mercoledì 30 gennaio 2013

Il canto dell’alloro di Gerarda Pascarella


Cooperativa Universitaria Editrice Studi, Fisciano (SA), 2012


recensione di Vincenzo D'Alessio

Il canto dell’alloro, della poeta Gerarda Pascarella, costituisce la prima raccolta pubblica di versi dopo l’esperienza avuta in vari concorsi letterari nazionali. La premura di dare alle stampe una buona quantità di opere è dettata dalla necessità di forgiare la propria scrittura, di avvicinarsi al pubblico, di interagire con quel mondo interiore che si agita tra ricordi, avvenimenti, dolori, poche gioie: paesaggio intimo a confronto con il lettore.

Scrive nella intensa prefazione alla presente raccolta Carlangelo Mauro raccolta: “La maturazione dell’io, che si proietta nel tempo, è sempre inseguita (…). L’alternanza tra il frutto maturato al calore del sentimento e il ramo secco o l’aridità interiore è un po’ uno dei momenti forti della poesia di Gerarda, anzi può essere metafora dello stesso tessuto poetico, tra momenti di più o meno riuscita creazione artistica” (pag. 9). L’Autrice è alla ricerca dell’eternità misurata tra fede e ricognizioni giornaliere del vissuto. La necessità del rifiuto delle apparenze degli uomini, dei luoghi comuni e il costante dialogo con l’Io interiore, l’anima del mondo, che partecipa al paesaggio, alla sincera vocazione dell’avvicinarsi alla luce del Vero.

La poesia eponima della raccolta raccoglie bene questo dilemma:

“(…) dormire lune placide

Aver dei primi all’oltre

l’iridescente varco

Del mio, il canto

sui passi dell’alloro” (pag. 39)

Avvicinarsi alla Verità attraverso la fede e la ricerca, il più possibile, per rimandare al verso la sete di continuare ad esistere: come l’alloro sempreverde. Il senso della protezione dai mali del mondo, dalle sofferenze che attanagliano il corpo, trovano senso nei versi della poesia Avrei voluto (pag. 120):

“Avrei voluto un focolare

che si stringesse attorno

con la sua brace attiva

a illuminare

l’incedere nel mondo”


Molti sono i richiami agli avvenimenti contemporanei, alla sorte dei meno abbienti, alle esigenze del lavoro scolastico, alla figura paterna, al paesaggio irpino che si allinea con quello interiore sotto una luce solare a riscopre angoli e ricordi. Belli sono i passaggi dedicati alla memoria personale come nella poesia In kermesse:

“(…) Ne hai fatta di strada

da quando avvampavi

sferzata

dai saltelli di corda

o sentivi il fruscio

dei lunghi abiti neri

passarti di dosso

Dove sono

le sedie impagliate

le coperte migliori

gettate devote

sui balconi pudichi

i gradini di marmo

sugli usci ben spalancati

e l’alloro

l’alloro cascante

al di qua del muro di cinta?”

Una corsa in avanti fermata bruscamente dall’industrializzazione, dall’invasione dei media nelle case, nelle famiglie, la scomparsa della “devozione” vista oggi come debolezza verso un Dio che ruggisce ogni giorno nelle strade, nei cieli, sottoterra, negli occhi e nelle menti dei giovani avvinti dalle play station, dagli i-pad, dal meccanismo perverso del consumismo sfrenato dei mercati? Non c’è più la semplicità di chi stendeva le più belle coperte al passare del “Santissimo Sacramento” per le strade del paese. Non c’è più la forza interiore di sorridere all’altro che ha sul volto la morte che l’accompagna per le malattie del secolo. La solidarietà è per pochi, visti nella società contemporanea come dei deboli.

Gerarda, quella vera, è rimasta nel profumo dell’alloro “al di qua del muro di cinta” mentre la città la divora e la disorienta. Le risposte attendono ed affiorano nei versi. Nel silenzio, nel calore dell’estate che si vorrebbe onnipresente. Alla fine emerge la considerazione di maggior valore dell’intera raccolta, della poeta:

“Ho dovuto chiudere gli occhi

Per vederti qual eri” (pag. 101)

Per sognare, per generare poesia, c’è bisogno ancora oggi di chiudere gli occhi esterni e riaprirli nella solitudine del “fare” versi per sé stessi e per chi ascolta.

martedì 29 gennaio 2013

La neve a Napoli! 16 feb

La neve di Francesco Filia (Fara Editore, 2012)

sabato 16 febbraio ore 18:00

sarà presente l'autore
Interventi critici di Giancarlo Alfano, Vincenzo Frungillo e Daniele Ventre.
Coordina Viola Amarelli.

La neve ha vinto il premio Faraexcelsior 2012



L’autore:

Francesco Filia vive e insegna a Napoli, dov'è nato nel 1973. E' stato vincitore della sezione inediti del premio Dario Bellezza (edizione 2001) e finalista del premio Città di Tortona 2008, per l’opera edita e vincitore del premio “Faraexcelsior” 2012, per l’opera inedita. Sue poesie e recensioni dei suoi testi sono apparse su varie riviste e siti e tra le altre nelle antologie "Periferie", a cura di Michele Sovente (Napoli, 2004); "Subway- Poeti italiani Underground", a cura di Davide Rondoni e con introduzione di Milo De Angelis (Net, 2006); nell'antologia "Da Napoli, verso", a cura di Antonio Spagnuolo e Stelvio Di Spigno (Kairos, 2007); nel catalogo di artisti e poeti per i sessant'anni della Repubblica Italiana (Il Laboratorio, 2006); nell'antologia "Il miele del silenzio", a cura di Giancarlo Pontiggia (Interlinea, 2009). Ha pubblicato i poemi in frammenti "Il margine di una città" , con prefazione di Raffaele Piazza e dieci tavole di Pasquale Coppola (Il Laboratorio, 2008) e “La neve” (Fara Editore, 2012).




Libreria Treves
Piazza del Plebiscito 11/12
80132 Napoli
Telefono 081 764 0858

lunedì 28 gennaio 2013

TRA OCCIDENTE E ORIENTE

Alessandro Ramberti, Sotto il sole (sopra il cielo), FaraEditore, Rimini 2012, pp. 86, €11,00.

recensione di Rosa Elisa Giangoia di prossima pubblicazione sulla rivista «Satura».


È di grande ricchezza di pensiero e d’immagini la nuova silloge poetica di Alessandro Ramberti, autore che ha già al suo attivo un’ampia produzione poetica, interessante anche per l’intensa ricerca di sempre nuove e più efficaci modalità espressive condotta nel tempo. In questo nuovo testo, più disteso e pacato nell’espressione, il poeta avverte tutta la ricchezza del sapere dell’uomo, un sapere che viene in larga misura dall’eredità dal passato, soprattutto biblico (“Scopriamo, sì, prendiamo in mano / il destino impastato di Adamo - / il peso concretissimo dell’anima”, in Implicitamente); “Va’ sulla scala di Giacobbe / anche se ne resterai sciancato: / vedrai che nervi e muscoli / li anima / uno spirito più grande.” in Conversione) e che, nello stesso tempo, si arricchisce di quanto elaborato al di là dell’asse privilegiato della cultura classico-giudaica, grazie ad un incrocio che permette di inglobare, anche graficamente, l’Oriente per metterne in evidenza la persistenza storica, la vitalità e la ricchezza di ieri e di oggi. Infatti alcuni dei testi di Ramberti, conoscitore per studi accademici delle culture orientali, sono tradotti in cinese da don Pietro Cui Xingang, coordinatore della Comunità Cattolica Cinese in Italia, e da Alessandro Centanni, come anche in cinese sono riportati alcuni passi biblici. Sintomatica pure la lirica Istantanee, in cui Istanbul è vista come congiungimento di due mondi (“due continenti e una fessura di mare”).
La conoscenza si manifesta per accostamenti ed intrecci, per illuminazioni, che creano un percorso sapienziale all’interno di una percezione esistenziale e storica, che si arricchisce anche con la suggestione che può derivare da figure che hanno compiuto un particolare e coinvolgente percorso di ricerca e di spiritualità, come quella di Pavel Aleksandrovič Florenskij, a cui è dedicata la lirica 8 dicembre 1937, che ricorda la data della morte in un gulag sovietico del matematico, filosofo e mistico, la cui voce di verità, proprio da quel momento, si fa più forte e si diffonde a più ampio raggio: “I fucilieri ti hanno silenziato - /adesso sei nel vento che non soffia: / hai scritto che possiamo // sognando, colorare il paradiso / ammalandoci, scoprire le carte / stupendoci, pregare.”
Il sapere acquisito dalla tradizione e dalla cultura è, però, anche quello che permette di orientarsi nell’attualità, come dimostra la lirica Mangiati, mentre Epicedio è una poesia chiarificante dell’intreccio tra sapere tradizionale ed acquisizioni della nuova cultura scientifica. Infatti nella memoria e nell’omaggio ad una giovane donna defunta (“ad Ilaria”) il poeta vuole rappresentare l’inserirsi del divino nella nostra materialità biologica, come dimostra la tessitura lessicale scientificamente precisa (“cellule”, “neuroni”, “geni”), per mettere in evidenza nella strofa finale (“Noi che sorella morte fa tremare / siamo attirati più dal vuoto del Nirvana / che dalla inquadratura esatta / di una Croce”) la tendenza della cultura odierna a privilegiare un vago ed indefinito al di là, piuttosto che accettare con determinazione e coraggio, anche per gli obblighi che determina nella vita di ogni giorno, la verità della croce di Cristo. In questa linea la meditazione sulla morte, come dissolvimento o diversa persistenza, si fa intensa in liriche (Ai margini del sacro, Notte senza fine) fortemente suggestive per le riflessioni (“come sarà la carne / non più circolata dal sangue / ma semplice impronta dell’anima?”) e per le immagini (“Una matita traccia un segno delebile / ma resta per sempre / il disegno di Dio”), che aprono ad una speranza innervata di fiducia nel divino.
La verità per il poeta non è solo, però, frutto di personale intuizione ed illuminazione, ma è anche adesione ad una Verità, rivelata e tramandata nella storia, come si può dedurre dall’oratorio Rabbunì, dove ad orientarci verso la rivelazione della Verità sono già le parole di Marco (15,38) poste in esergo: “il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo.”), ma ancor più quelle di Maria di Magdala: “I fatti del mio Rabbi sono veri // compiuti: non si possono negare.” Questo oratorio costituisce la seconda parte (Sopra il cielo) della silloge poetica ed in essa, come in un’antica sacra rappresentazione, si susseguono le scene drammatiche della crocifissione, della morte e della resurrezione di Gesù, rievocate con versi di alta tensione spirituale. Quello che viene tracciato è un cammino difficile da accettare per gli uomini, di fronte al quale ci si può decisamente allontanare, come fa Giuda, o si può vivere la tentazione di rinnegare, come avviene per Pietro. A tenere la strada giusta è Maria di Magdala, sempre animata dall’amore verso Gesù che affronta la morte, ma la vince con la risurrezione, donando la salvezza a tutta l’umanità, rappresentata ai piedi della croce dall’apostolo Giovanni, a cui Cristo affida sua madre. A noi resta lo “spirito”, quella ruach biblica, misteriosa manifestazione per sempre di Gesù, come dice Maria in chiusura del testo: “Non ti trattengo più Maestro mio / tu sei, tu vai, tu resti come Rùach.” Oratorio questo di grande fascino, anche alla lettura individuale, seppure molto più intenso nella recitazione che era stata messa in atto di una precedente versione nel monastero di Fonte Avellana con le voci di MassimoSannelli e Antonella Catini Lucente durante la kermesse del 13-15 maggio 2011.


Apprezzabili nel volumetto anche i disegni di Francesco Ramberti, che ritraggono personaggi della Scrittura (Maria, Geremia, Elia, la Samaritana, Giuda, Pietro, Pilato, Giovanni, Maria di Magdala), della tradizione cristiana (Agnese) e della storia della cultura (Boezio, Pavel Aleksandrovič Florenskij, Regine Olsen) con tratti essenziali, ma molto efficaci per la connotazione individuale, soprattutto spirituale.

domenica 27 gennaio 2013

Nuovi SALMI


Edizioni I Quaderni di CNTN – Palermo Ottobre 2012

recensione di Marco Scalabrino

9. Testimonierò col silenzio e col tamburo / il Tuo nome.

Avevo scritto dei Salmi – annota Giovanni Dino – secondo una mia personale esplorazione “nella quale facevo entrare la mia vita nel Salmo e viceversa. Parlando una sera con padre Giacomo Ribaudo, egli mi disse: Sui Salmi si sono sempre fatti studi biblici e teologici ed anche belle traduzioni. Ogni anno vengono pubblicati nuovi lavori e altri vengono aggiornati. Quello che tu stai facendo è un percorso un po’ nuovo e diverso. Decisi quella sera di continuare e ultimare [quel mio percorso] non più da solo ma a più mani, iniziando dalla sua esperienza e collaborazione.”
Assieme con Giobbe, Proverbi, Ecclesiaste, Cantico dei Cantici, Sapienza ed Ecclesiastico, i Salmi costituiscono uno dei libri didattici dell’Antico Testamento. Raccolta di “inni e canti religiosi ebraici – illustra Monsignor Vincenzo Bertolone – esprimono un lungo ininterrotto dialogo tra Dio e il suo popolo e possono essere distinti in lamentazioni individuali e pubbliche, inni e canti di lode a Dio, preghiere di ringraziamento, di benedizione e di maledizione, libri sapienziali e profetici.”

53. Signore / come uno stolto … nelle stanze opache / del mio giorno / vivo.
74. Il nulla ed il denaro sono la novella peste / scorrono tutti i giorni vuoti ed amari.
142. Sono padroni cemento [e] arroganza … si sciolgono i ghiacciai, avanza il deserto / è depredato … il mare … esistono … schiavi, oppressi e derelitti … pochi hanno moltissimo / e troppo poco altri.

E così, in ossequio al precetto del Salmo 149 [Cantate al Signore un canto nuovo], ecco il comunicato del 30 maggio 2010. Dalle pagine di CNTN (cieli nuovi terra nuova), don Giacomo Ribaudo, direttore editoriale del periodico, e Giovanni Dino, coordinatore del progetto, si fanno i promotori di una ambiziosa “operazione poetico-culturale, oltre che biblico-teologica” che aggreghi in una unica opera autori di tutta Italia e invitano pertanto poeti, scrittori, saggisti, giornalisti … a comporre nuovi canti al Signore. Canti che, pur ispirati ai Salmi, pur esaudendo lo spirito e la lettera di quel precetto, loro auspicano possano “risentire di rivisitazione”, possano, cioè, essere ricostituiti “in una versione attinente al tempo culturale e poetico presente”, possano avere “contenuti, visioni, motivi poetici originali.”
Si colgono, nella formulazione di questo invito, due aspetti – poi palesemente esplicitati nel comunicato n° 3 del 26 marzo 2011 – assai interessanti: 1°. che “non gli addetti al lavoro, come biblisti, studiosi della Parola o teologi” saranno i nuovi salmisti, bensì “la voce fuori campo del poeta”; 2°. che agli odierni autori si chiede di “essere se stessi davanti a Dio, all’uomo e alla storia, non rinunciando alla propria personalità critica e al proprio modo di essere e partecipare alla vita e al mistero della fede”, si chiede che il nuovo salmo sia “composto con massima libertà”, che si usi “un linguaggio personale com’è nel proprio modo di comporre poesia, liberi da ogni pregiudizio e ingombro”, affinché si possa “continuare a far parlare Dio attraverso la visione dei poeti di questi tempi”, affinché quella parola “continui ad essere viva ed edificante.”

33. In questo mondo sprezzante e folle … è arduo rintracciarti nel volto / del barbone metropolitano, negli occhi del gitano … è arduo intuirti nell’iride della cascata … nel virgulto d’edera.
133. Diversi … per popolo, / pelle e cultura / l’amore / ci riscopre / fratelli / con le radici nel cielo.
87. Anch’io / sono il Tuo tempio … hai pronunciato al Fonte il mio nome.

“Una bella sfida”, ha considerato qualcuno.
Non pochi hanno rinunciato: alcuni perché non hanno mai scritto su commissione; parecchi perché non si sono ritenuti all’altezza. “Questi nostri amici – appuntano don Giacomo Ribaudo e Giovanni Dino, il 24 ottobre 2010, nel comunicato n°2 – non sanno che i loro timori, i loro limiti sono i timori e i limiti di tutti.”
Tra coloro che hanno aderito nomi noti della cultura italiana contemporanea ma anche qualche giovane penna. Ne scorriamo, oltre a Don Giacomo Ribaudo e Giovanni Dino, una carrellata: Anna Maria Tamburini, Stefania La Via, Anna Maria Farabbi, Anna Ventura, Domenico Pisana, Franco Loi, Marco Scalabrino, Daniele Giancane, Daniela Monreale, Massimo Sannelli, Cristina Casamento, Stefanie Golisch, Francesca Luzzio, Francesco Federico, Rosaria Di Donato, Stefano Rovinetti Brazzi, Lina Riccobene, Senzio Mazza, Roberto Maggiani, Annalisa Macchia, Lucio Zinna, Maria Concetta Naro, Emanuele Verdura, Giò Ferri, Licia Cardillo, Franco Campegiani, Franca Alaimo, Ester Monachino, Elena Saviano, Carmelo Pirrera, Silvana Blandino, Nico Bertoncello, Claudia Radici, Antonella Pizzo, Domenico Cara, Meeten Nars, Eugenio Giannone, Antonio Spagnuolo, Gianmario Lucini, Antonio Fiori, Maria Antonietta La Barbera, Cristina Annino, Melo Freni, Pietro Civitareale, Dante Cerilli, Flora Restivo, Fernanda Ferraresso, Paolo Turturro, Lucianna Argentino, Alessandro Ramberti, Margherita Rimi, Gero Miceli, Maria Gisella Catuogno, Germana Duca Ruggeri, Anna Maria Curci, Giusi Maria Reale … in una larga partecipazione geografica che va dalla Sicilia al Piemonte, dal Veneto alla Sardegna, dal Lazio alla Puglia e che copre località da tutto lo stivale: Palermo, Terni, Taranto, Genova, Rieti, Roma, Venezia, Varese, Torino, Vicenza, Firenze, Ragusa, Milano, Bergamo, Ancona, Bolzano, Potenza, Perugia, Padova, Verona, Sassari, Bari, Agrigento, Cosenza, Napoli, Trapani, Sondrio, Rimini, Chieti, Siracusa, Caltanissetta, Salerno, Bologna, Siena, Catania, Asti …

105. Nel Padre sei giudice, nel Figlio imputato.
70. Tu, che di dure pietre puoi far pane, / fa’ ch’io diventi il tuo strumento.
36. La Tua ala / d’aquila smisurata … scende giù / a liberare la catena / della nostra colpa.

Dopo un faticoso avvio, il lavoro prende forma e don Giacomo Ribaudo e Giovanni Dino allestiscono il comunicato n° 3: “Questo nuovo lavoro letterario si presenta originale ed unico nella storia della letteratura di tutti i tempi. Nuovi Salmi è da intendersi come una cosciente e responsabile interpretazione del salmo assegnato alla luce dei tempi attuali.”
Traiamo dalla prefazione di Giorgio Bàrberi Squarotti: “L’idea di proporre ai poeti d’oggi la riscrittura di tutti i Salmi, da reinterpretare alla luce della nostra concezione della poesia e della responsabilità attuale del sacro, nel tempo tanto contraddittorio e drammatico, è stata una sfida ardua e grandiosa, sublime e ansiosa. Il salmista attuale ha potuto privilegiare non soltanto l’argomento specifico del singolo salmo, ma ha potuto attualizzare il messaggio religioso e spirituale e sacrale di esso, nello spesso strenuo e appassionato confronto fra tema originario ed esperienza contemporanea. I nuovi salmisti si dividono in due prime, grandi categorie. L’una è della riscrittura del salmo nell’attualizzazione di linguaggio, costruzione, immagine; l’altra è quella della novità spesso notevole dell’argomento e dello stesso intento spirituale o più specificatamente sacrale, nella tesa aspirazione a usare il termine “salmo” per rilevare più efficacemente la voce pur tuttora fondamentale della presenza di Dio. Molti testi attualizzano il discorso biblico alludendo ai costumi dei nostri tempi, alla politica d’ora, alle condizioni presenti nel mondo, in forza della consapevolezza che Dio è uguale al di fuori del tempo.”

65. Si cammina danzando per le vie. / Si riposa abbracciati al Tuo silenzio.
47. Sono nel tuo cantare / un sasso / che all’inizio dei tempi / fiorirà.
21. Le nostre voci innalzeremo al cielo / per inneggiare alle tue meraviglie.

Il volume consiste di 157 testi (sette Salmi infatti: i numeri 6, 13, 23, 40, 105, 109 e 116, sono stati reinterpretati da due autori), più quattro altri elaborati inseriti di seguito nella sezione Altri Poeti.
Tutti in italiano, tranne due in dialetto, il 22 e il 69, diversi brevi o brevissimi altri assai lunghi, in versi sciolti eccetto un caso di terzine dantesche, il 17, e uno di distici a rime baciate, il 139, per la più parte riletti in maniera ortodossa, in altre circostanze con coinvolgimento delle esperienze personali, nella attualità, con soluzioni liriche e formali originali.

Già esposti in una essenziale selezione taluni degli esiti a nostro avviso più felici, chiudiamo con una significativa considerazione, quale riteniamo sia la presenza, in parecchi degli odierni Salmi, di Cristo; presenza, ovviamente, non rilevabile nei “vecchi” Salmi, tutti calati nel Vecchio Testamento, prima ovverosia dell’avvento del Redentore, la profezia realizzata. Presenza osservata da Bàrberi Squarotti e ribadita da Alfio Inserra nel corso della sua brillante presentazione avvenuta a Palermo lo scorso mese di Dicembre 2012. Stralciamo, solo a mo’ di esempio: 48: Cristo poi risorto. / Tu, vino e pane sai molto saziare; 68: Tu, il Cristo della croce, / detergevi di speranza gli aridi pensieri; 72: Venne il Messia … raggio di luce che nessuno capì; 127: Ho un appuntamento / con Lui, con Cristo Gesù.

13. Senso del mio errare / sono le tue braccia alla fine / della curva.
                                                                     

sabato 26 gennaio 2013

Su In-chiostro di Giovanna Iorio

Delta3 Edizioni, 2012

recensione di Vincenzo D'ALessio


Le donne che lavorano, in casa, in fabbrica, nei campi, sono un’energia vitale che in pochi sanno riconoscere. Le donne che scrivono, romanzi, poesie,racconti, fiabe, sono la ricchezza del mondo. Scopriamo queste forze con l’aiuto del tempo. Prendiamo in prestito i versi di Emily DICKINSON: “(…) la terra ripone queste vite stanche / nei suoi cassetti misteriosi / troppo teneramente, perché qualcuno dubiti / di un ultimo riposo” per aggiungere un’altra tessera policroma al mosaico poetico di Giovanna Iorio. L’ultima raccolta titola: In-chiostro, ed è stata pubblicata presso le Edizioni Delta3 a dicembre dello scorso anno: “Trafitta da un raggio di sole / la luce scrosta / il legno urla il desiderio / di pelle / si scrolla di dosso / la polvere del mondo / apre cassetti pieni / di terra e radici.” (In-cattedra). Qui la Nostra ricorda i versi del Nobel Salvatore Quasimodo.

Una raccolta sincera e profonda, quasi un pozzo – figura retorica richiamata più volte nelle poesie - dove le acque della nascita del verso si intridono delle luci caleidoscopiche dei percorsi che formano la storia della poeta e quelle di ogni lettore: “Abitano i pensieri / accanto a un pozzo” (Carrucola) – “pozzi che sanno / ingoiare tutto” (Pozzi) e nel contempo l’acqua lustrale compare per indicarci il cammino del desiderio e l’anabasi nel mare della speranza: “rumore di sogni / in un secchio / di metallo” (Pelle) – “il secchio risale piano / gocciola una storia / cigola la carrucola / racconta invano” (Carrucola). Anche qui torna prepotente la lezione novecentesca del Nobel Eugenio Montale: “Cigola la carrucola del pozzo, / l’acqua sale alla luce e vi si fonde. / Trema un ricordo nel ricolmo secchio, / nel puro cerchio un’immagine ride.” (Ossi di Seppia,1920-1927)

La poesia che nasce, in questo nuovo secolo, racchiusa nelle pagine delle raccolte che leggiamo spesso disattenti, accoglie tutto il dolore di una guerra dichiarata alla memoria mediante la velocità delle storie che ci inseguono ogni giorno, come se non esistesse più il Tempo, attraverso i mezzi di comunicazione di massa Il messaggio è raccolto nel verso citato in precedenza : “racconta invano”. Chi ha voglia di ascoltare la memoria collettiva? Chi vuole vestirsi di “vero” per sapersi finito nell’Infinito? La poesia della Iorio, in questa raccolta, diventa sincera proprio quando sfida i luoghi comuni e conduce il lettore verso luoghi impossibili a passi impreparati poeticamente: “Non stare a pensare / a me / (…) a questa voce / sporca di vero / (…) a questo inchiostro che non so / ingoiare / nemmeno ora che tu / sei fuori e io dentro / alla clausura” (In-chiostro).

Il chiostro e la clausura: che testimoniano il tempo che scorre, la solitudine del poeta difficile da condividere perché essa si pone al di fuori del caos circostante: “Un livido sul cielo / cambia colore / ora rosso ora azzurro / ora nero / intenso dolore / che nessuno sente”(Temporale & Imbrunire). La poesia non ha mète né soluzioni da offrire. La poesia è un canto che continua all’infinito, brucia sulla lingua e nella mente: “(…) si appiccica alle dite / sporca pagine di vita / (…) qui dove tutto / torna indietro / qui e in nessun altro luogo / nasce il canto” (Qui). Questa raccolta ricca di anafore, che si affida all’enjambement per raccontare verso su verso la poetica della Iorio, che sceglie l’assonanza e la rima per rendere musicale il percorso, che si affida ai colori per indicare la gioia di vivere, che odora di sole nelle scelte di luoghi e amori, è il frutto fecondo di una poeta che oggi ha raggiunto il buono del suo percorso, ha maturato l’inchiostro della semplicità che dura nel tempo: “Vorrei una pagina bianca / larga una vita / (…) una pagina bianca / tutta mia / dove essere / inchiostro” (Punto e basta).
Questi versi profumano di nuovo. Anche il dolore diventa pudore nel verso che si snoda: “(…) io scrivo / a brandelli con la carne / che chiede aiuto” (Inchiostro rosso) – “e la vita / t’avvita la gola” (Pochi minuti). Vengono alla mente i versi della conterranea Maria Luisa Ripa, scomparsa in giovane età al culmine della sua carriera artistica: “… e Dio ci tende la mano / ci soffia la speranza nel cuore / finché il corpo si assopisce / e lo spirito emerge / oltre la vita…”. Tutto scorre in quell’acqua dell’inizio, nel chiostro di un luogo fantastico, nel pozzo che raccoglie miti e ricordi. La carrucola cigola, risale il secchio grondante gocce che sono lacrime e ricordi, ci si affaccia a guardare, a sognare, a sperare, nell’immensità del silenzio la parola è colore.

Bella l’immagine di copertina rappresentante un pettirosso: piccolo e battagliero, solitario e silenzioso uccello delle siepi. Come apre solenne l’epigrafe posta all’inizio della raccolta ripresa dal poliedrico profeta Pier Paolo Pasolini: “Io sono una forza del passato. / Solo nella tradizione è il mio amore”. L’invito è chiaro dall’inizio di questa raccolta dedicata, come un desiderio, ad Alan: marito e druido della poeta.

giovedì 24 gennaio 2013

Dire e nascondere





Per sortilegio,
un virus maligno
s’acquattò 
tra le oblique pieghe
della mente,

affatturato
feticcio
del malocchio,

affanno
di segreti
che non seppi
o mai compresi.

(14 gennaio 2013)



La Poesia dice, ma nel contempo cela.
Simula di voler mostrare, svelare; invece, soprattutto nasconde, occulta.

Ha forse un po’ “paura”: nasce da religioso timore, da una sacra apprensione, da una misteriosa, inspiegabile inquietudine.

Ciò che dichiara è (dev’essere?) alla portata di tutti, ma quale mera “forma vuota”, entro cui ciascun lettore potrà, volendo, situare la propria specifica, personale, inconfondibile, talora segreta e inconfessabile (persino a lui stesso) esperienza di vita.

Parole, immagini, metafore, simboli, correlativi oggettivi “appaiono” immediatamente leggibili nel loro senso e valore letterale (in questo risiede l’universalità della poesia? Nel fatto di poter essere fruita da tutti quale disponibile contenitore da riempire? E più funziona come tale, più chiunque ha modo di calarci quel che vuole, più di autentica lirica si tratta, forse?), ma a cosa esattamente facciano riferimento, a quale urgente o struggente vissuto siano concretamente riconducibili non lo sapremo mai.

Neppure il poeta riesce sempre a leggere fino in fondo oltre le proprie parole e figure, che a volte lo hanno “immediatamente” catturato, rapito, stregato, imponendoglisi unicamente in virtù della propria stessa e autonoma forza/suggestione espressiva, come in un sentore/presentimento di qualcosa “che non so”… di Verità provenienti “chissà da dove”…

In tale senso, la poesia confermerebbe la propria natura di barbaglio da indagare, di cui cercare il bandolo, il punto d’origine, il mistico istante e scatto da cui il gomitolo, chissà quando, come e perché, prese a svolgersi.

Ma quali sarebbero i “segreti” del poeta?
Forse neanche lui li sa, crittati come sono oltre gli invisibili, difensivi muri di fuoco di quell’inviolabile cifra che è il verbo poetico.

Scrissi, tempo fa, di una certa personalità “a strati” (a cipolla): da quello “pubblico” al più interno/interiore/intimo, inconfessabile, ignoto persino al suo custode, per non dire “carceriere”:

Come se la nostra esistenza si ‘avviluppasse’ e quasi raggomitolasse, rannicchiasse (molto probabilmente a scopo difensivo) su almeno tre strati: in quello più esterno/esteriore, del tutto pubblico, sociale, alla libera e piena portata di chiunque, non accade mai nulla che abbia veramente senso; in quello intermedio si agita e ‘pretende’ di esprimersi tutta una serie di vissuti, pensieri ed emozioni che riveliamo di rado, e soltanto a certe persone - non necessariamente pochissime -, durante speciali frangenti della nostra esistenza; in quello più occulto, interiore, che non palesiamo ad alcuno, ‘riposano’ più o meno indisturbate talune ‘immagini’ di noi, a noi stessi sovente ignote. 
Se ne stanno lì i codici della vulnerabilità di cui con rara efficacia scrive Björn Larsson ne I poeti morti non scrivono gialli (Iperborea, 2011).”

Nella poesia, infine, il poeta parla di Sé per non dire dell’Altro, o dice dell’Altro per non parlare di Sé.

A tale scopo, fa talora ricorso ad una sorta di narrazione in terza persona (metodologia psicoanalitica discretamente efficace), per parlare di Sé; talaltra, racconta in prima persona cose che, ad esser precisi, riguardano l’Altro (uomo o donna: non sempre, non necessariamente quest’ultima, se l’autore è un uomo): ma la poesia, come s’è detto, simula e dissimula, finge.

“Leggerla” è allora scavare, far luce entro una tale affascinante reticenza spinta fino alla menzogna.


martedì 22 gennaio 2013

Su Senza fiato 3 – Lasciami correre

a cura di Guido Passini, FaraEditore, 2012

recensione di Vincenzo D'Alessio
 

senza saperlo nemmenoAppartengo ai giovani che hanno vissuto i sogni degli anni Sessanta, le paure dell’atomica e le speranze di superare la sofferenza mondiale. C’era una canzone, tra le tante,  che allora ben  rappresentava la nostra vita e cominciava con questi versi: “C’è un grande prato verde / dove nascono speranze / che si chiamano ragazzi./  Quello è il grande prato dell’amore.” (Un mondo d’amore)
Guido Passini ha interpretato, oggi, con lo stesso doloroso entusiasmo il canone dell’Amore nel ciclo delle pubblicazioni che recano il titolo Senza Fiato, edite dalla casa editrice Fara di Rimini. Della malattia “Fibrosi Cistica” in televisione, per radio, sui giornali, se ne parla poco: purtroppo!  Allora c’è chi, portatore di questo fardello, si è fatto carico di divulgare la realtà nella quale si muovono le migliaia di persone afflitte da questa patologia. Passini: un atleta che misura i suoi passi e sa che alla fine della corsa potrebbe non reggere allo sforzo intrapreso.

Lo hanno testimoniato in tanti lungo il tragitto intrapreso in questi anni: anche coloro che oggi sono angeli nel firmamento. C’è chi vive con la paura costante della fine della vita e chi, come dimostrano le pubblicazioni che Passini ha portato avanti, chiedono di morire vivendo i propri giorni con l’entusiasmo degli atleti: proprio questi  che di fiato ne hanno sempre troppo poco. “Un mondo d’Amore”, sì!, è il momento di esclamarlo,  soltanto l’Amore salva l’umanità dalla triste sorte alla quale è destinata alla nascita. Di tutte le testimonianze raccolte in questi anni la chiusa della composizione è stata affidata ai bambini, a quei cuccioli che tanto fanno innamorare chi li guarda, anche quando soffrono per sopravvivere.

Per me stesso ho scelto, senza fare torto a tutte le belle testimonianze raccolte in quest’ultima antologia solare, una Ninna nanna che avrei cantato ai bambini che  si addormentavano (mi ricordano le filastrocche immortali di Gianni Rodari): 

Ninna nanna, ninna bella,

col sapor di caramella,

col profumo delle viole,

con l’amore di ogni cuore…

(…)

Ninna nanna, ninna nanna,

di canditi e fior di panna,

per poter chiudere gli occhi,

e sognar fiabe e balocchi.  (pag. 114)
 
Concludo su questo foglio di carta, e vorrei tanto che fosse come un aereo di quelli che realizzavamo sui banchi di legno della scuola elementare piegando con cura le ali e poi, scaldando con il fiato la punta di questa forma aerodinamica, lo affidavamo in volo all’aria libera di un azzurro cielo di primavera: testimone del mondo d’Amore che è dei bambini che credono: “Forse con i miei trent’anni non riuscirò a vedere la fine di questo tunnel, ma voi bambini, voi ci riuscirete di sicuro! Siate folli, siate affamati ( e ricordatevi gli enzimi)” (pag. 138, P. Baingiu).


Sono uscite le Esecuzioni di Alberto Mori






Alberto Mori
Esecuzioni

€ 11,00 pp. 58 (Sia cosa che # 96)
ISBN 978 97441 20 5

In copertina foto dello stesso autore: “Music for Chairs” (2012, collaborazione grafica di Dario Longhi).

Prefazione di Franco Gallo

8
Alla Playlist aggiornata
sensori divampati dalle casse acustiche
L’elenco del rotolo incenerisce al sole del sitar
(2:23)


Se, come suggerisce nella illuminante Prefazione Franco Gallo, chi legge testi intrinsecamente dotati di ritmo come le poesie “interseca a sua volta nella poesia un tempo proprio, un suo soffermarsi maggiore su alcuni passaggi”, chi le mette in scena (come fa il poeta-performer Alberto Mori) svolge una preziosa funzione di “mediare il tempo suggerito della poesia con un adesso-che reale (ogni adesso è un “adesso che”, ogni tempo è relativo a uno spazio e si definisce in rapporto scambievole con quest’ultimo).
Un pubblico, un ambiente, una maggiore o minore sonorità, un gioco di interazione tra e con gli astanti, uno stato specifico della propria persona inducono a trasformare, per la prima volta, il tempo suggerito della poesia on tempo cronometrabile, fatto intersoggettivo che rende l’oggetto poetico decorso temporale vero e proprio.”
Si attua dunque quella “esecuzione” irripetibile che pure ogni lettore – immergendosi in queste pagine di silenzi sonori, immagini provocatorie e suggestive metafore della nostra quotidiana realtà – può godere e architettare in proprio, impossessandosi dei versi “per far uscire la poesia dal suo rifugio aere perennius, il libro, e di restituirla al flusso divoratore del tempo”.


Alberto Mori, poeta performer e artista, sperimenta una personale attività di ricerca nella poesia, utilizzando di volta in volta altre forme d’arte e di comunicazione: dalla poesia sonora e visiva, alla performance, dall’installazione al video ed alla fotografia. La produzione video e performativa è consultabile on line sulla pagina YouTube e Vimeo dell’autore e nell’archivio multimediale dell’Associazione Careof / Organization for Contemporary Art di Milano. Collabora inoltre, con molti fra i più noti poeti contemporanei, italiani e stranieri, per la realizzazione di letture pubbliche, manifestazioni ed eventi dedicati alla poesia. Negli ultimi anni più volte finalista del premio di poesia “Lorenzo Montano” della rivista «Anterem» di Verona.
Dal 1986 ha all’attivo numerose pubblicazioni.
Nel 2001 Iperpoesie (Save AS Editorial) e
nel 2006 Utópos (Peccata Minuta) sono stati
tradotti in Spagna. Per Fara Editore sono stati editi Raccolta (2008) Fashion (2009) Objects (2010), Financial (2011) e Piano (2012).
Website: www.albertomoripoeta.com










grafica Kaleidon
© copyright fara editore

Guido Passini (a cura di) Senza fiato 3 – Lasciami correre

Fara Editore 2012, € 17,50

recensione di Narda Fattori



senza saperlo nemmenoIl libro che prendo in esame è una miscellanea che è attraversata da un filo che cuce i diversi scritti e da un fine condiviso.

Senza fiato 3  è dedicato ai bambini ammalati di fibrosi cistica, ai bambini con il fiato breve, quelli che non possono correre. Un tempo la mortalità per questa malattia genetica era precoce e altissima, ma si sono fatti ricerche e progressi, così l’aspettativa di vita supera quasi sempre la soglia dei primi enta e forse dei primi anta; noi vorremmo che non avessero soglia se non quella che incontriamo ciascuno di noi.

Il curatore, Guido Passini, è affetto dalla malattia ma non si è arreso. Ha creato un'organizzazione per sostenere la lotta contro la fibrosi cistica, promuove progetti letterari condivisi e personali.

Questa antologia richiama l’attenzione sui bambini portatori di fibrosi e crea attorno a loro un girotondo di persone che vogliono sostenerli con un soffio e un dono: un racconto, una filastrocca, una poesia…

Mi pare una scelta molto lungimirante quella di Guido; le prime due antologie erano attente agli adulti, ma la malattia si preannuncia fin dalla tenera età, quando ancora manca la consapevolezza e i piccoli pazienti potrebbero abbattersi e assumere comportamenti da vinto.

La presenza affettiva e fantasiosa degli adulti rincuora e dona loro la forza per  non abbattersi.

L’impegno che profonde Guido Passini per la conoscenza della malattia (tiene conferenze e colloqui ovunque gli venga chiesto) e per la battaglia per una cura sempre più efficace  merita plauso e attenzione.

L’antologia è nata per concorso–cooptazione; non ci sono premi, ma che dico, c’è il premio più grande: la volontà di contribuire attivamente per migliorare il mondo, ciascuno attraverso le sue competenze.

Il libro che ne è scaturito è piacevole nella sua varietà di generi sia per una lettura adulta che per una lettura rivolta ai bambini e, anche questo conta, vi sono presenti firme significative della realtà culturale italiana. Credo che ogni scuola primaria e secondaria inferiore dovrebbe averlo nella biblioteca di classe e, di tanto in tanto, accompagnare la lettura di un racconto o di una poesia con una riflessione.

Credo sia più significativo, educativamente parlando, questo comportamento che chiedere i due euro per le più varie e disparate e giuste cause; l’alunno che riflette è protagonista e si sente attivamente coinvolto. Credo che questa sia la motivazione dell’impegno del curatore.


domenica 20 gennaio 2013

Su Una città chiamata le sei di mattina di Valerio Grutt

 Edizioni della Meridiana, Firenze, collana «tutt'altro»

 nota di lettura di AR

«Farei l'alba e le linee del cielo / con i segni lasciati dal cuscino / sul tuo volto appena sveglia, meraviglia / che ti togli dal sonno e vieni come gli uccelli / di giorno, la tua risata  è chiamare il bene / per nome…»: sono i versi iniziali dell'utlima poesia di questa straordinaria raccolta di Valerio Grutt. Straordinaria perché nella sua pirotecnica essenzialità va proprio in cerca del lato dimesso, quotidiano, magari negletto, comunque in ombra, se non nascosto. della realtà e lo fa esplodere. Semplicemente. Umilmente. Onestamente. Come rileva nella partecipe Introduzione Davide Rondoni: «se un uomo vuole abitare “in una città chiamata le sei di mattina” significa che intende dimorare  nell'orizzonte della possibilità, del nascente, dello svelarsi» (p. 8). La vita è prodiga di batoste, ma anche di opportunità. Grandi ferite si accumulano e più o meno si cicatrizzano, e cresce al contempo il nostro stupore per un esser-ci, un esistere, un relazionarci fra luce e buio che è una condizione “capace” di grandi cose. Dall'abisso in cui ciascuno può venirsi a trovare, forse noteremo  quel gancio che è l'eterna, latente energia di un amore che brucia e trasforma. Così anche l'elaborazione del lutto per il padre perso da bambino: «nella sala d'attesa / tolsero l'acqua al pesce resso // il dottor temporale disse di chiudere le porte rimaste socchiuse // ci caricarono il buio alla nuca e spararono / (…) / hanno tolto l'uomo / hanno sradicato le sue mani dalle mie // (…) // quando tornerà non sarà buio il corridoio / si siederà a tavola e dirà: “perché avete aspettatto tanto… // potevate cominciare”.» (p. 18); «da bambino pensava che il bianco era il mio colore / poi ho cominciato ad amare // senza fare rumore è la strada ad andare / più di noi che ce la vediamo passare sotto» (p. 27). Un tratto caratteristico della poetica di Grutt mi sembra l'ironia sottesa che non è mai accusatoria, ma piuttosto amorevole ed empatica, unita a una verve spiazzante e immaginifica che sa costruire “messaggi” deflagranti con ingredienti apprentemente umili eppure sapientemente (soffertamente) scelti. C'è insomma la stoffa e lo stile di un vero poeta (come del resto afferma subito Rondoni) in queste pagine che smuovono e ci immergono nella tragicommedia della vita: «sono in bilico sul balcone storto / e vieni tu con l'anima a tracolla // non sai bene cosa dire / vieni da dove gli uccelli giocano alla lotteria // con le ali prese in prestito / vieni e dici: non c'è tempo // ho già buttato la pasta / amore mio» (p 29).

mercoledì 16 gennaio 2013

Giovanna Iorio, “Una Venere nel Tevere”, Inedito, 2012

recensione di Vincenzo D'Alessio

Non sono molte le occasioni di leggere raccolte di poesie che, nel mio sentire di lettore, risvegliano quell’energia totale che muove i miei versi. Energia che attraversa il tempo incurante del male che la circonda, delle trappole che la fine dell’esistenza impone, delle sconfitte e delle perdite che avrà lungo il cammino. La Poesia è l’energia che supera il tempo e immette nell’aria che respiriamo l’ossigeno puro che alimenta la vita. Con la forza di questa energia il nome del poeta rimane per sempre nella civiltà degli uomini.

Giovanna Iorio con questa nuova raccolta intitolata “Una Venere nel Tevere” ci mostra il felice momento della sua energia compositiva: un vigore che trascina come la corrente del fiume, scelto quest’ultimo quale topos di tutto l’arco narrativo della raccolta. L’assonanza, le rime, a partire già dal titolo della raccolta, le similitudini, l’uso dell’asindeto per lasciare scorrere facilmente il verso, l’enjambement per disporre le pause all’interno del corpo poetico, l’alternarsi di versi e prosa poetica, permettono a chi legge questa raccolta di attraversare le insidie delle onde del fiume Tevere proprio con l’aiuto della poesia: fragile imbarcazione che tenta di raggiunge la riva.

L’esergo si avvale delle voci antiche di Apuleio, Plinio il Vecchio, John Cheever, perché la Storia è un continuum, il nascere da una sorgente e il finire nella vastità del mare, porsi in ascolto dell’Umanità che ci ha preceduto e ha lasciato dietro di se il grande racconto della vita. La scoperta di un tempio dedicato a Venere Cloacina vicino all’attuale Basilica Emilia è l’episodio che dà il via al disvelamento, all’iniziazione, come la neofita nella Villa dei Misteri di Dioniso a Pompei: “emergo da un’onda / con le pietre nel cuore / gli occhi verdi di alga / la mia lingua pronta” (Cloacina). Il passato deve confluire nel presente per riaccendere l’energia della continuità nel cambiamento: “Il Tevere gonfio si è fermato sotto i ponti a dormire – come un barbone qualunque in cerca di riparo. Ne sento il respiro – il corpo nascosto tra gli strati di pietra come un fossile vivo. Stasera c’è abbastanza silenzio in casa e nella mia vita per un’archeologia della memoria.” (Monologo di un fossile).

Da queste fondamenta parte la ricognizione di una provinciale nella città che è stata la capitale del mondo antico ed è il centro vitale della penisola che abitiamo. Un luogo denso di archeologia della memoria collettiva e personale. Il luogo scelto dalla poeta come emblema del viaggio personale nello scorrere inesorabile dei tempi: pantarei! – e il Tevere, reso umano nelle forme di un barbone, osserva da millenni l’evolversi e l’affaticarsi del genere umano per lasciare di sé una testimonianza. La Nostra, come asseriva Cicerone in Senato, è una provinciale giunta a Roma per lavoro. Nel silenzio della propria casa, della propria esistenza, nell’ascolto dell’ispirazione a cosa può paragonare il suo “fare” poetico?, al gesto più sacro e antico che conosce: “Impasto il pane. / Il pane sente tutti i pensieri / è colpa del lievito. Lui sì che / è sensibile, si gonfia / di pena, di gioia, di rabbia.” (Tic Tac Tic Tac). Poiein: arte antica, favola senza tempo, evasione dalla realtà (che costringe al dolore per l’abbandono dei sogni, delle speranze), fragile guscio che potrebbe infrangersi facilmente alla violenza nelle onde della Storia.

Il sole meridiano scalda ogni composizione di questa raccolta a dimostrazione che la solarità greca della Nostra non l’abbandona mai : “ (…) una falena / ha ballato e lottato con la morte / (…) la battaglia è durata ore e ore / (…) non resta nulla di un disperato terrore / l’amore bruciato / ali leggere che hanno vibrato / baciando il sole / in una bolla di vetro” (L’amore rubato). Versi che rammentano la “larva argentea” del Satyricon. Nel caso della Nostra però l’Amore, rappresentato dalla dea Venere, salva la piccola falena destinandola alla memoria collettiva per il suo coraggio: “la sfida di un piccolo insetto” (ibidem).

L’Arte della poesia trova in questa raccolta, come in una sorta di poema epico, la sua energia eterna in quel lievito che sa dare alle parole la vita eterna: “ (…) come se il fiume / fosse acqua / mescolata a lievito / la melma diventa / pane e un mondo / minuscolo non è più / invisibile.” (Lievito). La parola si fa pane visibile e sfama l’anima di chi legge. La minuscola vita umana diviene eterna mediante il gesto antico della creazione poetica: “Se solo potessi / mettere la vita in un bicchiere / goccia a goccia per te / (Un cielo da bere). Anche il divino trova posto al femminile in una sequenza poetica di mirabile forza: “(…) E uccideranno anche me / la moglie di Gesù / con parole appuntite come chiodi / la mia croce in cima al monte / della pagine bianca. / E anch’io avrò apostoli fedeli / le mie parole mi aspetteranno ai piedi / del mio sepolcro. / Il lenzuolo / che metterò sul mio volto / l’ho ricamato da sola.” (La moglie di Gesù).

La femminilità offesa, umiliata, uccisa, da secoli trova forza in questi bellissimi versi che la Iorio ha immesso nel bacino della Storia. La serenità si espande in tutta la raccolta con il richiamo ai colori più vivi: l’azzurro, il rosso, il giallo, il magenta, il bianco: tutti a simboleggiare l’amore per la vita che anima l’esistenza della Nostra. La forza della semplicità è l’energia vera che muove il lungo viaggio descritto in questa raccolta poetica: “Io non vorrei mai / ferire / (…) Io vorrei saper diventare /lieve / (…) Io vorrei saper mettere / intorno al buio / (…) Eppure io so solo / infierire” (Incandescenti radici). L’anafora, usata molte volte, lascia intendere con forza la necessità, da parte della poeta, di arrivare al cuore degli uomini, di comunicare la necessità di seguire il percorso del tempo senza distruggere le radici.

Il ricorso frequente all’enjambement, adottato dalla Iorio, mi riporta alla mente la poeta Patrizia Cavalli della raccolta Poesie pubblicata da Einaudi. La forza creativa della Iorio poggia sulla forza feconda della memoria collettiva, del senso inesplorato delle cose, degli oggetti che ci circondano a formare il quotidiano: animali, alberi, giorno, notte, tempo, autobus, la rete informatica e il suo vuoto. Tutto ha vita e si perde se non fosse per la memoria della parola che le tramanda: “(…) pura follia è un viaggio verso la terra promessa / aggrappati ad un frammento solo / mentre il mondo si disgrega e abbraccia / il molteplice.” (Pangea)

La poesia è il frammento, la zattera, a cui il naufrago/poeta è aggrappato mentre gli uomini sono afflitti dalla molteplicità delle immagini, degli sconvolgimenti, degli input che arrivano loro a sollecitare tutti i sensi a disposizione. In questi momenti la poesia lievita, raggiunge il sogno: “Sogno di potermi svegliare all’alba come un uccellino. (…) Avvolgermi in una lunghissima vecchia maglia. (…) Non scrivere nulla. Pensare parole. (…) Sbriciolarmi per loro.” (Una casa nel bosco). La metafora della “lunghissima vecchia maglia” è l’energia forte della memoria, radicata, innervata in superficie nel corpo della Iorio, come un ulivo secolare della terra del Sud. La ricerca della memoria nella storia collettiva degli uomini è l’aratro che segna i solchi sui fogli bianchi di questa raccolta poetica, completa in ogni campo. Metaforicamente il pane è ora nel forno, il percorso lungo fiume, l’estraneità dei luoghi, non spaventano più la farfalla/poeta che ha spiegato le sue ali nel vento: “Da bambina a volte / all’improvviso prudeva / un punto in mezzo alle spalle / un punto che non riuscivo a toccare / correvo da mia nonna ad implorare: / - Nonna, ti prego, non lo riesco a grattare. / Allora lei mi diceva, infilando la mano / tra le scapole magre: - Mangia o il vento ti porta lontano, / guarda hai le ali.” (Il vento, le ali).

Il volo, il sogno, ora sfamano attraverso questi bellissimi versi il viaggiatore: “(…) quando penso alla lunga corsa del mondo verso il niente / mi aggrappo alla voce” (Il ventre del buio). La Iorio vuole divenire metaforicamente il pane, in briciole, per sfamare gli animali che la circondano nella casa nel bosco. Rendere l’energia poetica assimilabile da tutti: “Non chiedermi di mettere in un cassetto buio / la mia storia / (…) dove ogni parola / incontra il fuoco immenso della Storia / (…) è una battaglia persa / del fuoco contro le scintille / ma non siamo soli / il cielo è pieno di piccoli fuochi.” (Piccoli fuochi).

L’intera raccolta è un vibrare d’amore in ogni piccola forma. La ricerca costante di comunicare con se stessi e il mondo naturale che ci circonda. Giovanna Iorio ha elevato una sublime preghiera alla Dea Iside, al figlio Horus, affinché riportino l’uomo in quell’Eden dal quale è stato scacciato a causa della sua ignoranza, a causa del suo volere a tutti i costi possedere l’energia del Creato. Ora la strada è indicata dai versi di questa raccolta. Indicata di fronte alla maestà della città eterna, Roma, del fiume Tevere che la lambisce e che ha visto popoli e vicende per millenni. Il richiamo all’uomo moderno è forte e scoperto: “I cancelli. Si chiudono sempre alla vita. Chi ha creato i cancelli? Il primo l’ha messo l’angelo con la spada al giardino dell’Eden. Scacciati, noi siamo stati scacciati. Da noi stessi. Ci togliamo i frutti dal cuore come se potessero riapparire. E invece la pianta muore. A poco a poco. La pianta muore.” (Non più il giardino dell’Eden).

Chi ricerca nell’essere la forza dell’Amore ponga il cuore in ascolto.

Su La festa di un giorno normale di Stefano Maldini

Raffaelli Editore, dicembre 2012, pp. 60,  12,00

nota di lettura di AR



La raccolta è suddivisa in tre sezioni: “Viole del pensiero” (fino a p. 25), “Nuvole” (fino a p. 41) e “Fiori di mandorlo”. Le poesie occupano solo le pagine dispari avendo quindi sempre a sinistra lo spazio bianco del silenzio, di ciò che è inesprimibile ma che è necessario spazio perché noi (e le nostre parole) possiamo prender corpo, così come troviamo nell'esergo di Nino Pedretti scelto per introdurre l'ultima sezione “Senza dir nulla a nessuno / e senza un preventivo di spesa / il mandorlo stanotte ha messo i fiori”.
Questa umile “festa quotidiana” di Maldini ci pone davanti all'amore, alla libertà, alla verità. Nella notevole e utilissima Prefazione, Francesco Gabellini scrive: “Credo che Stefano Maldini sia uno di quei poeti, e pertanto di quegli uomini, cui appartiene la grazia”. Sottoscriviamo e aggiungiamo che la grazia implica il vaglio della verità.
La vera verità è intangibile, afferisce al mistero, è la luce instancabile che corrode i confini della libertà e discioglie (ma non distrugge) al contempo il nucleo del male che ci pone davanti alle scelte, quotidiane o cruciali che siano. L'esergo celaniano scelto da Maldini – “Chi dice la verità, dice le ombre” – ci ricorda che le parole possono evocare, emozionare, creare metafore, analogie, condividere pensieri, ma sempre come atto di fede, un atto che implica un salto appunto nell'ombra, perché la luce assoluta le (ci) vaporizzerebbe, se non ci si abbandona al mistero della grazia (ovvero all'amore gratuito e incondizionato) del Padre.
Questo poeta-viaggiatore si confessa agostinianamente usando correlativi oggettivi palpitanti con una ironia evangelica (amorevole): «in questo giardino di rabbia / ho ripensato alla vita / a come ci consuma le parole / un silenzio e li ho sentiti / chiamarmi piano dai rami / come farò adesso / a pronunciare uno per uno / i loro nomi arancioni / a ringraziarli / a non lasciarli inghiottire / dalla voce del tempo / i fiori nuovi dei melograni?» (p. 21); «partendo ti riempio / silenzio bianco / e prigioniero mi riconosco / tra il tuo deserto / e il mio inchiostro di senso» (p. 23)… sì perché il senso è in fondo in-chiostrato, cioè chiuso nel chiostro di una grammatica, di una sintassi, di un lessico, di una ideologia, di un credo che cercano di esprimerlo e di condividerlo. Le lettere, che oggi più dell'inchiostro usano i pixel, sono molecole per dare forma a una poetica che parte da terra (anche dalle sconfitte) per tendere “festosamente” oltre (cf. p. 25).
Con l'amata al fianco dormiente in un velivolo sopra l'Altaj, il Nostro si chiede: «passeggio intanto e sono / un'acqua ancora, un raggio / bianco, una betulla – forse / non sono davvero più nulla» (p. 33). E più avanti: «Francesca le mie mani / rondini da te ritornano / giorno dopo giorno» (p. 51); «sgusciamo insieme / tu dalla malinconia / io dalle interpretazioni / se ti recito ti accolgo / la distanza non si sfuoca / e il corpo che mi parla / è un'altra lingua» (p. 57). Questi ultimi sono i versi che chiudono il “giorno”. Ci sembrano un bellissimo, emozionante, compendio della poetica di Stefano Maldini.