venerdì 26 settembre 2014

Su Il centro del mondo di Domenico Cipriano

Transeuropa, 2014 

recensione di
Vincenzo D’Alessio 
 
http://www.domenicocipriano.it/bibliografia.htm
Il giovane, che aprì il corso della sua vita poetica pubblica con la raccolta Il continente perso (Fermenti Editrice, 2000), di sé scriveva: “(…) Dell’infinità di questi luoghi / vesto profumi e parvenze / ti attendo, ispirazione, a denudarmi” (pag.15). A distanza di quattordici anni consegna ai lettori la raccolta Il centro del mondo (Transeuropa, Massa, 2014) rinnovando la sua poetica e consegnando alla contemporaneità la faticosa strada del viaggio, filtrato dalla luce di “(…) una finestra per il sole, senza un confine netto / tra vivere e sperare” (finale, pag. 123).
Non è facile accedere a questa possente raccolta che pone come centro del mondo immaginato dall’Autore la più semplice delle sue creature “l’Amore”: vale la dedica alla piccola figlia Sofia che precede le epigrafi introduttive alle sette sezioni che compongono la raccolta (non a caso il numero 7 è scelto per amore della musica richiamata come compagna nell’ascolto dei versi). Si procede lungo le sponde del fiume (nell’immaginario il grande Mississippi) ai confini del “sogno” vagheggiato dai grandi protagonisti del trascorso Novecento: per primo il profeta Pier Paolo Pasolini, richiamato nell’epigrafe/chiave apposta all’inizio della raccolta, seguito da Cesare Pavese, Elio Pagliarani, Maurizio Cucchi, Po Chu-I, e agli scrittori Lev Tolstoj e Italo Calvino.
Per quel sogno sono morti uomini sinceri, onesti, veri! Richiamo alla vostra mente solo alcuni nomi del secolo appena trascorso: Renato Serra, Martin Luther King, John Lennon, Mahatma Ghandi, Nelson Mandela. L’invito posto in essere dell’Autore è di raggiungere, mediante i suoi versi, la forza centripeta che tiene in vita l’equilibrio del nostro mondo. Una faticosa forza, invisibile agli umani, svelata a fatica ai poeti: “Due colmi pezzi di mondo / assopiti si guardano, stretti / alle radici. (…) / Il sapere / che urla dalla voragine / produce vertigini, rende / il nostro vivere vergine” (pag. 9). La condizione esistenziale che se posta in essere darebbe vita ad un pianeta Terra bellissimo, in armonia perenne tra esseri viventi ed energie ancora nascoste ai sensi degli esseri umani.
Una energia che chiamiamo spesso “passione di vivere” che per il Nostro si svela nei versi che seguono: “(…) È quel bagliore, che si insinua vorticoso / oltre la forza decisa delle ossa, / ad aprire un nuovo varco sotto pelle, / a rinominare infinito suono delle cose, / di quell’oceano che si nasconde eternamente / dentro al volto immobile dei monti” (pag. 13). Rivive il “paradiso terrestre” dell’Antico Testamento: l’uomo chiamato di nuovo a dare nome agli animali e alle cose che lo circondano. Un rinnovare all’infinito la forza vergine della creazione. Sfiorare con lo spirito la superficie dell’oceano di nuvole, o pensieri, per raggiungere la terra ferma dove si compone la vita. Il poeta scrive a tal proposito: “Disteso sui miei sensi penso” riprendendo i fondamenti filosofici del pensiero cartesiano cogito ergo sum ed intensifica la potenza del pensiero poetico di fronte alla fragilità ontologica dei viventi: “(…) Nemmeno i corpi uniti nell’amore / e racchiusi in un respiro solo sanno dire / dell’immenso in cui mi perdo ora” (pag. 13).
Riecheggiano nei versi di Domenico Cipriano i versi de L’infinito leopardiano, scritti nella visione dei luoghi naturali vissuti, trasfigurati dalla luce eterna della Poesia. Questo accade all’Autore che si è denudato della versatilità iniziale, dopo il lungo e faticoso viaggio nel deserto del vivere nelle città del mondo, per giungere al villaggio natale assunto affettivamente come luogo di origine della conoscenza poetica e centro della ricerca, con sofferto sgomento, del mondo “ancora sconosciuto” (pag. 14). Bisogna procedere lentamente nella lettura dei versi del Nostro per i richiami fonetici, le rime interne, le allitterazioni chiamate in causa per ritenere i codici mnemonici; riporto ad esempio: i lampioni, la casa, la candela, il cemento, le autostrade.
I versi delle poesie hanno corpi diversi. L’autore ricorre all’enjambement per aiutare il lettore a seguirlo. La poetica non scade nel personalismo ma abbraccia il respiro dell’intero esistente: si pone osservatrice al centro di un mondo metafisico chiamato Irpinia ma che rivela invece i caratteri universali dell’inesauribile ricerca del perché noi siamo: “Esistiamo perché mutiamo. (…) / (…) Così, solo le cose ferme ci ricordano / dove siamo già esistiti, / (…) e questo morire eternamente / è il volto stesso che la vita ci consente” (pag. 79). L’energia poetica scorre forte nel nucleo centrale della raccolta: energia nascosta a chi non legge con profonda passione, umiltà, empatia per la condizione umana che ci accomuna, felicità di imprimere un raggio di luce nuovo alla poesia contemporanea: “(…) Ma questa mia mancanza non mancherà / nemmeno alla fessura aspra della morte / tra le nebbie che offuscano e distorcono. / È un’assenza lieve che si oppone / per non avere forza di redimere i passi sulla neve / ora che il sole spira tra le cicatrici, la paura ci consuma / e appare vano appartenere al mondo” (pag. 80).
La voce del critico vorrebbe restare neutrale e riportare francamente i contenuti universali della raccolta di Cipriano ma la poesia che anima il percorso della mia esistenza “si oppone” e si nutre alla felicità per questa creatura poetica scaturita dalla verginità del Nostro. La dolorosa nemesi che ci accompagna dalla venuta al mondo assume nei versi di questa poesia la levità del respiro della nascita. L’ossimoro “mancanza non mancherà” rivela che “la fessura” che ci costringe al dolore verrà dominata dalla forza creatrice del sole, simbolo di rigenerazione naturale continuità di vita, metaforicamente la forza dei versi che testimonieranno nei secoli il: “ti voglio bene”. Che viaggio strepitoso, pieno di valori, di memoria, di profumi, di realtà locali e mondiali, di umanità presa a confronto! Il poeta irpino Domenico Cipriano ha aperto la sua valigia ricolma di “saggia maturità”, come scrive Maurizio Cucchi nella postfazione, per condividerla con il lettore.
L’amore per le città invisibili del viaggio poetico, per le radici inestricabili della memoria collettiva, per gli affetti personali insostituibili, sono una contaminazione inscindibile: “(…) con sobria umiltà tenace, e non tanto in uno scavo di se stesso o del proprio essere, per nostra fortuna, quanto, più generosamente, nel senso sempre nuovo, variegato e sorprendente (all’occhio di chi sa ben vedere, oltre la superficie, s’intende) del mondo” (Postfazione, pag. 125).

giovedì 25 settembre 2014

Su Il passo verde di Vincenzo D'Alessio


da  Opere scelte,  a cura di Alessandro Ramberti, FARA  2014
recensione di Emilia Dente 

Il passo verde

http://www.faraeditore.it/nefesh/Operescelte.html
È l’urlo taciuto nel ventre della bara  il respiro profondo dei versi dalessiani  custoditi ne “Il passo verde”.  L’urlo taciuto che echeggia aspro e dolce nei versi intessuti di  malinconica dolcezza, nell’abisso del tramonto dove l’albero del dolore regge i sogni a malapena. Antonio, figlio amato, bello per sempre di fronte all’Eterno, attraversa con leggerezza  la melodia dei versi, e sorride  distante, ma mai  lontano, perduto e ritrovato concerto di mare verso le sabbie dorate di Camerota,  nell’alito vitale della poesia, quella poesia che  è respiro /  tiene in vita / soffia dentro / malinconia di sogni. E allora, nella rugiada  dei versi  meglio è sentirti con me / immergere gli occhi nel cielo / limpido delle terre verdi / dove siamo nati, Antonio / sussurra il padre, sussurra il poeta, che riconosce, pure nel buio del più profondo dolore, che il temporale grida dentro le montagne, si arrende a quella Energia della vita che non si può fermare, e, teneramente  ricorda stamane eravamo / usciti con il passo verde: non temere il buio/ quando arriva l’alba.
E nel chiarore velato dell’alba  che faticosa emerge dal buio, il passo verde attraversa il  cammino dei versi lacerati dalla vita, inerpicandosi per i sentieri scoscesi e duri della sua terra, il Sud di miseria e tradimenti, dove pure l’alba è nuova, come già , anni prima, diceva il  poeta e scrittore lucano  Rocco  Scotellaro che D’Alessio, sin dall’incipit della silloge, chiama  accanto a sé, faro nella tempesta della tormentata scrittura. Si incontrano così, per questi tormentati sentieri, tanti giovani del Sud, quei giovani che Sciamano / rondini anonime  dal deserto / delle nostre terre / pugni stretti ai fianchi solchi / sulla fronte portano la dignità / dei sogni avuti al sole, i giovani che vanno via, come Carmen Giannatasio, usignolo vestito d’umano, eccezionale soprano, voce limpida dalla terra dei lupi, orgoglio della terra meridionale, applaudita nei teatri del mondo, o Giovanna Iorio, scrittrice e poetessa, che, dalle sorgenti delle  parole amare  della terra meridionale ha fatto sgorgare meravigliosi canti lirici. Ma anche i tanti giovani che restano, i tanti poeti irpini avamposto nella neve, che hanno posto il cuore  alle radici dell’ulivo, e resistono con la fiducia che  i semi / nell’alito del seno / portano il pane. Negli occhi   e nel cuore dei giovani del Sud, di tutti i giovani del Sud  l’onore mai smarrito si colora del verde vitale dei monti, degli alberi maestosi e della natura, cornice, sfondo e dirompente essenza dei versi. L’onore  e l’amara forza dei giovani del Sud ha la limpida tenacia dell’acqua che sgorga dalle sorgenti antiche, il respiro infinito dell’azzurro  cielo di luglio nell’alito rovente  di una avara zolla d’amore.
Un tormentato  ed amaro canto d’amore e di speranza questa silloge poetica di Vincenzo DAlessio in cui l’irruenza del sentire si riflette nella fluente intensità dei versi, e  in cui la scrittura non trova il sollievo della pausa, ma ha l’affanno  implosivo della verità e della lotta. E la voglia, sempre di camminare / nei vicoli affaticati d’umiltà per sentire ancora, sempre il passo nascosto del Dio della vita.

mercoledì 24 settembre 2014

Sofferenze e mali del mondo d'oggi: "Neoplasie civili" di Lorenzo Spurio, il commento di Marzia Carocci

Recensione a “Neoplasie civili” di Lorenzo Spurio (Agemina Edizioni)

a cura di Marzia Carocci


Nessun titolo, poteva essere più indicativo di questo: “neoplasie civili”, tumori e metastasi di una civiltà malata, contorta, deviante.
Lorenzo Spurio, attraverso questo suo itinerario poetico, mette in evidenza l'osmosi di un tempo dove l'umano è fautore dell'errore, del male, dell'ingiustizia.
Ogni sua lirica ci indica quelle piaghe che rendono il nostro modo di vivere, cicatrici di egoismi e di soprusi, di illegalità e di crudeltà.
Spurio non si allontana mai da una verità che al lettore può far male perché vera e vissuta come spettatori di un tempo fuorviante dove non c'è spazio per l'onestà, per la solidarietà e per la comprensione.
L'uomo si inerpica da sempre per predominare e da sempre si concentra su l' egocentrismo dove mai da spazio al sentimento se questo non fa parte del proprio io, anzi schiaccia il debole, il dimenticato, l'emarginato.
Lorenzo Spurio sottolinea con pathos di forte coinvolgimento, gli eventi del nostro tempo facendone cronache/poetiche dove la parola ben scelta, avvalora ed esalta le particolarità, sia che si tratti di razzismo, di guerra, d'immigrazione, di violenza, di pedofilia, di mala/politica; egli non abbassa mai il proprio rammarico, anzi, lo urla, lo intensifica, lo evidenzia attraverso un linguaggio poetico dove la metafora porta in alto l'essenza di un pensiero ben ancorato che piano piano, attraverso un'attenta lettura, entra nel nostro stesso corpo dove la rabbia, l'impotenza e la vergogna ci fanno partecipi e spettatori di un mondo che ci appartiene e che si ritorce contro noi stessi attraverso quella freddezza che è ormai diventata parte del nostro vivere quotidiano. Le poesie di questa silloge, parlano e rigettano quelle neoplasie che si estendono a macchia d'olio dove l'uomo ha ormai deciso di sopraffare e di stuprare ogni bene, ogni giustizia, ogni buona causa; cancri maligni che bruciano ogni cellula di costruzione, di pace, di condivisioni sociali dove il potente decide e l'ultimo, il diverso, l'umile, si piega .
Lorenzo Spurio, non è solo un buon narratore ed un ottimo critico letterario, ma un poeta che dell'idioma coglie l'importanza e ne fa mezzo d'informazione mantenendo comunque, l'emozione e la sensibilità che è parte di un cammino letterario/ poetico stesso.
Una lettura che si fa riflessione, analisi e ragionamento dove la poesia parla, informa e diventa forza e stimolo ad un cambiamento, ad una rivoluzione pacifica ma allo stesso tempo incitazione a una ribellione di pensiero, di metamorfosi affinché vi sia positivo cambiamento e che ciò diventi cura dell'uomo e dei suoi mali dove ogni neoplasia si sciolga e si disperda per sempre! 


Marzia Carocci


Firenze, 21-09.2014

giovedì 18 settembre 2014

Ma sempre ti perdo mia vita di Maria di Lorenzo

 



Miei cari amici,  

vi annuncio con gioia che oggi esce il mio nuovo e ultimo libro, Ma sempre ti perdo, mia vita. Sono molto grata all’editore Alessandro Ramberti, patron di Fara Editore, per aver creduto in questo testo letterario e dico il mio grazie dal profondo del cuore alla scrittrice Simona Lo Iacono che ha firmato una splendida ma soprattutto profonda e precisa prefazione. Vi affido questa mia opera, l’affido alla vostra lettura sensibile e attenta.
Poiché non pubblicherò nuovi libri nei prossimi anni, non vi nascondo che questo libro che esce adesso riveste per me un significato del tutto particolare.
Ho pubblicato tanti testi, come voi sapete, ma nella maggior parte di essi c’era assai poco di me, non c’erano i miei pensieri, la mia anima segreta, perché in opere di saggistica prevale l’argomento di cui stai trattando, che esclude la soggettività, conta molto il discorso razionale, il ragionamento, lo stile preciso. E anche nelle opere di narrativa non si mette mai tutto di sè, conta la logica dell’invenzione, dell’artificio, dell’immaginazione. Un testo di poesia come questo che esce ora, Ma sempre ti perdo, mia vita, racchiude invece il mio universo interiore e tutta la mia vita fino ad oggi, quasi un compendio in versi. Dal momento che, come vi dicevo, non pubblicherò altri libri nei prossimi anni, ecco che questa mia ultima opera ha un’importanza tutta particolare per me, e spero anche per voi. Ve la affido sperando che vi piaccia.
Qui leggete una scheda del mio nuovo libro con alcune poesie scelte:

mariadilorenzo.wordpress.com/ma-sempre-ti-perdo-mia-vita

E qui di seguito c’è la bella prefazione di Simona Lo Iacono, che voglio condividere con voi, salutandovi con affetto.
Maria



***

Prefazione a Ma sempre ti perdo, mia vita.
Silloge poetica di Maria Di Lorenzo

Nominare le cose. Ridirle per trovare in esse una consistenza diversa dalla realtà. Come se - dotate di parola - cominciassero a esistere nuovamente perché convocate, invitate. Un atto sacro e da superstiti, la poesia, da scartati dal mondo. O da persone cui il mondo, così come appare, non basta.
E, in effetti, il poeta è spesso santo, pazzo, maliardo. Procede per visioni e incantamenti, fiutando piste che occhio nudo non vede, e che bocca aperta non parla. Come un mistico, un assetato di invisibile, un funambolo da circo che punta il volto in alto senza vedere dove poggerà i piedi, il poeta avanza nel nostro difficile tempo, a mani tese. Sembra dire: abbiamo bisogno dei poeti. Abbiamo bisogno di poesia. Abbiamo bisogno della lentezza e della complicità del mistero.
Così Maria Di Lorenzo in queste liriche che sprangano le porte della prigione dei sensi, che volano oltre le cose, e oltre gli uomini, e oltre sé stessi, perché sanno che l'apparenza seduce e nasconde, e che la verità, il segreto di noi e di tutti, è dove osiamo portarci. Così, sgorgano, i versi di Maria, non a spiegare (ché non è della poesia dare ragioni, offrire scientifici allineamenti della realtà) ma a rivelare, a indicare che la ricerca dell'anima consiste in una via di bellezza.
La poesia sembra allora porsi come un'antagonista dei nostri chiassosi giorni, un freno alla marcia ruminante, al precipitare verso l'abisso della mancanza di significato.
In apparenza, la poesia non serve, anzi pare alfabeto di ore perse / a decifrare sciarade di vento / nello stillicidio di partenze / verso nessun luogo. Poi però, l'uomo sente che non può trovarsi se non ritornando al centro del suo dolore, e che senza quel viaggio, senza quel sacro pellegrinaggio dentro sé stesso, non c'è perdono alla colpa di avere vissuto senza chiedersi perché.
Per Maria, al sogno / ci condanna perpetuo / questa luce di vecchie falene, / che non conosce certezze / ma un varco / ci addita segreto nel cuore di Roma. E, dunque, la dimensione complessiva dell'esistenza, non è nel conteggio di giorni e progetti, non è nell'edificazione di immagini rassicuranti e perpetue di se stessi, ma in quella feritoia da cui filtra un filo di luce.
Maria addita allora il cielo, indica la dimensione paterna della vita, contempla le immagini di Giuseppe e Maria, eterni sposi in eterna erranza, come se l'Egitto fosse una conquista da rinnovare ogni giorno, da chiamare col cuore, e la terra promessa coincidesse con quel deserto che coviamo in noi, deserto arido, da abbeverare.
Il suo verso si fa biblico, profetico, orante.
Maria non teme la dimensione oscura dell'esistenza, in essa vede anzi la luce della Grazia, una Grazia che sa che un Dio comprensibile non sarebbe un Dio amoroso verso i suoi figli, perché li priverebbe della gioia della scoperta, della fatica santa della domanda, dell'entusiasmo della decifrazione.
E si rammarica che ai più appaia distante un Dio in realtà poetico, che con sapienza costella il cammino di segnali e pegni d'amore. Si duole, anzi, Maria, che questo Dio possa essere frainteso. Non sanno, non sanno / l'abbraccio senza sponde, / infinito / senza abbagli, / non umano. / Da sempre tu parli per enigmi.
Infuocate diventano allora alcune invocazioni, in cui all'accoramento della preghiera si unisce lo sdegno delle colpe di chi non ama, di chi non decifra i segni, perché la guerra - sembra dirci Maria - è figlia naturale di un mondo che non conosce la parola poetica: Gli uccelli dalle piume / di acciaio sganciavano ordigni / di morte sulla città / dei vivi.
Poi, però, ancora una volta, è lo stupore a prevalere.
Maria raccoglie i lasciti silenziosi del dolore, li contempla e li consegna a una pietà superiore, molto più lungimirante degli errori degli uomini. È umilissima quando, ancora una volta, si piega a decodificare i sorrisi dei morti, gli abbagli della vanagloria, gli inutili sussulti di un mondo che si perde quando non si consegna al mistero.
Maria sa invece che proprio lì, nell'enigma e nell'eterno cercare, sta l'ultima delle risposte. Anche se non sarà mai la parola definitiva, si abbandona, lascia che i segreti della creazione risuonino in lei, in lei si facciano carne, in lei prorompano in grido: “Ma sempre ti perdo, mia vita”.

© Simona Lo Iacono – all rights reserved

mercoledì 17 settembre 2014

La consuetudine dei fratumi di Fulvio Segato Primo al Premio Massa, città fiabesca di mare e marmo. I più vivi complimenti!

Con la raccolta La consuetudine dei frantumi – pubblicata da Fara in quanto vincitrice assoluta del concorso Faraexcelsior 2013 –  Fulvio Segato si classifica Primo (€ 500 in quanto il più votato dalla Giuria) nella

Sezione B) - Libro di Poesie edito 
(pubblicato negli ultimi dieci anni)
del Premio Letterario Europeo intitolato
Massa, città fiabesca di mare e di marmo

http://farapoesia.blogspot.it/2014/01/una-lettura-de-la-consuetudine-dei.html

al link qui sotto il verbale della Giuria

Premiazione
Sabato 27 settembre 2014 ore 15.30
al Teatro Guglielmi di Massa 

martedì 16 settembre 2014

Fulvio Segato si classifica primo al Gozzano per la silloge inedita, complimenti!

Vincitori 2014

Il Comitato organizzatore è lieto di comunicare i risultati della XV edizione del Concorso nazionale di Poesia e Narrativa “Guido Gozzano”.

Sezione A – Poesia edita in italiano e dialetto

I classificato : Giangiacomo Amoretti “Come un canzoniere” Aracne Editrice – Genova
II classificato : Tiziano Broggiato “Città alla fine del mondo” Jaca Book – Torre di Quartesolo (Vi)
III classificato: Filippo Ravizza “Nel secolo fragile” La Vita Felice – Milano

Premio Autore Giovane : Erminio Alberti “ Malascena” – Samuele Editore – Catania

Premio Opera Prima : Davide Tartaglia “Figure del congedo” – Italic Pequod – Ancona

Menzione speciale della Giuria : Patrick Williamson “Nel santuario” - Samuele Editore” – Parigi


Autori segnalati:
Marina Giovannelli “Il libro della memoria e dell’oblio” Samuele Editore – Udine
Carla Mussi “Il cattivo dono”- Puntoacapo Editrice – Piombino (Li)
Valentino Ronchi “Anna e Mélanie” – Lampi di stampa – Melzo (Mi)

Autore segnalato come opera d’esordio : Daniele Orso “L’estate in provincia” – Sigismundus Editrice  – Cervignano del Friuli (Ud)



Sezione B – Poesia inedita in italiano e dialetto

I classificato: Giacomo Vit “Dongia la fabrica bandonada” – Cordovado (Pn)
II classificata: Cinzia Demi “Mandami ancora un abbraccio” – Bologna
III classificato: Roberto Borghetti “Oranienburg” – Ancona


Autori segnalati:
Camilla Emili “I poeti, se lo sono”- Belluno
Francesco Paolo Gambino “Margotte”- Palermo
Gabriella Musetti “Ho visto una bambina che giocava” – Trieste


Sezione CSilloge inedita in italiano e dialetto

I classificato: Fulvio Segato “Questa mia difesa”- Trieste
II classificata : Patrizia Sardisco “In un mare senza sale” – Monreale (Pa)
III classificato : Gianluca Moro “In limite”- Torino


Autori segnalati :
Fabrizio Bregoli “Taccuino di viaggio” – Cornate d’Adda (Mb)
Stefano Bolognesi “Motel California”- Merano (Bz)
Benito Galilea “Cuntu du pocu, du tantu, du nenti” – Roma



Sezione D – Racconto inedito in italiano

I classificato: Giovanni Manna “Oltre” – Gela (Cl)
II classificata: Maria Adelaide Rubini “Una mattina” – Roseto degli Abruzzi (Te)
III classificata: Maria Giulia Baiocchi “Il profumo del passato” – Luino (Va)


Autrici segnalate
:
Maricla Di Dio “Le fragili ali della speranza” – Calascibetta (En)
Bruna Franceschini “L’ultimo cavaliere”– Brescia
Maria Rosaria Perilli “Lei che non era ebrea” – Firenze
Roberta Pianta “Oro rosso” – Magenta (Mi)

su E’ cino, la gran bota, la s-ciuptèda di Gianfranco Miro Gori


Prefazione di Ennio Grassi
Fara Editore
www.faraeditore.it
Poesia dialettale con traduzione in italiano a fronte
Collana Nefesh
Pagg. 86
ISBN  978 88 97441 49 6
Prezzo € 11,00

recensione di Renzo Montagnoli pubblicata in Arteinsieme.net


http://www.faraeditore.it/nefesh/e%27cino.html
Il dialetto è un idioma tipicamente locale e fino a non molto tempo fa era utilizzato più frequentemente della lingua italiana. Al riguardo, da un’inchiesta ministeriale del 1910 risultò che oltre la metà degli insegnanti delle elementari ricorreva al dialetto per le lezioni quotidiane. Il fatto fece scalpore, furono presi immediati provvedimenti e in pochi anni il vernacolo venne bandito dagli istituti scolastici.  In un paese come il nostro in cui lo spirito unitario è sempre stato carente è comprensibile quindi che sia fatta leva, onde creare una popolazione omogenea, sull’uso di una sola lingua, appunto l’italiano. Poco a poco il dialetto venne confinato a entità ristrette, assumendo a volte le caratteristiche di un linguaggio arcaico che pochi appassionati si ostinavano a mantenere. Come in vernacolo c’erano le prose, si avevano anche le poesie, anzi entrambe le forme espressive esistono ancora oggi (ricordo che fino a pochi anni fa a Mantova c’era un vero e proprio Festival delle commedie dialettali).  E se spesso associamo al vernacolo una narrativa o una poesia di limitato spessore, sovente tesa, anche con toni un po’ volgari, a sollecitare la facile risata, non vi è però da dimenticare che ci sono stati poeti dialettali di rilevante valore (Trilussa e Totò, per citarne i più noti). Quindi anche la poesia in vernacolo, purché si tratti di componimenti non banali, ma votati a messaggi non di rado profondi, ha una sua dignità, pur restando un problema di base che è la sua non facile comprensibilità in tutte le zone d’Italia, con l’eccezione dei versi in napoletano e in romanesco, dialetti discretamente conosciuti anche al di fuori delle località d’origine. Affinché tutti potessero comprendere è intervenuto opportunamente l’uso di accompagnare al testo in vernacolo la traduzione in italiano, che però risulta meno efficace di certi linguaggi locali nell’esprimere concetti e situazioni.
A questo punto ci si chiederà il perché di questo lungo preambolo e al riguardo si potrà comprendere dal mio commento critico che segue subito.
È cino – la gran bòta – la s-ciuptèda è una raccolta di poesie in dialetto romagnolo che Gianfranco Miro Gori, l’autore, ha pubblicato con l’editore Fara di Rimini, quindi perfettamente nella zona del vernacolo utilizzato. Quanto sia importante la traduzione a latere è testimoniato dal fatto che il titolo mi aveva indotto a pensare a un certo Gino, che prende una gran botta e poi una schioppettata. Niente di più sbagliato perché cino sta per Il cinema, la gran bòta per Il gran botto e solo la s-ciuptèda ha un significato comprensibile, cioè la schioppettata.
Questa raccolta è articolata in tre tematiche, di cui quella preponderante è il cinema, e non poteva essere altrimenti visto che Gori ha ideato e diretto la Cineteca di Rimini. In effetti, cino  è un omaggio al cinematografo, non a quello di oggi che ne vede forse gli ultimi bagliori, ma a quello di ieri, in una sorta di Nuovo Cinema Paradiso e di Amarcord. E’ una rievocazione commossa delle sale di un tempo, fumose, anche chiassose, per quello che all’epoca non era uno spettacolo, ma Lo Spettacolo. E così come i fotogrammi di una pellicola i versi ci raccontano la storia del cinema fino all’amara conclusione che sembra segnare la fine di un mondo (Il cinema è morto, / Il dialetto è morto./ O / ruzzolano entrambi / più o meno / nel vociare della televisione / nel chiacchiericcio di Internet). Insomma è finita un’epoca pionieristica, in cui si ragionava anche con il cuore, ed è trionfante il periodo tecnologico, che, inaridita l’anima, sta anche congestionando la mente. Sì, è una fine, ma questa terra, questo mondo in cui viviamo, com’è nato? Grazie al gran botto, al big bang ha cominciato a formarsi la Terra, si è sviluppata, e anche se non possiamo avere la misura del tempo che è stato necessario, alla fine è quello che ci ritroviamo, noi compresi. Sono originali le poesie che parlano in pratica della creazione e rivelano che l’autore qui ha un chiaro intento didascalico, perché sapere da dove veniamo serve per conoscere dove andremo.
Scopi legati alla sua terra e in particolare al suo paese natio San Mauro Pascoli sono all’origine delle ultime due poesie (Il morto ammazzato e L’assassino) e parlano di un fatto vero, dell’omicidio di Ruggero Pascoli, padre del grande poeta Giovanni. Hanno la voce del cantastorie, il sapore di un tempo passato che, ahimé, mai più ritornerà.
Nel complesso il libro mi è piaciuto, per quanto sia impossibilitato a esprimere un giudizio compiuto sullo stile, stante la mia modesta conoscenza del dialetto romagnolo che influenza tuttavia solo in minima parte la gradevolezza, poiché ho preferito abbandonarmi alle caratteristiche e simpatiche inflessioni; il contenuto, peraltro, non è da poco, affronta temi, quali la memoria e il mistero della creazione, senza scivolare nel banale o in cose più che risapute, ma con una sua personale visione in cui in più di un’occasione mi sono ritrovato.
Quindi, l’invito è a leggerlo, perché ne vale la pena.      

Gianfranco Miro Gori, nato a San Mauro Pascoli (11.8.1951), ha ideato e diretto la Cineteca del Comune di Rimini ed è stato sindaco di San Mauro Pascoli. Organizzatore di festival e manifestazioni culturali in patria e all’estero, ha pubblicato molti saggi (dedicati soprattutto al cinema ma anche a Giovanni Pascoli e Secondo Casadei), tre raccolte di versi in dialetto (Strafócc, Chiamami Città, Rimini 1995; GnéntPazzini,Verucchio 1998;CantèdiMobydick, Faenza 2008) e un romanzo (Senza movente, Mobydick, Faenza 2000). Attualmente è presidente di Sammauroindustria, associazione culturale da lui progettata.


domenica 14 settembre 2014

Apocalisse


di Vincenzo D'Alessio



Apocalisse

Ho il cuore colmo di rabbia
cammino su terre distrutte
dall’abbandono, la mia giovinezza,
il mancato perdono dei padri

Che ne sai, fuggito a Milano
torni a casa senza pensare,
i lari sono scomparsi
il vecchio focolare, la nicchia
dove nascondevamo il pane

Le mani del Parkinson si sono
fermate a febbraio nel suono
mesto della campana La Misericordia
è finita, le ruspe sono salite
sulle travi sudate dai ragni

Non c’eri, hai sentito l’urlo
nel rantolo del tuono a chiedere
di tornare, seminare, arare!


12 settembre 2014 (nome di Maria SS.)

martedì 9 settembre 2014

"Neoplasie civili" silloge poetica del marchigiano Lorenzo Spurio


LORENZO SPURIO
NEOPLASIE CIVILI


Poesie di carattere civile che ci consentono una visione storica della contemporaneità. Come afferma Ninnj Di Stefano Busà “La poesia scorre come segnale di vita che si ravviva dal suo stesso humus, si fa movimento ascensionale, a volte verticale, altre orizzontale, ma sempre alternandosi a sentimenti, suggestioni, pensieri, ispirazioni che si raccordano al tessuto semantico e alla matrice dell’essere. […] tutto infine s’identifica con la vita: Lorenzo Spurio vi antepone una commossa capacità di ragionamento, l’acuta riflessione di una percezione del reale, che intende offrire alla mente l’immagine che la governa, ovvero, nuova vita, nuovi significati, espressioni di una rivelazione che sgorga dal cuore.
Poesia non è, infatti, solo la capacità di offrire riflessioni, ma ciò che si connette misteriosamente al significato delle parole usate e acquista nuovo splendore nel saper individuare la luce riflessa, ovvero, quel mistero che sa cogliere quello che c’è dietro il viaggio acceso negli occhi per sempre. E qui, che anche l’anima del lettore può cogliere l’infinita e arrendevole forza della poesia, soprattutto in quei vividi canti di sdegno, nelle cronache di denuncia di un mondo fatto di lassismo, sopraffazione e ingiustizia dove il poeta, come un novello vate della postmodernità, rompe la logica del bavaglio e proclama con onestà la cruda realtà d’oggi…”



Lorenzo Spurio è nato a Jesi (AN) nel 1985. Laureato in Lingue e Letterature Straniere, è scrittore e critico letterario. Ha all’attivo varie raccolte di racconti tra cui la più recente “La cucina arancione” (2013) e numerosi saggi tra cui “Jane Eyre, una rilettura contemporanea” (2011), La metafora del giardino in letteratura (2011), Ian McEwan: sesso e perversione(2013). “Neoplasie civili” è la sua prima opera di poesia.
Collabora a varie riviste ed è direttore della rivista di letteratura Euterpe e socio fondatore della Associazione Culturale TraccePerLaMeta. Gestisce un suo sito (www.blogletteratura.com) dove pubblica recensioni, articoli, commenti ad opere letterarie.
E’ Presidente del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” e Presidente di Giuria del Premio di Letteratura “Ponte Vecchio”- Firenze.


Titolo: Neoplasie civili
Autore: Lorenzo Spurio
Prefazione: Ninnj Di Stefano Busà
Postfazione: Cinzia Demi
Editore: Agemina, Firenze
Collana: La Fenice – poesia
ISBN: 9788895555744
Pagine: 64
Costo: 10 €

Info per acquisto: edizioniagemina@alice.it

domenica 7 settembre 2014

Ricordando Antonio D'Alessio nel sesto anniversario

di Narda Fattori

Caro D’Alessio, cara Raffaela,


 
cari amici che siete lì accorsi per onorare Antonio, la mia intrusione fra di voi è solo di testimonianza; il mio intento è di esservi vicina in questa ricorrenza per ricordare un poeta prematuramente scomparso. Già un poeta.
Non vi sembri eccessiva questa mia affermazione: ho letto con attenzione le poesie ritrovate che Vincenzo mi ha fatto pervenire; esse non tradiscono l'ispirazione di fondo di Antonio, già rilevabile dal primo libretto pubblicato postumo, anzi ripropongono con una maggiore consapevolezza sia tematica che stilistica, la problematicità dell'essere e dell'esistere, in continua tensione fra il desiderio di fuga e la tentazione della quiete esteriore e interiore che poteva trovarsi solo nella sua terra, nella sua casa, fra le persone amate.
Mi si dice che la stesura delle poesie è frammentaria nel tempo, ma penso che la casualità creativa temporale, ha permesso di conservare la freschezza dell'ispirazione e la costanza delle problematiche affrontate.
L'inquietudine del giovane poeta si piega in queste poesie ad un dettato conquistato che, pur nelle sue sfaccettature denotano una frequentazione frequente dei multiformi aspetti della poesia.
Chissà se, musicista, avrebbe voluto essere faber come De Andrè. Fabbro di vita, fabbro delle parole; infatti esse non sono solo scaturigini emozionali ma tensione, ricerca. Tensione e ricerca che gli riconosco.
All’interno di questa raccolta scopriamo termini che si ripropongono con frequenza pur all'interno di stati d'animo e di emozioni diverse; una di questi è la parola “tramonto”, parola già polisemica di per sé (la terra occidentale, la civiltà occidentale, la posizione della scomparsa della luce solare, l'estenuazione della vita…) che troviamo declinata con maestria: “…

 / un desiderio si intreccia… / e poi muore / ai sinceri versi del tramonto”; qui forse alla natura fragile e corrosa dal desiderio viene contrapposta l'autenticità di una natura che è nel creato e nel tramonto quando, come in un ossimoro, allo scomparire della luce appare una maggiore chiarezza; e ancora: “Nelle sere posa un argento / e arieggiano cornici e colori / …” ( immagine quasi pittorica) e poi “L'ultimo tramonto / mi sveltisco nei movimenti / …” dove alla caducità della luce viene contrapposta una vitalità che dalla scrittura tracima nella vita e si allunga nel percorso.
Ma leggiamo anche versi che sono folgoranti per potenza immaginifica e riflessiva, che sommuovono l'animo del lettore e lo spingono ad interrogarsi e a cercare risposte, come ha fatto Antonio.
L'apertura stessa di questa raccolta è una folgorazione metaforica e filosofica (o una premonizione?): “Non aspetto altro che di svestirmi”; ci si chiede: allora è così che andiamo, appesantiti da fardelli che coartano la nostra leggerezza e la verità? Solo nudi si giunge ad una meta. È una nudità metaforica, una ritrovata innocenza, uno stato primigenio.
Ma ancora: “Scrivo per capirmi”, “La speranza di continuità è un pasto quotidiano”; incontriamo amarezza, desiderio di un oltre, di un altrove, di uno stato d’animo inquieto che non riposa e non accetta di essere pecora nel gregge, falsa identità imposta dalle mode del tempo.
Antonio vuole costruire un puzzle tutto suo e fatica perché le tessere spesso non combaciano, come succede a chi si impone la stessa fatica; perché “le decisioni comode arrivano in un attimo. / Le indecisioni, la fermezza / non hanno sedi distaccate / ma non vivono / nelle nostre convinzioni.”
Dunque Antonio era consapevole che la via dell'autenticità è stretta e perigliosa, che l'uomo è fragile, che non sempre si riesce a cogliere la via diritta e le esperienze scorrono incidendo la mente ma anche spartendo certezze e “la profondità” fugge e impone una continua fatica alla sua ricerca.
Ma da solo cerca di rincuorarsi “trattieni il fiato e attraversa”; atto eroico e consapevole, consapevole anche che le sofferenze del cuore non producono nuove verità, la dovuta sazietà contro la fame che reca la solitudine.
Credo che si potrebbe analizzare ogni verso, ogni parola scritta da Antonio scoprendone sempre una visione che diverge ogni volta ma che ogni volta rivela la stessa inquietudine.
Dunque è una poesia che trae in sé stessa la sua giustificazione; si porge alla mente e alla mano di Antonio come l'immensità che cerca di sfogliare; c'è in queste poesie una necessità drammatica che sorge proprio dal disincanto e dal dolore, che giustifica anche la sua incompiutezza (forse che l'uomo è compiuto?); eppure quanti tentativi di ricerca di compiutezza…
Questa poesia è modernissima e va oltre la condizione generazionale, è lirica e risoluta, scevra di quello slancio vocale di autoreferenzialità di cui tanta poesia pecca.
Caro Antonio, mio amico non più sconosciuto, queste poesie estemporanee denunciano una vocazione assidua alla scrittura e sono pregevoli per l'autenticità e le tematiche affrontate. Per il dettato armonico, che fedele alla tensione dei contenuti a volte stride come stride l’anima ai dolori che la vita non risparmia.
Ciao, Antonio; guardaci con benevolenza.
Narda Fattori
Gatteo (FC), 27 gennaio 2011

giovedì 4 settembre 2014

Su “Invito al viaggio” di Domenico Cipriano

recensione di Vincenzo D'Alessio

Il contributo poetico offerto da Domenico Cipriano al volume antologico Letteratura… con i piedi curato dall’editore Alessandro Ramberti, reca il titolo “Invito al viaggio” e come sottotitolo “Tra allegoria e realtà della poesia” . Da amante della buona musica, qual è l’Autore, ha scelto in epigrafe i versi tratti da una canzone del cantautore Franco Battiato, “Ti invito al viaggio / in quel paese che ti somiglia tanto”, oltre agli altri brani da associare alle composizioni poetiche elencati nell’ “Invito all’ascolto: la musica e il viaggio” (pag. 47).
La contaminazione, se preferite l’estasi del connubio versi/ascolto musica, è molto amata da Cipriano cito per tutti il CD Le note richiamano versi (abeat records 2004) dove si avvale di musicisti di valore come Paolo Fresu e in altro momento di Pippo Pollina. Jazz e poesia formano la parte vivace, indomita, del Nostro. Il contributo poetico qui antologizzato raccoglie poesie pubblicate in precedenti raccolte che segnano la ricerca giovanile di “un centro di gravità permanente”, preceduto in prosa dalla dichiarazione della poetica dell’Autore: “(…) È l’anima staccata dal corpo che abbandona le forme della geometria solida e acquista una dimensione propria. Questo è anche la poesia: un viaggio incondizionato, il passaggio tra due tappe, il punto di sutura tra due nuclei vivaci d’osservazione (uno dinamico, l’altro di riflessione)” (pag. 36).
Dall’esordio poetico, il Nostro, ha voluto intercettare il movimento in poesia lungo le dorsali intercontinentali partendo dalla lettura di Arthur Rimbaud, Pier Paolo Pasolini, la Beat Generation, Donatella Bisutti, scrittori come Alberto Moravia, Elsa Morante, Alberto Bevilacqua, Louis Ferdinad Céline, e scavando nel passato del proprio luogo d’origine, in sé stesso, prende a modello Madre Teresa di Calcutta: “(…) In tal modo provava a calmare la sua febbrile convivenza con la vita, scavando pian piano dentro il suo mondo, conoscendo comprendendo meglio come difendersi da sé stesso, attraverso l’incontro con gli altri, le altre civiltà, le altre esperienze” (pag. 40). I colori e i sapori del viaggio poetico di Cipriano sono inclusi nei versi che seguono: “(…) Solcherò montagne di Norvegia / scaverò tra i vicoli di Lisbona / per trovare il passato che mi porto dentro, / l’animale che dal ventre preme, / ostacolato dalla vita che comanda / non mi lascia libero il sentiero” (pag. 42).
Quanta forza vitale potrà trarre il lettore da questi versi?
Per noi che conosciamo le plaghe irpine dove il dolore spezza i sogni anche ai più avveduti amanti della libertà le note scaturite dai versi di Domenico Cipriano in questo corposo viaggio tra i paesi dell’anima e i forzati ritorni “ a casa” rassomigliano alle composizioni affidate alle velocissime e armoniose mani del pianista jazz Michel Petrucciani scomparso nel 1999 e che il Nostro riassume, per evidenziare la forza magnetica della poesia musicale, nei versi che seguono a pag. 46: “(…) Ma a me piace passeggiare / sulle pietre della piazza circolare, nel silenzio / interrotto dalle poche voci che sfuggono / al bar per tornare a casa, e sotto le luci / ti accorgi che c’è un filtro trasparente / che separa la vita dall’essenza.”
Il sentiero cercato dal Nostro può paragonarsi alle strade che indicava il Nobel Eugenio Montale: “(…) Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi / fossi dove in pozzanghere / mezzo seccate agguantano i ragazzi / qualche sparuta anguilla” (I limoni). 

La poesia del viaggio , com’è cara al Nostro, diviene l’assenza dalle regole della vita: “(…) In tal modo modifichiamo le nostre regole prefissate, acquisite nei luoghi d’origine, che risentono a volte della mancanza di confronto, mentre altre volte si rafforzano” (pag. 37). I versi raccolgono per intero l’energia dell’incentro permanente del viaggio: “Solo il viaggio / mi rende vivo / libero dai dogmi ancestrali / che mi appartengono: / figlio di terra e vento” (pag. 47).
Il viaggio intramontabile del musicopoeta è da seguire.

mercoledì 3 settembre 2014