mercoledì 30 aprile 2014

Il 10 maggio a Recanati la premiazione del 2° Concorso Letterario "TraccePerLaMeta" al Centro Nazionale di Studi Leopardiani


COMUNICATO STAMPA

Nel pomeriggio di sabato 10 maggio nella prestigiosa Sala Foschi del Centro Nazionale di Studi Leopardiani di Recanati (MC) si terrà un importante evento culturale organizzato e promosso dalla Associazione Culturale TraccePerLaMeta e dalla rivista di letteratura “Euterpe”.
La serata si aprirà con i saluti introduttivi della Presidente della Ass. Culturale TraccePerLaMeta (Anna Maria Folchini Stabile) e a seguire quelli del Sindaco di Recanati (Francesco Fiordomo) e del Presidente del Centro Nazionale Studi Leopardiani (Fabio Corvatta).
L’evento centrale del pomeriggio sarà la premiazione del 2° Concorso Letterario Nazionale “TraccePerLaMeta” che in questa seconda edizione si apriva con i versi di un estratto di una lirica di Leopardi alla quale era possibile ispirarsi.
Da ogni parte d’Italia arriveranno i vari vincitori e menzionati a vario titolo (per le due sezioni di partecipazione: poesia e racconto) e altri partecipanti i cui testi saranno pubblicati in un’opera antologica che verrà diffusa nella stessa serata.

Il pomeriggio letterario, appoggiato moralmente dalla Regione Marche, dalle Province di Ancona, Macerata, Pesaro-Urbino, Fermo, Ascoli e dai Comuni di Macerata e Recanati proseguirà con un reading con alcune voci di poeti locali che leggeranno proprie poesie.

Ad arricchire ulteriormente la serata sarà un intervento dal titolo “La modernità nella poetica di Leopardi” della poetessa e scrittrice Annamaria Pecoraro e le musiche di Luca Mengoni (violino) e Federico Perpich (violoncello) della Civica Scuola “Beniamino Gigli” di Recanati.

La S.V. è invitata a prendere parte al pomeriggio culturale secondo il programma in locandina.
Ingresso gratuito.




martedì 29 aprile 2014

a mio figlio Antonio

di Vincenzo D'Alessio


Se un giorno tornassi
in quell’aria tiepida di luglio
ti correrei incontro per dirti
mi sei mancato tanto!

Sorriderai come solo l’amore

di un figlio che ha amato
la vita. Qualcuno
si fermerà a guardare
non lascerò l’abbraccio,
ci è mancato per l’odio

di tanti, ti stringerò senza
farti male. Ci guarderemo
negli occhi azzurri uguali
torneremo a sognare.

Tu avrai sandali profumati e
il sitar spezzerà l’aria
come il vento che chiamavi
padre.


(aprile, 2014)













lunedì 28 aprile 2014

Per ricordare Shakespeare

Subhaga Gaetano Failla, il 23 aprile 2014 ha partecipato in Calabria, a Lamezia Terme (CZ), a una celebrazione pubblica, nella stessa data della nascita di Shakesperare avvenuta 450 anni fa. Ecco un articolo del Quotidiano della Calabria del 25-4-14 che parla della manifestazione.

 

Meteo Tempi a Milano 9 maggio


Venerdì 9 Maggio alle ore 18
 
Libreria Odradek  via principe Eugenio 28  Milano
 
Alberto Mori
 
 presenta

 http://www.faraeditore.it/nefesh/meteotempi.html
Meteo Tempi
(Fara Editore)
 

con reading, performance, riflessioni 
e ne discute con il filosofo Franco Gallo
 
 
La partecipazione è libera


Le “perturbazioni” poetiche di Alberto Mori sono un segno potente, sonoro (sarebbe sempre bene leggere ad alta voce i suoi versi o ascoltarli direttamente dall’autore che sa fare di ogni suo reading un autentico pezzo di teatro) ma anche visivo per la sapiente scansione con cui il “silenzio” degli spazi bianchi e delle pause e la musica delle parole evocate dalle strofe vengono miscelati. Possiamo così immedesimarci nell’«insetto che insiste nel fango / dove cede e quasi emulsiona la sua lotta scivolosa», o nella «Pressione salente // Luce freddata», o magari in «colui che scomparendo nel viaggio assenterà la vita». Meteo Tempi è poesia fulminante e discreta, attenta ai mutamenti climatici, all’ambiente violato, al lavoro latitante e precario, alle sperequazioni sociali… mette in evidenza i tic e i malesseri del nostro quotidiano così virtualizzato che «Nell’ IPhone dei bambini entrano le foglie pixelate del giardino», così tragicamente globalizzato che «Il movimento della vita continua senza nulla con sé / Nella migrazione quotidiana / carne ed ossa vanno nella nudità della terra» e «l’ozono bucherella le plaghe statistiche dello schermo». Come osserva Maria Grazia Martina nella empatica Prefazione: «La maniera in cui il poeta manipola ciò che raccoglie dalla realtà è sempre ponderata anche quando tra la parola, l’oggetto individuato, l’immagine che li evoca, si stabilisce un corto circuito». Questa raccolta offre scosse salutari e provoca per recuperare umanità consapevole e solidale.


Alberto Mori, poeta performer e artista, sperimenta una personale attività di ricerca nella poesia, utilizzando di volta in volta altre forme d’arte e di comunicazione: dalla poesia sonora e visiva, alla performance, dall’installazione al video ed alla fotografia. La produzione video e performativa è consultabile on line sulla pagina YouTube e Vimeo dell’autore e nell’archivio multimediale dell’Associazione Careof / Organization for Contemporary Art di Milano. Collabora inoltre, con molti fra i più noti poeti contemporanei, italiani e stranieri, per la realizzazione di letture pubbliche, manifestazioni ed eventi dedicati alla poesia. Negli ultimi anni più volte finalista del premio di poesia “Lorenzo Montano” della rivista «Anterem» di Verona. Dal 1986 ha all’attivo numerose pubblicazioni. Nel 2001 Iperpoesie (Save AS Editorial) e nel 2006 Utópos (Peccata Minuta) sono stati tradotti in Spagna. Per Fara Editore sono stati editi Raccolta (2008) Fashion (2009) Objects (2010), Financial (2011), Piano (2012) ed Esecuzioni (2013).

Website: www.albertomoripoeta.com

Info Libro Meteo Tempi: www.faraeditore.it/nefesh/meteotempi.html

Info Libreria Odradek: www.odradek.it/html/librerie/libreriamilano.html

giovedì 24 aprile 2014

Su Cambiare di Stato morire di natura di Narda Fattori

CFR Edizioni, 2014

recensione di Vincenzo D'Alessio

Mio lettore, resta sempre molto difficile renderti l’essenza di una raccolta poetica poiché quello che sento potrebbe non piacerti e quello che a te piacerà a me sfugge. Quindi ti aggrada, per l’amore che nutriamo per la stessa poesia, quanto scrivo sulla raccolta della poetessa Narda Fattori, Cambiare di Stato morire di natura, (CFR,Edizioni, 2014).

“Me ne uscirò da me prima che si faccia buio / il cuore nasconderà nel suo guscio duro / ancora sabbia dorata e merli sui castelli”, sono i versi che aprono la raccolta nella prima parte che reca il sottotitolo “A futura memoria” (pag. 17). Per amore del racconto sono ricorso ad un grande della scrittura William SHAKESPEARE, non citando i suoi sonetti, ma prendendo dal teatro e dal personaggio qualcosa che rafforzasse l’idea che ho della raccolta della Fattori: “No. No, affatto. Sfidiamo i presagi; la provvidenza è manifesta anche nella caduta di un passero. Se è ora, non sarà dopo; se non deve essere dopo, sarà ora; se non è ora, comunque sarà. Essere pronti è tutto. Poiché nessuno sa quello che lascia, che cosa conta lasciare prima del tempo ? Vada così” (Amleto, Atto V, scena II).

Il verbo uscire, reso al futuro nella raccolta della Nostra, è il presagio del cambiamento di Stato e dell’affidamento ad un’altra dimensione naturale (anche se la parola Stato è scritta con l’iniziale maiuscola nella raccolta non c’è nessun accenno alla politica). Come per il personaggio Amleto così Narda Fattori affida alla memoria il compito di accompagnare lo svolgimento di questo cambiamento di stato che nella seconda parte della raccolta si arricchisce del “morire di natura”. L’anafora “me ne uscirò” posta all’inizio è la partita giocata con la sconfitta finale senza essere venuta mai meno.

Sono versi che indicano la certezza degli eventi (“sabbia dorata che rimarrà ancora nel guscio duro del cuore”, pag. 17), “i castelli” costruiti per la difesa dei propri sogni e che nel finale della raccolta racconta a chi segue la poetica fattoriana le battaglie perse con la vita: “(…) E un figlio ho avuto e altri mille ho amato / e mi sono fatta saggia e salda – di principi - / e li ho fatti vivi e la vita se li è presi / a me è rimasto un vuoto che quando penso / si slarga a dismisura e impasta terra” (pag. 67). In questo modo tutto accade all’ombra di un tempo oscillante tra desiderio di restare ancora in questa eternità alla luce del sole e il cambiamento di stato sottoforma di energia creativa. Non a caso nei versi si ritrova sovente “acconciarvi” , “acconciarmi”, quasi come se il lavoro di madre/custode dovesse continuare in difesa di chi si ama anche dopo la scomparsa terrena, contro “gli spigoli acuti”:-.

Più che un testamento spirituale tutta la raccolta vibra della consapevole volontà di continuare l’esistenza, in forme diverse ma con la coscienza di partecipare, senza smarrire l’io che snoda in un racconto tutta la bellezza della conoscenza terrena e il ritorno allo stato di natura, al quale ci chiama la nostra nascita: “vedo il rischio l’orlo dell’abisso / salsedine sul ciglio dei viventi ossidiana / là dove il midollo trasmetteva senza soste / impulsi a andare a resistere a restare testarda” (pag. 26).

Molto bella la prefazione a questa raccolta poetica realizzata da Bruno Bartoletti che avvicina la Nostra alla figura di Emily DICKINSON: “Anche a Emily Dickinson (la ricordo non a caso, come posso non ricordare Margherita Guidacci, alle quali tanto si avvicina Narda Fattori) il sentimento della morte fu una costante compagna di viaggio” ecc.). Per analogia poetica con la Nostra ho scelto della poetessa americana questi versi: “Questa è la mia lettera al mondo / che a me non scrisse mai – / le semplici notizie che la natura disse - / con tenera maestà.”

“La natura, che abbraccia la nostra esperienza e forma la nostra sensibilità, è scuola sempre generosa di vita e sorprendente”: questo scrive Alessandro Ramberti nella recensione realizzata a quest’ultima raccolta della Fattori.

“Mi guardano dall’interno i miei morti” (pag. 25) scrive la Nostra e i versi lunghi ricchi di metafore, sinestesie, iperbole, similitudini, l’enjambment, raccontano a noi, caro lettore, il mito degli oggetti, dei paesaggi, delle esistenze reali, trasformate in poesia dalle mani forti e callose di una donna poeta: “(…) Eppure siamo per scambiarci parole piene / per estrarre dolori come spine sottopelle / a sudare la terra per il pane / per meritarci i nostri avi contadini / con le mani di calli e compassione” (pag. 28). Come potremmo noi non condividere questo racconto? Dura da millenni, è la vita di noi uomini che si affidano alla memoria per sorridere come fanno i morti raccontati dalla Nostra.

Anche se la poeta non scorge la provvidenza amletica ma ci pone di fronte al fattp che “invochiamo un dio che non risponde” (pag. 28), la solidarietà antica degli avi torna per meritarci la compassione del superamento condiviso di fronte al dolore. Un racconto poetico superbamente incarnato nei versi che lasciano a noi che leggiamo la bellezza dell’eternità: “(…) non resterò senza un mistero senza una fiaba / senza un trasalimento e mano con mano / mi porterò dove il lupo gioca con l’agnello / e le donne sono belle ogni alba più splendenti / e amano gli uomini e le donne e i bambini / e i bambini non sono angeli sono uccelli / in lenta migrazione…” (pag. 64).

Mio lettore, che mi hai seguito fin qui dimmi, non è questa l’immagine del vero Paradiso, dei Campi Elisi, della Bellezza, di cui oggi tanto si parla? Non abbiamo perso ancora nulla se dai versi di una raccolta così bella possiamo, dal chiuso di una stanza pregna di polvere quotidiana, migrare da uno stato all’altro di Natura per pochi preziosi istanti di colore. La poesia plasma il dolore nelle forme della morte per risorgere nell’eternità della memoria degli uomini.

Linguaglossa su I giorni e le strade


Carla De Angelis I giorni e le strade 
Fara, 2014

recensione di Giorgio Linguaglossa
 
http://www.faraeditore.it/html/siacosache/giornistrade.html
La ricerca di una configurazione del sistema iconico nella poesia di Carla De Angelis coincide con la presa d’atto della scomparsa del «mondo» in cui il poeta era ancora inserito in una comunità e la comunicabilità del suo «messaggio» non era affatto posta in predicato, era la naturale conseguenza di una comunità linguistica. Retrocedendo alla impostazione «classica» (diciamo alla scrittura lineare di una Antonia Pozzi), Carla De Angelis fa due passi indietro per compiere un passo in avanti. L’autrice usa il compasso metrico e il respiro dell’analogia là dove la dismetria invasiva delle scritture contemporanee ha desertificato il linguaggio poetico. Allora, il risultato di una poesia «descrittiva» è la logica conseguenza di una impostazione di equidistanza tra l’oggetto e il soggetto  e di retrogredienza ad una impostazione pre-sperimentale con spunti geografici e paesaggistici di «gusto squisito»:

Vorrei scrivere una bella poesia
poi addormentarmi in questa notte d’agosto
“laudato si’, mi Signore per sor’Acqua
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta”
che scenda a curare le
Ferite del troppo sole, come il canto
del fiume per il mare
non come un torrente che travolge uomini e cose
non come un torrente che travolge uomini e case

Siamo ormai lontani dalla lezione di un Franco Fortini il quale sottoponeva il «gusto squisito» ad una spietata critica marxista, oggi sembra che la poesia recente abbia messo da parte la lezione fortiniana, siano, insomma, nipoti rimasti celibi della grande tradizione critica. Carla De Angelis parte da una premessa: è il soggetto che deve raggiungere la contemplazione e, tramite essa, l'oggetto. Fatto sta che quegli oggetti ormai immessi nel circuito della fluidificazione universale, sono di difficile reperibilità e di ardua riconoscibilità e la «poesia» non è un luogo privilegiato che abbia dimora in un lake district al riparo dei venti e delle intemperie.
La oggettistica di questa poesia ha questo di vero: che tenendo ben fermi gli oggetti entro il campo visivo della campitura metrica anche il linguaggio poetico può beneficiare di una impostazione di tipo narrativo.

Aspetto il vento,
se bussa
non chiudo porte e finestre non spio tra i vetri
lo faccio entrare
si accomodi sul divano, gli dico, mi  siedo accanto
lo insinuo nei cassetti
un soffio sotto i mobili
in cantina fra  fantasie e  speranze 
fra bene e male

C’è, sì, sotto la fluidificazione dei versi una inquietudine che trapela appena, ben dissimulata, al di sotto della superficie, come una velata increspatura. Come l’analogia tende alla fluidificazione sintattica e stilistica, così anche il soggetto è sottoposto alle medesime tensioni della fluidificazione «esterna». È questo il problema con cui Carla De Angelis si trova a dover fare i conti, e non è un problema da poco.
Alla fin fine, un problema apparentemente secondario ed astruso come quello del chi è l’«interlocutore» (che l’autrice fa coincidere con il «tu» del lettore), coinvolge e trascina con sé quello ben più complicato della configurazione del sistema simbolico-analogico. Il «tu» intimistico e amicale che incontriamo nella poesia della De Angelis è ancora «lirico», una zattera «lirica» priva dei gommoni e dei salvagente delle scritture post-liriche più scaltrite e culturalmente avvedute ma forse è anche più autentico e spontaneo (se di spontaneità si può parlare con qualche avvedutezza in termini di poesia). È una scrittura tutta «intima» e «interna» al quadro della intimità (violata) appena percettibile, fatta in punta di stilo, sottile fino ad assottigliarsi:

Devo scrivere una poesia
l'ho promesso
sul bene sul male
sulla morale

Aspetto il vento,
se bussa
non chiudo porte e finestre non spio tra i vetri
lo faccio entrare
si accomodi sul divano
gli dico
mi siedo accanto
lo insinuo nei cassetti
un soffio sotto i mobili
in cantina fra fantasie e speranze
fra bene e male

Tutta interna ad una campitura domestica la scrittura della De Angelis incede a rallentatore, indugia su alcuni particolari del «quadro», resta nell'ambito del recinto lirico quale hortus conclusus, spazio esentasse.
Se la forma di abolizione  del mondo quaternario, cibernetico e combinatorio, è l’implosione, all’interno della minima entropia dei microcosmi affettivi entro i quali questa poesia si muove, a ciò corrisponde l’assottigliamento dei flussi e delle maree «interne» ed «intime», così consuete e familiari.

venerdì 18 aprile 2014

Su I giorni e le strade di Carla De Angelis

recensione di Renzo Montagnoli 

pubblicata in www.arteinsieme.net


I giorni e le strade
di Carla De Angelis
Prefazione di Stefano Martello
Fara Editore
Poesia
Collana Sia cosa che
Pagg. 70
ISBN 978 88 97441 41 0
Prezzo € 11,50

 

v. anche l'intervista all'autrice: www.arteinsieme.net/renzo


 Il valore della parola 

L’uomo cominciò a essere cosciente con l’uso della parola, prendeva in mano un sasso e così sapeva a che corrispondeva quella “cosa” magari trovata per terra. E come la realtà all’intorno assumeva i nomi delle sue componenti, i nostri progenitori iniziarono a parlarne. La parola rappresentava quindi la realtà tangibile e solo più avanti nel tempo, con l’avvento della poesia, la parola cominciò ad andare oltre la concretezza che era sotto gli occhi di tutti. Essa, opportunamente congegnata, cominciò a identificare anche ciò che non si vede, ma si percepisce, si avverte, come nel caso delle emozioni. E la scelta della stessa per identificare uno stato d’animo divenne oggetto di ricerca, finendo con l’impreziosire i versi delle poesie.
Un touch e scompare un volto, ove quel touch è certo un tocco, ma non lo è solo per somiglianza di vocaboli, poiché è fortemente d’impatto sotto l’aspetto fonetico; Il poeta sa farsi pastore del destino, ove quel pastore richiama greggi condotte da un uomo, colui che accudisce alle pecore, e nel caso specifico il poeta diventa l’essere che non accetta supinamente il corso delle cose, ma vuole essere libero di scegliere la vita che desidera, divenendo così un pastore, magari illudendosi, del destino che gli è riservato.
Questa ricerca della parola più appropriata è una delle caratteristiche di I giorni e le strade, l’ultima raccolta poetica di Carla De Angelis. 
In effetti il ricorso a termini mirati impreziosisce l’opera, costituendone comunque solo un aspetto sartoriale, per quanto di pregio, mentre invece la presenza pressoché costante della metafora rafforza queste poesie non legate da un tema comune, bensì frutto di occasionali emozioni prontamente salvate, con uno stile senz’altro scarno e non aulico e che solo in questo sembra ripercorrere le vie dell’ermetismo.
No, Carla De Angelis cerca di ritagliarsi un angolo poetico tutto suo, in cui, pur sotto l’influsso di correnti e dello spirito di poeti, per lo più moderni e ormai defunti, scava, come lo scultore nel marmo, un suo personale modo di esporre con cui portare avanti quel messaggio che, consciamente o inconsciamente, di volta in volta frulla all’improvviso nella sua mente, imponendole la necessità di immediatamente fissarlo su un foglio.  
Ed è così che si trovano in questa raccolta liriche messe lì, senza un ordine logico, un flusso di emozioni che è il più disparato (Non ho radici / sosto dove sto bene / rubo all’istante il suo significato /…Potavo lacrime agli alberi / imparavo a usare  il verbo / delle radici / il pensiero germogliava /…Il sorriso si arresta sull’orlo della gioia /….).
Per quanto non unite da un unico tema, tuttavia c’è un comune fil rouge, che le caratterizza e che sta evidentemente a cuore all’autore, e questo filo conduttore è la vita, in tutti i suoi aspetti, nelle gioie e nei dolori, una serie di riflessi che, incisi nell’animo, si affacciano allo scoperto quasi con pudore.
Se non c’è un retrogusto di gioia, non ce n’è però uno di malinconia, anzi si evince un certo pragmatismo, che non vuol dire materialità, né accettazione supina, bensì presa di coscienza dei nostri estremi limiti, entro i quali possiamo, nonostante il poco tempo, effettuare una continua ricerca in noi stessi, onde approdare a una conoscenza, e non alla conoscenza, perche di questa ce ne sono tante quanti sono gli uomini. Eppure, benché ci sia chi cerca in questo modo in Italia come all’estero, queste individualità avvicinano anziché allontanare, e concorrono a formare tasselli del grande mosaico del sapere, un’opera che è sempre in progresso e che mai sarà terminata.
Leggete questa raccolta di poesie e cercherete di scoprire gli angoli più reconditi del vostro animo, soffermandovi, di tanto in tanto, sulla valenza delle parole, perché queste non sono solo alcune lettere artatamente combinate, sono invece l’essenza di un concetto.
    
     

Carla De Angelis è nata a Roma nell’ottobre del 1944. Nel 1962 ha pubblicato i primi versi nella rivista internazionale «Pensiero ed Arte» e collaborato all’antologia dedicata a Dante Alighieri nel VII centenario nella nascita. Ha partecipato ad attività artistiche nel sociale, allestito mostre di ceramica in varie librerie di Roma, al Museo del Folklore e alla mostra dei Cento presepi che si svolge a Roma, in Piazza del Popolo, Sala del Bramante. Nel 1995 il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro le ha conferito l’onorificenza di “Cavaliere al merito della Repubblica Italiana”. Poesie e racconti sono presenti in diverse antologie edite da Perrone, Estroverso, David & MatthausLimina Mentis, Delta 3, Pagine, Aletti che l’ha inserita nel 2009 nell’Antologia dei poeti italiani contemporanei. 
Con Fara ha pubblicato: Salutami il mare (poesie), il libro dialogato con Stefano Martello Diversità apparenti (i due libri sono risultati vincitori e finalisti in vari premi), sillogi nelle antologie Il silenzio della poesia (2007), Poeti profeti (2008) e Chi scrive ha fede? (2013). Sempre con Fara ha curato con Stefano Martello Il resto (parziale) della storia e nel 2010 pubblica la raccolta poetica A dieci minuti da Urano (anche questi due libri sono risultati vincitori in vari premi). Nel 2011 esce Mi vestirei di mare per i tipi di Progetto Cultura. Nel giugno 2012 ha curato con Brigitte Cordes Corviale cerca poeti (edizioni youcanprint). Collabora con la Biblioteca “Renato Nicolini” ex Corviale (Roma).


Renzo Montagnoli

giovedì 17 aprile 2014

Su Danza immobile di Gladys Basagoitia Dazza


recensione di Sonia Gardini

Vita. Si presenta così la raccolta di poesie di Gladys Basogoitia Dazza, che canta in spagnolo ogni forma di amore, verso sé, verso l'altro e verso gli altri. Il titolo Danza Immobile, un ossimoro, non poteva essere comunque più indovinato per questo testo che inizia con un mistero e che si scioglie con un “atto di fede cosmica” cioè con lo scrivere in un'altra lingua.
È dal buio, dalla nebulosa che nasce la vita “la rosa del prodigio”, così come il segreto della maternità è nell'utero oscuro, nella “maderas maternas”, la madre originaria; ma per questa nascita dalla “madera” si vive in una solitudine strana , costruita su immagini gioiose: “tenia mi riconcito / de algas y terciopelo” (Avevo il mio guscio fatto di alghe e velluto).
Poi la nascita “llega a su mar la sangre” (Arriva al suo mare il sangue) una sorta di innamoramento, la freccia che inevitabilmente colpisce la preda.
Qualcuno ha detto che la musica vera è il silenzio tra le note: parafrasando oserei dire che per la scrittrice è lo spazio, senza punteggiatura, a dare significato ad un sogno aperto all'infinito, la finta “muerte”, qualcosa che s'impara ogni sera nel distacco dagli affetti, quando neppure il “miele del figlio” sa interrompere il sonno.
Questa sete d'infinito a volte genera tempeste, assillata dall' abisso che l'attira verso di sè “Y me traga el abismo”.
 

Ci si pongono quesiti. Perché incolparsi? Perché la sofferenza? Perché si va alla ricerca di luoghi dove il tormento sarà più grande? Perché “dia a dia” ci si avvicina alla morte nella consapevolezza di sentirsi vivi nonostante l'ingiustizia e il male del mondo? Perché spesso il nostro destino è deciso dalla volontà di altri ed i sentimenti più veri, più puri, più intimi svaniscono? Resta, concreta, la “carizia inesperada nacida del alma”, l'apertura del fiore. Ed è grazie alla fantasia, che apre a canti inauditi, intraducibili “vibrante delicia” che la danza immobile continua… e si ritorna alla vita.
 

Anche il dolore viene sublimato nell'amore per cui non ci sono rimpianti, bensì ringraziamenti: occorre avere l'umiltà di ammettere che non si è la verità, ma una parte di essa; la speranza si crea ogni giorno con ciò che il tempo offre, “las fibras del arco iris” (le fibre dell'arcobaleno). La speranza esiste, è nei sogni “aperti” fatti ad occhi chiusi. Anima il silenzio la carne dell'altro che diventa mistica; da una parte l'umano, dall'altra il divino. Così la dicotomia tra corpo e anima, tra buio e luce è risolta in misticismo e vita: appunto danza immobile.

giovedì 10 aprile 2014

Su Ore di luce strangolate da clessidre di Franca Fabbri

http://www.faraeditore.it/html/siacosache/orestrangolate.html
recensione di Marcello Tosi


Il disegno interiore, la ricerca di un’armonia vista come possibile, l’intima scansione di momenti poetici di Franca Fabbri, illuminano le Ore di luce strangolate da clessidre, della nuova raccolta dell’affermata autrice sammaurese, edita da Fara.
Già intravista come in un sogno, la vita fatta di memorie poetiche appare nei suoi versi come un cammino di luce verso l’esterno: in essa la dimensione del ricordo porta a riconoscere il silenzio come rifugio, nell’insistita presenza, quasi come in un emblema, dei segni del tempo da decifrare (la casa vecchia, le crepe, i ricami di ruggine).
Entrando nella sua bella casa di San Mauro, si avverte un’atmosfera di momenti poetici perduti e ritrovati, un po’ proustiana, a cui riconducono l’eleganza, i raffinati oggetti dentro le vetrine, l’ovattato silenzio che al momento della visita era rotto solo dal suono di un pianoforte. Muovendo con gioioso candore e amore per la vita, alla ricerca del senso e dell’origine delle cose, tra paure e attese i suoi sogni sono comunque vissuti con fede e amore. Le sue poesie, pascolianamente e volutamente dimesse ma autentiche germogliano da gesti e vita quotidiana: il silenzio della casa, il mare, le stagioni, vecchie soffitte, con le parole che sono necessaria, non una di più. Nei suoi versi si rincorrono associazioni, stati d’animo, illuminazioni ad occhi aperti: le vecchie scarpe, i giocattoli dell’infanzia.
Poesia che è divenuta negli anni sonno, sogno, specchio, sguardo analiticamente rivolto a guardare, a scrutare dentro di sé, con metodica precisione e attenzione. Il meditare versi sul tempo, sulle stagioni della vita, sulla morte, il suo raccontare fatto di sogno e di evasione si fa dissolvenza, apparizione di un labirinto del mondo e del male, da cui cercare salvamento nel sogno stesso: “di sonno mi nutro, è pane.. nel sogno mi specchio, / c’è l’analista / mangio, bevo / e dissolvendomi / scompaio”. Un poetare che appare come il racconto di un perenne agitarsi tra sofferenze vissute, con un lutto nello sguardo da cui potersi finalmente liberare: “nel volo cerchi la luce, il respiro libero, senza il peso del mondo”.
Sempre presente il senso, il sentimento della casa, dell’ovattato silenzio rotto solo da un suono familiare ed evocatore di altre storie (“Quando al pianoforte suona il dottor Zivago io divento Lara, Natascia, Anna Karenina”). Il sogno e il mistero continuano quindi a trovare il loro riparo nella certezza e nella bellezza del quotidiano. Sono, quasi con un senso pascoliano, “Le voci dimenticate”, i ricordi, gli echi contrastanti dentro di noi: il gelo dell’inverno e il tepore della casa, il suono delle campane e le voci dei morti. Per questo Franca Fabbri ama descrivere le lontananze, Il magico, il mistero, gli “angoli nascosti dentro casa e dentro me”. Vecchi motivi in cui sia racchiusa ogni storia ed esperienza. Impressionistica, appassionata contemplazione del reale.

I Meteo Tempi di Alberto Mori





recensione di Marcello Tosi


Meteo Tempi, meteo mappe, meteo tappe d’altri tempi… nella nuova raccolta dell’affermato poeta cremasco, scrittore lettore performer e diffusore di poesia a tutto campo… Previsioni poetiche, alla ricerca di “Segni” dei tempi, tempi denotati da instabilità perenne, in cui cercare di individuare metodicamente come cambia questa “condizione del tempo”, in tracce appena percettibili nel cielo. Essere traccia geo stazionaria che individui un nuovo devastanti effetto serra, nei malinconici “Meteogiorni” di questi tempi bui, indecifrabilmente oscuri, fatti soprattutto di crolli (“Oltre la recinzione crollata oscura resiste il serbatoio...Oggi per pochi momenti lembi stesi sulla sua ruggine pietosa”). 
Dove anche il desiderio è climatizzato, dove “la città si stempera nell’equinozio”, e si succedono sublimazioni climatiche, nuove accensioni raffreddanti, i calendari sono disattesi, e tutto appare surreale bizzarro incomprensibile capovolgimento: surf lunare, suono bianco al tempo contratto, brivido immanente, nuvole oscure e nuvole pesanti. Un bollettino di “Annunci”, di catastrofi appena percepite nell’aria, disegnate da “un cumulo nembo” che “passa oscurato sull’algoritmo del server”…
Le stanza poetiche di una “Ballata” per quattro stagioni (“ormai morte da tempo”, cantava il grande Ivan Graziani), staccate da ogni rassicurante mitografia delle ormai inesistenti stagioni, si soffermano sull’inverno dello spirito di queste “generazioni ibernate”, di una guerra fredda sempre fredda, su un crepuscolare autunno di “Paleo Tags sbiaditi”, su un alba di primavera “per gli impiegati di Osaka / terra fumante sul tatami / poi alla stazione…”, mentre a far da contraltare ad un’estate a Nairobi “sulla collina della discarica miseria senza speranza” è per altri un “Ferragosto a Milano Marittima / tre rimbombi nella notte… / fumogeni fucsia densi…”.
“Zone”, sono “rovesci quotidiani a plessi di invasi variabili”, piogge nelle zone industriali, ormai senza scopo tutto misura un Meteo Test Eco Ambientale, mentre “l’ozono bucherella le plaghe statistiche dello schermo”…
“Visioni” come nubi, trascorrono da “Monet” (“brivida violetta sul derma delle crome allevate”), ad una “stanza rincorsa dalla luce / delle primavere rinascenti degli affreschi”. ”Venti & Dei”, portano il soffio di “zefiro lieto” che “lavora per Primavera Petrarca S.N.C.” . La gota gonfia di Eolo diventa quella di Meteo Change, e da “Olimpo tv”, Zeus che chiama fulmini e raduna tuoni è “Murdoch…Murdoch mai più. Meteo Tempi son tornati”.
“Nessun rovescio Sat previsto, ma “qualcosa avviene in alto / quello stesso cambiamento già percepito dall’esistenza”…

martedì 8 aprile 2014

Su Ero Maddalena di Cinzia Demi

recensione di Marcello Tosi 

“Chi era… Ero Maddalena?”, duplicemente si domanda Cinzia Demi, sentendosi come se portasse un nome addosso che è un urlo, che stringe tanto nella carne quanto nella memoria. Un volto che appare come un enigma, come nei dolenti versi di Giovanni Testori riportati in premessa: “Non sapremo noi che faccia hai avuto mai / ne quella che voltandoti potresti avere ed hai”…
Edito da Puntoacapo (2013), il più recente volume della studiosa e scrittrice piombinese, che vive e lavora a Bologna ponendo sempre in ogni suo ricerca, la donna al centro, nella storia, nella letteratura, nella poesia, fa emergere la visione di una Maddalena carnalmente inquieta, straziata e ansimante, come nelle più celebri iconografie che la raffigurano, da Tiziano al santarcangiolese Guido Cagnacci: “ed è di nuovo sera / mi prende lo sgomento / Pietro Luca Giovanni / rivedo i vostri volti / guardarmi come un’intrusa”…
Maddalena è carne di ardore, carne di dolore, carne che cerca di sfuggire alla tentazione, al senso del peccato, che è costitutiva della sua stessa umanità, sottolinea nella prefazione Gabriella Sica.
A partire da un riferimento, da un itinerario preciso che è la città delle sette chiese gerosolomitane di Santo Stefano (“Bologna mia accoglie / potente nelle sue strade”), con il richiamo alla leggenda del vento di Ponente che avrebbe accompagnato la figura di Maria Maddalena, quando la sua statua a approdò all’omonima isola, in Sardegna, sospinta da quel vento stesso.
“Ero Maddalena lo sento / lo so ho la sua stessa vena / sono la sua stessa forma… senza ricordi viva e intera / non più dentro di me / ma in ogni cosa fuori … è la cura / il nome che ho addosso / che brucia memoria… lei mi accompagna bellezza / animale...io sono lei / … e quando scappo nel mondo / io...io lo torno a gridare”.
Uno strazio, una pietà, un urlo che con la citazione di Simone De Beauvoir si fa domanda sulla stessa condizione femminile: “perché Onfale non è riuscita ad acquistare un potere duraturo?”… o come in Dante sul perché Penelope “ne dolcezza di figlio ne la pietà / del vecchio padre / ne il debito d’amore” fan lieta.
Vita dal vero, narrata in versi, scrive Gabriella Sica, che sono “come graffi”, e come “terzine dantesche passate al vaglio veloce di Caproni”, per raccontare la vicenda umana e trascendentale di una “donna di ieri e di oggi” e della “necessità di cambiamento e salvamento che riveste”, per divenire quindi voce delle donne, di tutte le donne che non hanno avuto, non hanno altro che una voce subalterna, soffocata. Come “acqua che pulisce il sangue, trasforma.. fa rinascere un’altra vita”…che produce uno “schianto nel pianto” di “un cuore che grida contro il male”.
Alla maniera del celebre scultoreo Compianto di Cristo morto nella bolognese Santa Maria della Vita, il grido della sua voce appare quello in grado di riscattare il dolore del mondo, e anche “di un Pulcinella di quelli di Scampia” che “mi tende la mano”… perché prorompe in una invocazione d’umanità ferita: “Cristo Signore / dove sei nascosto / in quale via casa borgo periferia…”.
“Sanguinante di sperma e di calci / inchiodata anche io come Cristo”, la figura di Maddalena, scrive nella postfazione Rosa Elisa Giangoia, appare in Cinzia Demi come quella che indica il drammatico smarrimento per una vicenda che ha trasceso l’umano…l’eccezionalità d’incontrare il divino…

“È rimasto un solo bocciolo / una piccola rosa bianca / colta strappata alla sua pianta”.

Poesia e costume in "Orune nel cuore e nella storia" di Mariuccia Gattu Soddu


TraccePerLaMeta Edizioni è felice di annoverare tra i suoi autori la poetessa sarda Mariuccia Gattu Soddu, nativa di Orune, città alla quale dedica l’intera opera dal titolo Ricordi di Sardegna: Orune nel cuore e nella storia.
La donna traccia con attenzione e vividezza l’anima di Orune che nel tempo ha visto immancabili cambiamenti, tanto che il libro che si compone di una prima interessante parte saggistica, è anche un valido manuale di carattere antropologico per poter conoscere un territorio che vive nel cuore della donna generosamente donato con questa opera dal grande valore contenutistico e sociale.
Ad aprire un lavoro che è già ricco ed esaustivo di suo, è una nota critica del giornalista sardo Luciano Piras nella quale si legge: “Intere parti sono pensate e scritte tutte in orunese doc, patrimonio di una cultura, di una mentalità, di un mondo, agropastorale e arcaico, ricco di storia e tradizioni. È la cultura di un popolo di contadini, pastori, poeti, tenores ed emigranti. Orune era e resta il paese del vento, del vento che fischia, del vento che suona, del vento che carezza, vento che schiaffeggia. [Mariuccia Gattu Soddu] ha iniziato a “giocare” con la letteratura in lingua sarda “soltanto” nel 1993, così almeno dichiara lei stessa, anche se è chiaro che ha sempre avuto il vento in faccia, il vento della poesia, il vento del paese dei poeti".




L’autrice:
Mariuccia Gattu Soddu (nome anagrafico Gattu Maria), insegnante in pensione, è nata a Orune nel 1936 e risiede a Nuoro. Dal 1993 si dedica alla letteratura in lingua sarda.
Ha partecipato ad alcuni concorsi letterari ottenendo premi per la prosa (Premio Montanaru a Desulo per tre edizioni consecutive: 1° premio; 2° premio; 1° premio) e segnalazioni per la
poesia (Premio Remundu Piras a Villanova Monteleone; Premio per l’Ambiente a Sarule; Premio Logudoro a Ozieri).



SCHEDA DEL LIBRO:
Titolo: Ricordi di Sardegna: Orune nel cuore e nella storia
Autrice: Mariuccia Gattu Soddu
Editore: TraccePerLaMeta Edizioni, 2014
Pagine: 112
Isbn: 978-88-98643-07-3
Costo: 10€




Info:

lunedì 7 aprile 2014

«Pensi al futuro ma a quello trascorso»: su Asterischi di Francesco di Sibio

nota di lettura di AR

È un cofanetto contenente 30 cartoncini: si inizia con quelli intitolati “Sedie e poltrone” (12), per passare ai “Versi panoramici” (5), seguono 13 poesie singole. È un viaggio fatto da un cittadino-poeta che il verso scelto per il titolo qui sopra (da “Sedie e poltrone” # 5), con la sua salace ironia (che l'autore rivolge anche a sé stesso e a certo diffuso e inerte intellettualismo di oggi), ci pare possa aiutarci ad assaporare con gusto, magari con la pelle a tratti sollevata. Nella poesia che funge da incipit è scritto: “La mia è la semplice voce di chi vuole / guardare curioso senza sconti la realtà, / pronto a sputare l'anima per rianimare l'orgoglio.”
Più avanti, al # 7, Di Sibio osserva che “La metafora è altrove / (…) / come petrolio su ali di uccello / si è smesso di fendere il vuoto”; e al # 9 (con implicito riferimento anche al libro di Giona): “Non posso vivere in una balena / piaccia o no è a mia vita. / Vorrei evitare questi giorni / con le ombre fitte sui miei inganni. / Provo ad accendere un fuoco.”
C'è un invito ad agire (# 11): “Preferisco le mani nel fango a pescare / ipotesi, fattori, cause ed effetti.”
E se “Anche un bagaglio pieno di speranza / cela in sé il virus della malinconia” (“Versi panoramici” # 3) e “il viaggio sia partire non fare ritorno” (ivi # 4), “Qui, dove i gerani mostrano spavaldi il loro colore rosso, / semino progetti e speranze, / innaffio, in attesa che rinasca  qualcosa” (La terra * 18). 
Si procede verso una confessione: “Trovo solo devastazione e guerra nella mia anima. / Vorrei scorgere una luce che penetri nel mio corpo / e fuoriesca impressionandomi” (Sperare * 23), che è una bellissima immagine di resurrezione; “Mi sento come in una scatola / con giusto l'aria che mi serve per vivere” (Come in una scatola * 29).
Ecco, questi asterischi certamente ci provocano, ci spingono a leggere i mutamenti sociali, gli sconvolgimenti politici e ambientali, registrano l'accidia che così spesso alligna in chi si considera “sapiente” e il narcisismo di un'età che desidera davvero non tanto l'epoché (la sospensione del giudizio) ma l'impegno di una parola attenta e solidali che sa “farsi”, che sa darsi. Che la memoria non sia freno, ma combustibile.



 
Commento di Francesco Di Sibio

Carissimo Alessandro,
 

con molto stupore ho letto la tua nota di lettura sui miei Asterischi.
Forse è inutile sottolineare che hai centrato in pieno il senso e lo scopo dei miei versi, le radici profonde o meno della loro genesi.
Se ci è dato un dono, è quello di guardare la realtà, masticarla, digerirla e provare a farla intendere agli altri.
Astraendosi, chiamandosi fuori, non si ha lo stesso impatto.
Non mi è mai piaciuto scrivere parole e versi distanti, non coinvolgenti.
La metafora leggera della sedia parla della gente che sa ancora tirarsi su le maniche e lavorare per sé e per il prossimo.
La poltrona, invece, è l'altra faccia, è la meta di chi fa del populismo la miccia per il proprio successo.
La poltrona è l'abbandonare lo spirito positivo e assuefarsi alla condizione del privilegiato.
Per mia fortuna nella vita ho avuto tanti maestri da cui apprendere briciole di saggezza spendibili nella vita,
non da ultimi i miei attuali datori di lavoro, i vescovi che si sono succeduti nella mia diocesi, dove svolgo un umile servizio.
Non tutte le poesie di asterischi sono autobiografiche, come la 29 da te citata; vuole essere lo sfogo di un condannato a morte in un'epoca dove ancora è lontano il pensiero di un italiano, Cesare Beccaria, che non solo aborriva la morte del condannato, ma metteva in discussione anche l'ergastolo: come fa la pena a redimere, se è per tutta la vita?
Sembrano domande filosofiche, ma sono reali, come le persone che hanno sbagliato e soffrono in una detenzione da cui troppo spesso si esce solo per un suicidio.
 


Francesco Di Sibio, irpino, è nato a Pontedera (PI) nel 1975. È impiegato presso l’Ufficio per le Comunicazioni Sociali dell’Arcidiocesi di Sant’Angelo dei Lombardi-Conza-Nusco-Bisaccia. Nel 2003 la CEI ha distribuito La Passione, una via crucis poetica, in tutte le parrocchie italiane, già pubblicata presso le Edizioni Parva di Rovigo nel 2001. È uno dei curatori della collana foto-poetica Pietre vive edita da Delta 3 Edizioni.Nel 2013 è stato terzo classificato nella categoria narrativa-romanzo al premio “L’inedito”, Lacedonia (AV). Ha realizzato varie manifestazioni culturali, soprattutto reading letterari.

Renzo Montagnoli su La mia casa di Gabriele Oselini

recensione pubblicata in www.arteinsieme.net

La mia casa
di Gabriele Oselini
Prefazione di Gino Ruozzi
Fara Editore
Poesia
Collana Sia cosa che
Pagg. 64
ISBN 978 88 97441 43 4
Prezzo € 11,00


Amarcord

Di Gabriele Oselini avevo già letto Piove, una silloge che mi aveva positivamente impressionato per il languore che lentamente mi avvolgeva nello scorrere quei versi che così efficacemente descrivevano un paesaggio, quello padano, da cui, pur essendo abituato, mi è ancor oggi impossibile non restare attratto.
Questa nuova raccolta, dall’emblematico titolo La mia casa, mi fa sprofondare nell’essenza di una natura e di un modo di vita che va scomparendo, in una sorta di Amarcord che dolce scende dal cervello al cuore. Più che una riscoperta, più che una poesia del ricordo, mi sembra di essere presente al canto di una civiltà che mi ha cullato e che ora vuole abbandonarmi, anche se non è così, perché l’abbandono è solo, pur inconsciamente nostro.
Sono visioni che si ripetono di una tradizione agreste, di un’epoca in cui la famiglia aveva un diverso significato, in cui le ricorrenze assumevano quasi una sacralità che assai presto non potremo che rimpiangere (da Gnolini: “sulla bianca tovaglia / in fila / sinfonia / di forme rotonde / giallo caldo / pieno /…”). Sembra di vedere questi agnolotti appena creati dalle abili mani della massaia, ben allineati, in modo da non incollarsi, dalle forme, dal colore e dal profumo invitante, in tacita attesa del brodo in cui andranno a cuocere per la delizia del palato.
Ma è tutta un’atmosfera che si viene a ricreare, quella di un mondo che assai probabilmente i prossimi nati non conosceranno, mentre gli altri, quelli già con un po’ di anni sulle spalle, hanno inconsciamente disconosciuto, schiavi dell’avidità per un denaro che non basta mai e continuamente desiderosi di un effimero nuovo (da Donna dei ricami: “quale sia / il tuo pensiero / seduta / sulla sedia di paglia /vicino ai girasoli / assetati d’agosto / non so / donna dei ricami /…”). È un’immagine ieratica, di un tempo lento, mai fuggente, una perfetta integrazione di un essere umano con la natura, una visione che ormai non è che un ricordo.
Mi permetto di evidenziare come questi versi non siano aulici, ma nello loro scarna brevità riescono a coinvolgere il lettore, immergendolo in un’atmosfera accogliente e rarefatta. Il prefatore addirittura fa un richiamo a Ungaretti per questa concreta capacità espressiva, non disconoscendo tuttavia che un po’ d’influsso del Pascoli è presente, e in effetti è così. L’abilità di Oselini è stata quella di amalgamare in pressoché perfetto equilibrio la capacità di sintesi del padre dell’ermetismo con la malinconica dolcezza del decadente Giovanni Pascoli, e questo è indubbiamente un merito e fa di questa raccolta un qualche cosa di nuovo nel panorama letterario italiano, ed è quindi anche per questo meritevole della massima considerazione. È inutile che dica che in questo mondo mi piace ritrovarmi, amo riassaporare i gusti di un tempo che è stato, riandare a semplicità di vita ormai sconosciute, e in questo avverto anche lo spirito di un grande poeta, per non dire grandissimo, mantovano come il sottoscritto e come l’autore, quel Publio Virgilio Marone che nelle sue esemplari Bucoliche seppe così bene parlarci di una realtà, in cui uomo e natura si integravano alla perfezione, ideale e perfetto rifugio dagli sconvolgimenti, anche drammatici, di cui gli umili, unici autentici validi rappresentanti del genere umano, sono spesso vittime incolpevoli.
E La mia casa, che dona il titolo all’intera raccolta, bene rappresenta, nel suo esemplare equilibrio formale, fatti ormai irripetibili (“… / e cancelli aperti / su filari / di mele cotogne / pesche / e ciliegie / per il rito / sacro a mia madre / della mostarda / di Natale”).
La mia casa è una gran bella raccolta, di rara elevata qualità.    

Nato a Viadana in Provincia di Mantova il 19 settembre 1953 ed ivi residente, Gabriele Oselini  si è laureato in Pedagogia presso l’Università degli Studi di Parma. Negli anni ’70 ha conosciuto Daniele Ponchiroli, viadanese, caporedattore della casa editrice Einaudi, dal quale ha avuto stimoli importanti e utili alla propria formazione culturale e umana e col quale ha intessuto un rapporto di profonda amicizia. È insegnante di Italiano e Storia presso l’Istituto Tecnico Scientifico “Ettore Sanfelice” di Viadana. Sposato con due figlie, impegnato in politica, ha ricoperto per anni l’incarico di Assessore alla Cultura, Pubblica Istruzione e Politiche giovanili del suo Comune. È appassionato di letteratura e di poesia, con particolare attenzione per quella
latinoamericana del Novecento. Ha partecipato a diversi concorsi locali e nazionali: è stato segnalato alla III edizione del concorso “Pubblica con noi” di 
Fara Editore, con cui ha pubblicato nel 2005 una selezione di poesie all’interno di AntologiaPubblica  e, successivamente, le sillogi Specchio (2006), Finito (2008) e Piove (2011). Ha collaborato con Fuoco fuochino (la casa editrice più povera del mondo) diretta da Afro Somenzari.