproni,
Bertolucci”…
Accurate e moltepilici sono le
descrizioni di quadri, affreschi, chiese, castelli, della stessa Urbino,che -
nell’inconfondibile tessitura di Piersanti - celebra un commovente, attuale
prestigio: “Urbino ha una bellezza segreta e quasi modesta nei suoi interni:
però all’improvviso questi s’aprono (…) su scenari grandiosi e stupendi (…) è
l’unica città del Rinascimento tutta verticale: i torricini del palazzo, il
campanile e la cupola del duomo, il campanile di San Francesco (…) Qui c’è un
sapore fiabesco: e poi Laurana, l’architetto, era dalmata e nei torricini si
ricorda dei minareti (…) Urbino per come è strutturata non è democratica (…)
è nata nella testa di un principe illuminato che ha messo a profitto i suoi
guadagni di condottiero mercenario”.
Ma si avvicina la chiusa del
romanzo: Andrea osserva in prima persona - a Milano, e poi a Urbino - la
violenza ormai dilagante provocata dalle diverse fazioni di sinistra e di
destra. E comprendechedavvero “la rivoluzione (…) vuol dire sangue”.
Andrea se ne distacca, con acuti sentimenti
di tristezza, “rabbia e paura”, però anche con la solida certezza delle
proprie radici, della propria specifica formazione culturale: “Non lo so se
sono un rivoluzionario, ma urbinate, italiano, europeo e occidentale, questo
lo sono sicuramente”.
Rimane l’esperienza, rimangono gli ideali
e la speranza di preparare comunque un tempo più gentile. Rimangono alcune figure politiche
indelebili,tra le quali - non avrebbe potuto non esserci - “el Che”,con i
suoi limiti, con il suofascino: “lui è al di sopra della lotta di classe, è
come un santo o un apostolo, ma un santo e un apostolo armato, che armato è
vissuto e da armato è morto”.
Allora Andrea fa di nuovo
visita al padre e alla madre, e finalmente - dopo tutto quel lungo, cupo tempo - “è come se (…) fosse ritornato figlio, in tutto, anche
nella conoscenza”.
Ed ecco, finalmente, “Andrea si sente a
casa”.
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