sabato 29 settembre 2012

Su L'emozione dell'aria di Lucetta Frisa


recensione e scelta di Narda Fattori

La musica è vibrazione d’aria, aria che si piega, corre su precipizi, sprofonda, risale, volteggia lieve come una farfalla, sfugge alla presa, capitombola, si muove elegantemente come i cavalli al dressage, …, molto concisamente, forse superficialmente, la musica è aria che emoziona e ci trasporta dentro, fuori, adagio, solenne, allegra, andante…
Lucetta Frisa si fa penetrare da questa emozione e, mutando il ritmo, il timbro e la melodia, varia il suo dettato, il contenuto dello stesso che può elevarsi, ma mica poi tanto, perché la musica, arte sottile e matematica, trascende la quotidianità ma mai l’individuo perché di esso è prodotto, arte e non merce, e quindi è una grazia e una bellezza o un dramma e un abisso che gli restituisce la possibilità creativa, quel prezzo terribile che paga da quando volle mangiare all’albero della conoscenza. Il titolo stesso è una azzeccata sineddoche: è la persona che si emoziona alla vibrazione dell’aria nella musica.
Lucetta Frisa ha già trasposto elegantemente le emozioni suggerite da dipinti famosi e anche da essi, in una felice contaminazione artistica, si è fatta penetrare, è entrata in dialogo.
Con la musica non si può dialogare, puoi solo assumere la disposizione più consona all’ascolto: tecnico se sei musicista, intimo, intrapsichico se sei poeta.
Ecco come ce lo dice: “voci/ voli/ fiato/ di chi ama o muore/ l’emozione dell’aria trova il suo alfabeto.” È un alfabeto che si può ascoltare, con il quale, però, non si può interloquire. L’eloquio è fra sé e sé, fra sé e gli altri. La Frisa può dirlo con questa intensità:

“Se i suoni sono specchi
di un detrito astrale

                  chi evocano
                  invocano
quale visione
          o profezia?
          E a noi tocca solo il dolore
              o sordità?

se il canto di sirena incantò il tempo in pietra
  le nostre voci
          affondano
    nei vuoti abbandonati
          degli astri…”

Porgiamo un attimo di attenzione alla spaziatura dei versi che, mi pare, cerchino di imitare la disposizione delle note sul pentagramma; la loro apparente irregolarità è in realtà il loro pregio, la musica che suonano, il ritmo che vibra nella loro scrittura, il fiato , il respiro.
Ma torniamo ai versi: che sa l’uomo di questo suo miracolo, pur essendone l’artefice? Può essere che la profezia che vibra sia diventata incomprensibile e qui si stia nel dolore e nella sordità?
Se il canto delle sirene trasformava gli uomini in pietre, ora sordi, si cattura il vuoto fra gli astri e, ben sappiamo che il vuoto è molto maggiore del pieno.
Ecco che la musica apre le porte della riflessione intrapsichica, emozionale, anche filosofica.

“la musica lascia una scia
                     d’aria
                         ed ombra

                                           
                                        dov’è il centro?
                                        è solare vento
                                      che a caso muove il nulla
                                         le sue figure?

nella polvere fu concepito il fremito tellurico
ma nell’atmosfera tutto sembra immobile e muto”

Lucetta procede nel suo ascolto che proietta fuori di sé scienza e coscienza, soprattutto molti interrogativi senza risposta, che non hanno risposta.
Tutta la prima sezione, intitolata Basso ostinato si fa carico delle domande “impossibili” e giunge, inevitabilmente, alla fine del personale (umano) percorso dell’uomo che passerà oltre la Turbolenza e, contrariamente al razionale e percepito, il ponte è un taglio che ci unisce al buio e resteremo con una fame inesausta di musica  che dovrebbe sprofondare con le sue partiture sotto la nostra stessa crosta e ci porteremo via minutaglie, le cose di tutti i giorni, tutti i giochi, gli inganni.
La musica, così amata e cosi violentemente amante, ci abbandonerà alla sordità, la terra ne sarà abbandonata.
Questa prima sezione del libro, che ha la struttura di una fuga di Bach (però da inesperta, non vorrei azzardare nessuna analogia) è anche la più aspra e solenne e il titolo è ben accordato: basso, come il ridere del grillo, forte come la lingua del tuono ( versi di Emily Dickinson), ostinato, niente fughe ma scavi, ascolti, echi, rimandi, rifrazioni e qualche riflessione.
Poesia coltissima, attenta, controllata ma anche dolente, amara, senza alcuna forma di consolazione. La sezione che segue, Les amusements, ci accompagna verso musica diversa, se non proprio divertente come promette, capace di penetrare e assolvere le minuzie, le sofferenze, gli antri oscuri del transito umano. Ogni poesia porta il titolo del brano e il nome dell’autore (Schubert, Chopin, Ravel, Brahms, Rimsky-Korsakov, Bartòk, Astor Piazzolla,…); musica diversa per tempi diversi ma la non contemporaneità dei musicisti offre la possibilità di raccontarsi, perché questo osa talvolta Frisa, in modi e con timbri spurgati dall’emotività:

“[…]   ora tu suoni
per me per noi
      per questa casa saturnina che a ogni nota
      si frantuma un po’ di più
[…]
impari e dimentichi
impari e dimentichi

         e non smetti mai di suonare.

La terza parte, più breve, intitolata Peace Piece, si sposta con indifferenza fra la musica da camera a quella blues e jazz, ma non sono indifferenti i temi: in queste poesie Lucetta Frisa esce da sé per guardare gli altri, gli altri come persone e non come mondo, cioè convitati ad una mensa amara.
E per i bambini, per il loro rispetto, per il loro affetto, per evitare loro le escissioni dei sogni e i morsi della vita, dice” abracadabra/ se potessi” Ma non c’è magia che tenga, se non questi bellissimi versi che possono solo restituirci un po’ d’umanità.
La dolenzia non è disamore , è troppo amore per la bellezza che si vorrebbe pura come nell’arte e diffusa invece le brutture scorazzano nelle contrade del mondo e se ne sono impadronite.



Meeres Stille

(Franz Schubert)



la meditazione è una luce bianca
in un punto della tenda di questa camera
la stessa che c’è al mare quando
mi costringe ad abbassare gli occhi.

il bianco non è la verità ma invita
a perdersi e ritrovarsi in un punto solo

infanzia vecchiaia parola e foglio

naturali come una goccia di pioggia.


ma la misura è difficile:
dopo iniziamo a dissiparci 
a invocare Dio per un mal di testa.

hai il cuore pigro – mi dici.
sono sempre stata così?
e metti su un vecchio disco
di Fischer-Dieskau che canta

Tiefe Stille herrscht im Wasser
Ohne Regung ruht das Meer
Und bekummert sicht der Schiffer
Glatte Flache ringsumher...

una melodia sotterrata
una tenda appena mossa
la calda vita non c’è mai stata ma domani
mi vestirò di rosso
balleremo il flamenco
abbaieremo alla luna insieme ai cani
                                         
                 
                                       

Notturni e valzer

(Frédérik Chopin)



spegni la luce
il buio ci vola tra le mani
sparso ce lo tocchiamo sulla pelle
nella gola il fresco di un gelato e Chopin
          danza tra gli oggetti - piume sfatte
Poi quel soffio sulla guancia
ogni volta che siamo qui in estate
sempre allo stesso posto del divano
e nessuno di noi ha aperto i vetri
per non fare entrare le zanzare

è solo aria?
          dicono che a volte i morti
si sollevano
fino a venirci accanto
Nei Notturni e nei Valzer
nel tocco sensuale del pianista
in questa stanza di note e ombre
vanno e vengono
in tempo reale

                                                


          

Pavane pour une enfante défunte

(Maurice Ravel)



distesa
se si alzasse ora sarebbe morta
è vecchia anche se sembra giovane.
ha solo tenuto duro: immobile
per non perdere i capelli
scriversi le rughe col coltello
non avvizzire di lacrime
Ha compassione
di chi non è partito spaccando il muro
ha compassione
di chi partendo patisce altri dolori:
soltanto questo lascia dietro a sé
Di stagione in stagione lei volò
senza un respiro grande
non si definì non si sfogliò
subito raggiunse la radice
Ora con gli occhi in questo buio secco
lo prega di non chiederle più nulla
farla dormire in pace
            Le cose sono abituate ad andar via
lasciano la loro gravità
come aloni sulla cera
L’asse terrestre
ruota
intorno a un divano torpido

                                                 
           


La rêveuse

(Marin Marais)


                                                                               
le cose si avvicinano 
nella confidenza sonora:
lo stato della grazia
è la più alta illusione illuminata
dal sole animale
la sognatrice
entra nelle creature
scuotendosi la polvere aliena della mente
le rispondono
i minerali e gli astri:
sono solo sogni
ma a diverse velocità del fluire
echi
contrappunti
della stessa placenta
dei solidi e dei liquidi
dei morti e dei vivi.
lei attraversa
tutti gli stati d’animo come
il periplo dei venti
le fasi dell’incandescenza
ma si sente sbiancata
e non riesce a parlare
oppure è solo la stanza
vaso silenzioso?
Ancora non hai nessun profilo
      le dice il sogno – neppure
quello che i fari dalla strada
          proiettano sul muro

                                            
For  children                                               
(Bela Bartòk)

                                          Il mio ideale è maturare verso l’infanzia.
Bruno Schulz


la stanza nel buio si colora.
sono palloncini le note?
               bisbigliano tra lampadario e soffitto
     si fermano
sulla soglia di casa

il mare è qui sul pavimento
sale ad accarezzarci il collo
dammi la mano per entrarci dentro
piano
senza le scarpe
come dentro un tempio

   una mattina al mercato dei palloncini erano legati a un albero
         pronti a scattare in alto ne chiese uno ma non riuscirono subito a slegarlo
        e infine eccolo tra le sue mani, rosso: si afflosciò subito.

dammi il coltello
tutto va preso a squarci a morsi –
          è così che si diventa adulti.

   pose timida il dito sopra un tasto del pianoforte e l’universo esplose
         – era gonfio e invisibile? Abracadabra  abracadabra
         gola orecchi occhi  a quel tocco si spalancarono


abracadabra
se potessi
ripetere quel suono
e lo stupore

ma stasera
giochiamo a palla sulle onde
in questa stanza sul mare
                                           voliamo alto 

se potessi
posare ancora il dito sulla tastiera
ripetere
quel suono e lo stupore

abracadabra
abracadabra
dammi l’ago e dammi
filo e forbici
voglio cucire
ricucire
           scucire il mondo 
                            

Abîme des oiseaux

(Olivier Messiaen)


dalle prigioni
si guardano volare gli uccelli –
la stanza
sigillata  
non si apre
in una parte della mente
altre leggi o nessuna
altre terre senza acqua e ossigeno
fra nebulose –
è l’abisso degli uccelli?
stanotte
nel cielo caldo
i punti delle stelle
sembrano mosche intorpidite
o uccelli in posa a luccicare
in un’altra gabbia
Si suona nel lager ma nessuno vola
e qui un velo di note 
ci allontana dall’orrore e noi
                 noi si aprirà le dita
per segnare l’ombra delle ali
sulle tombe
     perché gli uccelli la vedano

La mer

(Claude Debussy)


Gli scontri umani avvengono in alto disse Lucrezio
tutto si genera tra masse potenti di nuvole
fame e desiderio principio e fine di storie e stelle.
La tramontana sull’acqua è fremito ma sulla pelle
è ruga, dico, e tu sulla minitastiera simuli
la furia marina in questa notte ancora estiva ma perdonami
se penso solo alla tramontana buia:
mai mettersi in mare dicono i pescatori le barche
si rovesciano i pesci affondano la caligine si conficca
i piedi perdono i passi nessun vecchio marinaio
ritorna a raccontare neppure si riesce a dormire
tra le coperte neppure in sogno si fugge e il cane
invecchia di colpo.
È questa la tramontana buia? È il vento chiuso nella casa?
Che bravo sei – dico – e ti applaudo ti applaudo

                                                                                                       



Toccata settima

(Girolamo Frescobaldi)




una scala sale e poi si ferma
resta lì a creare
altre scale
senza condurci
da nessuna parte
l’aria chiama slanci
verso un aperto sempre più aperto
un alto sempre più alto
una stanza d’aria ferma
ha il peso specifico
dell’arabesco vaporoso
che non snida nulla
la mia carezza resta a metà –
si crea a cerchio la sua aria
foglia che non va
né su né giù.
Dove siete anime dei cieli promessi?
qui non ci sono voci
né parole, nulla progredisce
o torna, si danza o si fa finta
su passi sottili
distanti dal pensiero

e io ti chiedo: dove sei?
e tu rispondi: dove sei?
non c’è nessuno qui, neppure noi

                                          







Concerto per la mano sinistra

(Maurice Ravel)

                                                                                                          


se il disordine segna i cambiamenti
riaffiorano
i versi sbigottiti 
galleggiano
verso nuovi mormorii.
Ciò che manca è la forza
di confonderci e rifare una gioia di sorprese
dalle menomazioni.
Le assenze
hanno germogli al buio
da coltivare attentamente
perché le ombre
raccolgono l’energia dei millenni
i profili potenti di terre morte
le trame di chi in loro ha creduto
nelle ore diurne.
Chi si ripara nell’ombra a godere la luce
sceglie la parte sinistra di sé gli oscuri
lobi temporali che dirigono
occulte partiture.

     ora tu suoni
per me per noi
    per questa casa saturnina che a ogni nota
      si frantuma un po’ di più

moduli assenze come
vuoti virtuosi
pause musicali
impari e dimentichi
impari e dimentichi
 
              e non smetti mai di suonare

Oblivion

(Astor Piazzolla)



dimenticare è danzare all’indietro
ogni passo striscia il tacco sulla cera
non bisogna inciampare
                       ma scivolare il corpo con grazia.

tu reggimi bene lo sai
che soffro di vertigini
                      quando mi allontano dalla scrivania.

ciascuno con una spina dorsale
eretta da cinquantamila anni
ha imparato a volteggiare poi
                     s’incrina il pavimento.

se danziamo all’indietro il piede
cancella il fastidio dei riflessi
ci illudono le curve di seguire
               il flessuoso universo.

miei occhi nei tuoi occhi: dipanando
il filo lungo e ritorto del mondo
lui slitta via e noi
                             avvitati a un chiodo


       

                                                        Introspection

 

                                                     (Thelonius Monk) 

 



gli idioti

      guardano dall’altra parte della strada

      non vedono macchine
      solo cani festosi

gli idioti
    vedono i morti sotto gli sgabelli
    che li vedono stupiti
    di vederli lì

gli idioti
    vedono il mare dappertutto
    nel letto
    e negli sgabuzzini della polvere

gli idioti
   se ne infischiano di restare o partire
   nel corpo
   nel cervello
   nei piedi
               stanno
come in grembo alla madre

gli idioti
   amano la musica
   coprono di musica la terra
   coprono il dolore
   sono innocenti
   uccidono l’orrore
              con i suoni


gli idioti
   non sono mai intonati


gli idioti
   sono i morti che ritornano
   ritornano continuamente
   per salvarci
                 dall’intelligenza


non sono mai intonati
       gli idioti
suonano sempre la stessa musica
       gli idioti
la sola
imparata
                          quand’erano sottoterra

 

 

 

 

 

 

 

 

 



Peace Piece

(Bill Evans)


             

Ogni cosa non è sola

se non la lasciamo andare

un filo

la lega alle altre e a noi

basta una musica

velo tra cosa e cosa

corpi fluidi specchi che ci sdoppiano

sdoppiando il mondo

ma è un’illusione

l’illusione è

la verità che non si cerca

appare

al tocco di due note

l’illusione

come l’amore è solida

vediamo due rincorrersi nel labirinto

di un giardino antico

le curve del disegno si allontanano

poi quasi si toccano i due

ridono

sale un canto d’usignolo

loro non sanno che è un rospo –

cantano allo stesso modo



Dove si va

oltre la verità

si bussa a quelle porte celesti

che non si aprono

non possono aprirsi più

perché l’oltre è finito

e tra il paradiso e l’inferno

c’è un millimetro.