mercoledì 31 gennaio 2007

da Sàrxophone (Chiara Daino)


Degna

dopo è tutto è dentro
è passato oltre da chi
hai ritenuto disperata
alla fine rende grazie:
più alto è il grado

furia – hai fregiato

chiara vedevo la mente
vera: pesavo
CON PERMESSO indovino:
colta in falso!

è data e sfata

il giusto punto di nausea: qui!
e sempre a lato, tu nel mio eri
nel percorso del trotto: ritratti

in fiamme le tue brenne
contusa dalle tue brame
frodata tradita: ieri di te

risentita all’iride? annulla!
tutto il male rivolto rende
bene quanto io per la vita

rifilo le vene

rendo grazie:

un tono sopra hai forzato
più feroce esperita la mia
scalata hai esteso
più ratto l’inciso
scorza la pelle più
agile – mi hai reso

Degna
di lotta

Pugnali alle spalle mai predetti
e solo così potevi segnare bene
prima che la gara in odore vidi

in giro ho sentito che hai corso
di vittima: il tuo gioco di ruolo
e non impostare a parola come
condanna: non io a dirsi quella
tua la cava
tua la pala

dopo è tutte è pompe è magne
volevi avermi fine non fu dato
e senza tutte le tue torture ora
non sarei lo stile che non cede
ora è chi rende grazie chi pone
[domande]

è prescritta: si ricetta?
mutare ingiusto crudo
il buono pasto di vero?
saggi lo scopo dei doli
per trucco di terra veli
pur vivi – e li rinneghi


e alla fine peserai e
non un punto fermo
darai: io sono COLEI

l’una che batte e sì
non mi fermo sono
la satura
prestata – all’Oblio

ricordo e dato
che ricordo io
ricordo

***

Si posa

Venia
le urla – lo stato: insieme &
ti ho armato di caduti sogni
bilichi recisi. Per le volte di
lacrime e lumini, non stretti
poetati via: è tolto, non dato.
(e dito: non quarto, se terzo)
Revoca.

Atroce io di razza
tutto torna verso e
noterai: di pena di
penna – diparto, e
peso

la pazzia riproduco:
caso? primo non sei
uomo, torto insano a
causa mia : –) ogni
quando spiego le ali
in atto di presa: solo
distruggo – e, via
suggo


Promessa: non sono sposa, non
messa: sotto – tono vuoto, terra!


Venia
casa – io non quadravo:
mero letto – e ti lascito!
Alta in volo e per altro
«altro aiuto» (quello che
Tu...

pretesti)

sospesa
stele – al collo il collo
e corda: devo tagliare
o mi frani il dosso aut
out! volevo dirti come
mi sento: in tempo per
non imbiancare, e non
cambiare – tanto (lo sai)

rimango


Atroce me stessa duro sangue
promessa: non sono sposa, non
messa sotto – tono vuoto, terra!



Terribile il gioco linguistico (al massacro?) di Chiara Daino recentemente uscita con il crudo La Merca: Chiara ci provoca in maniera adamantina e il suo "dire" può corroderci, ma a partire da una necessità che è anche in noi (se vi prestiamo ascolto), una voce e-voc-at(t)iva assoluta e performativa: "atroce io di razza (…) atroce me stessa duro sangue".

nuove poesie (Leela Marampudi)

Son piccole creature
all'oscuro migranti
chi non può parlare non sarà sordo

Quale tempo l’infanzia
guarda formiche e fiori
questa solitudine senza peso


La lisca

Acqua della storia dondola figli
di uova non covate
Un giro tondo
per far cascare il mondo
Pungo la testa guardando la lisca


Richiamo

Occhi incompiuti corpi
nero dialogo

aspetta
Denso che Sfibra
richiamo

Sorriso muto
dietro
quinte
si alza

lo Sguardo


Atto

Amore e Amare
sentir che dopo il Nome
fiorirà il Verbo


***


Da sola
Parlo sottovoce
Per paura di spegnere
La candela

Filo nel calore
Trattiene il torpore
Brace

Soffio piega
In mia direzione
Lievemente abbondante
Ci sei

Scusa
Alzo il tono
E la fiamma ancora dritta
Ci unisce

***

Lavo
panni sporchi
di sconosciuti
che abito

Rumori di foglie
cadono

Lungo il fiume
taf-taf
in capelli bianchi

Passi falsi
retrocedono
concentricamente
e il vuoto è già colmato
dove l’acqua è setacciata

***

1.

Compravi rose in bocciolo
aperte erano volgari
Un profumo di te verde
perdevi in acqua chiara

Meteore apatiche
soffiate su culle velate

Un sogno fotofobico

Improvvisamente
Bambina macchiata

Primo sguardo
Sincerità di un bianco e nero
Radiografia del cielo
per un lampo nella notte

Colpo di vita
restituisce un colore

Ignara del processo
Ingorda di risultato

Ritratti bambina
dai toni fluorescenti
Per dei fuochi d’artificio
che han ferito gli occhi

Negando importanza
al dissacro generato
rimani nel NON
Palindromo significato


2.

Dorme sul letto
delle mie percezioni
un cane di razza famiglia

mentre

la grotta dei sogni
rimanda ricordi
di una preistorica vita

Dall’albero scende
goccia cadendo s’infrange
Di rimbalzo bambine
figlie goccioline

Dall’albero scende
genealogico pianto
Bagnato germoglia
sotto soli passivi



3.

PETALI

Ricordo giardino
di parole evaporate
Discretamente
fiori sbocciati e richiusi

Un soffitto
disegnato a grande cielo
per lacrime
guardanti il basso

Tu
Cavaliere dalla bella voce
entrasti nella serra
della natura rinchiusa

Parole ritmate
dal silenzio delle foglie

I battiti del cuore di un fiore
si posarono nella tua mano

Un suono esile
radicò il palmo
Iniziarono le danze

Un giardiniere
per una farfalla
custodisce il sentire

Gocce allungandosi
per meglio vedere
caddero nell’acqua della storia
Ed io insieme a loro

Pubblico-Attori-Regista
insieme in un unico bacio


***


Non lacrimare
Pioggia per nasconderti
Dietro agli occhi
Cielo.

Odori di stanza chiusa
Verginità impura.

***

Mi inseguono frasi.
Scappo dalle parole
scegliendole.

***

Equilibrio | Incosciente:
Accordo.

(…
Suoni. Incompresi. Regalo.
Stonatura in mano.)

?
Razionalità | Squilibrante:
Accordo.

(!
Ricatto immane.
Spartito. Distorto. Presente.)


***

Deliri alla Buñuel

Acceso, silenzio. Acceso, silenzio. Acceso, silenzio. Assenzio.
È cavalcare un poliedrico:
fare l’amore con un uomo geometrico.
Un cane Andaluso mi lecca un occhio.
Una ruga e dentro un buco.
Crepa.
Spilli rossi intorno ad un polso.
il collare di un cane che scrive in saliva nera:
oggi ero più viva o più morta?

***

Hai toccato il punto dignità:
cerchio di vetro in una credenza.
Fuoriesce marmellata.
Solidifica il tempo.

Squarcio incollato-incontrollato

Irreversibile?
Interscambiabile.
Amore imbrigliato d’orgoglio:
(amami. Ne ho bisogno!)

Credenza per un cerchio di vetro:
mobile-immobile/scorrono immagini suoni e profumi.
Senza più volto tu
universo bambino.
Il mio volto tu
mi uccidi mangiando marmellata.


Leela Marampudi ha appena pubblicato Mal bianco, trovo molto interessanti questi versi tendenzialmente sperimentali: che ne dite?

martedì 30 gennaio 2007

È preghiera il silenzio lungo la strada (Deborah Coron)


La stazione

Abbacina la breccia bianca della massicciata
con le ombre viola in controluce;
il vento ostile gela ogni partenza
e scompiglia il miraggio:
alla rincorsa dell’ultimo treno
desideri d’evasione vengono trainati via
ma non partono mai davvero:
restano ad aspettare il mio ritorno.
Ogni treno uguale al precedente
sferraglia monotono e pesante
sui binari che curvano in fondo
prima di toccare un orizzonte
ormai divelto e stanco di viaggi.

Amo ogni profilo di queste colline imbrunate
che mi si stagliano incontro al tramonto
e patisco ogni loro mùtila ferita.
Le luci fumose della cementeria
impolverano ombre corrotte e mute
di vecchie cave e nuove distruzioni:
è questa la strada che torna a casa..
La stazione vuota si ferma nella notte aranciata.
Torno a percorrere le strade di gesso
e le franose case di cartapesta
del presepe costruito da bambina
parendo che tra queste balze cavate
nessun Bambino sia mai sceso.

***

L’ultimo pescatore

L’argine sterrato curva indolente
laddove scavalca l’angusto ponte;
col mulino poche case assolate
e le canne pigre nella golena
anche le cicale sono assonnate.
Qui mi fermo col cuore in piena:
rivedo dita ruvide ed esperte
calme insegnare quella lontana arte
alle mie goffe minuscole mani
di riparare e calare le nasse
ad ogni imbrunare per l’indomani
e trarle quando il sole nasce.

Colgo il guizzare lucido e ribelle
di pescigatto e scivolose anguille
in quel canale che torpido làmica;
la distesa di papaveri rossi
nella vigna dove non più si corica;
i pioppi muscosi riflessi
attorno a cui la sua barca legava;
l’odore della pece che spalmava
dopo avere stoppato ogni fessura
nella carena, il fasciame corroso
dalle intemperie inclementi, l’usura
di quello scalmo rugginoso.

Ora sul fondo immobile riposa
la chiglia nel letto d’erba limosa
non teme più la tempesta possente
che possa ancora la cima staccare:
nessuno per quell’usata corrente
andrà a prenderla fino al mare.

***

L’ambulante

Risali alle montagne in festive transumanze
notturna carovana di generazioni;
è preghiera il silenzio lungo la strada
temendo le stagioni e il tempo avverso.
All’alba la piazza sboccia d’ombrelloni
sventolano bandiere di vesti variopinte:
attendi le tue donne all’uscita dalla Messa.
Sciamano vociando e calano sui banchi
riempiono concitate le mani e gli occhi:
allegre frotte di corvi avidi sul grano.

Le conduci in stormo a trasvolare
parando l’abito prezioso della sposa tirolese:
il corredo veneziano da cent’anni intatto nel baule;
le trine ad ago del paramento d’un altare:
l’ultimo rito in una remota pieve
diserta dal gregge e dal suo pastore;
i maglioni anni ’70 dei pescatori norvegesi:
paziente incrocio di ferri davanti al fuoco
novellando nel lungo buio boreale;
i drappi arabescati della tessitrice afghana
obliata miseria [1] nella grazia più segreta [2];
il sari stampato della tintora indiana
madre bambina, sorriso rosso di betel [3];
i kimoni ricamati di minute figure orientali…

Prendi stracci usati a peso
rivendi storie e sentori cancellati
furono di donne abili, belle e rare;
tale ciascuna fai sentire:
di ogni signora e contadina
sei avaro e prodigo amante
nel tempo d’un baratto.
Acquista con poco la prescelta
ancora un minuto del tuo sguardo
il trofeo strappato a molte dita
il capo in cui riconosce parte di sé.
A casa, sul letto, lo spiega ancora
annodando nuova memoria
allo scarto d’altre vite.
Poi ripone nell’armadio i viaggi
e le illusioni d’un mattino al mercato.

[1] Fino al 2003 alle donne era proibito lavorare.
[2] Il Burka è un abito che copre completamente tutto il corpo, viso ed occhi compresi.
[3] Pianta dell’Asia meridionale le cui foglie masticate producono un’azione lievemente eccitante.

***

Mani cantastorie

Lascia che le mie mani ti parlino
senza voce dopo quest’ora scossa;
spogliati e ascolta: la tua pelle
ha atteso già a lungo memoria di me.
Non ho ereditato carezze
solo mani cantastorie instancabili
per inventare un alfabeto di tocchi
e svelarti occhi di bimbi sul viso;
mormorano le paure, gli urti
lungo la gola e sulla nuca.
Concorrono i lemmi tra le dita
che raccolgo dalle curve delle spalle
nel racconto dell’età felice: piantavo
ossi di pesca, ciliegia e melagrana;
canto lenti labirinti di petali profondi
frutti rossi, dolci, carnali…
Sostano le palme sul petto
a sanare strappi d’ali
e la schiena è diario aperto
di quotidiane rese e resistenze.
Traccio sul ventre le antiche fiabe
della prima neve: mappe del tesoro
e sentieri di molliche sui fianchi
per il ballo del re sulla rocca
e solletico i piedi di scherzi e giochi!
Poi indietro, per tutto il corpo gridano
le unghie e i polsi, solchi di terre arate
e gloria di Scirocco africano!
E ti narro ancora di me, azzurra
per farti mare e poi cielo. E pace.


***

La mia voce

Tutta muta questa notte.
Per l’atra e torbida tenebra
molta s’affolta la nebbia
che pigra giace: ora tace
il canto lento del vento;
fendo fra immensi silenzi
lande d’oblio e di pietra:
inseguo tracce di passi
sull’oceano, del tuo incedere
ancora, altro tra gli uomini
senza tempo per sostare.
Lunga cenere è quel sole…
Non ho pace: hai spartito
le acque dei miei dubbi e poi
richiuse sopra di me.

Solo la mia voce ora ti trattiene
ma non per dimenticanza: è lo strido
di quel gabbiano d’alto mare che ritorna
alla terra solo per fare il nido:
l’inchiostro tinge vele che doppiano
le più fredde e remote latitudini;
replica il barbaglio di un desiderio
si fa alba di speranza, certa sci¬a
inatteso guado che le maree
calme del Tempo, al largo, non invadono.


"il vento ostile gela ogni partenza": un verso che resta, come altri visivamente efficaci, sensualmente partecipati e a volte giocosamente allitterati, che costellano queste poesie in cui i metri classici, a volte sapientemente camuffati, ritornano a ritmare le ondate delle strofe. Debora Coron si sta laureando in Architettura. È attualmente coordinatrice dei quattro musei della Provincia di Padova (Museo Geo-paleontologico di Cava Bomba a Cinto Euganeo, Museo Storico-Naturalistico di Villa Beatrice a Baone, Museo Archeologico del Fiume Bacchiglione presso il Castello di San Martino della Vaneza a Cervarese Santa Croce, Museo delle Macchine Termiche “Orazio e Giulia Centanin” di Monselice) con mansioni di gestione, progettazione di attività didattiche quali laboratori e pubblicazioni, formazione del personale didattico ed organizzazione di mostre, seminari ed eventi culturali. Ha pubblicato “Le stanze dell’aurora” silloge in italiano e dialetto veneto, maggio 2005.

da DISCORSI LATINI (Gian Ruggero Manzoni)


Coimbra, dai passi furtivi
o voce – o noi seduti
o piede ghiaioso. Di spalle
ma un’ombra sola
un fine aprile
con più luci e crepitare
e botti e feste e gente, domani…
un uomo in giardino, da mille ombre
al seguito.

Un uomo
l’ombra di una donna
le ombre
muoiono alle querce
nell’ombra del riposo

lei chiede.


*

Da un’altura
una macchia di tàmari
e le colombe.

Uno specchio balena…

il tuo vestire
nella gonna stretta
nel giacchino
e spalle formate
nei tacchi

una fascia
e priva di gioiello…

regolato – regolato
un profilo, una calza, un gesto

ripararti gli occhi

ingannare la vampa
o cercarla.

Un segnale. Un’intesa
un estraneo.


*

Non conoscerci.
Per noi la voglia.
Non conoscerci
e sedie di paglia.

Invitarci l’un l’altra.

Fingere.

Studiare la carta.

Ma non porti la borsa,
in due, non si ha denaro.

Si beve e non si paga,
si mangiano gamberi
e tazze di bagacèira

due coralli

e facchini per strada

danno la battuta
ti guardano
e ti guardo.


*

Sei come ti ho lasciato.
Eri più giovane, sei più giovane.
La parvenza sfugge al desiderio.

La mano sotto al tavolo
la mia mano sulla coscia

amico mio

la tua mano affusolata
le tue unghie a pesce

guizzano

fra nodi e raffia

ma non sono allenate…
io muovo per sentirti.

Io muovo

non dire.


*

Le labbra
spingono a finestre.

Le labbra
baciano i vetri.

Quando ti stacchi
son morbide.

Quando tocchi
non si piegano.

Le labbra sono cristalli.
Le labbra
cedono
agli urti del momento.

Letti di ferro…

le labbra

appena.


*

Poi noi
e l’universo
senza tempo.

Io femmina
e le vie di Uppsala;
io lettrice dallo spagnolo,
encàusta
un muro dipinto
a colori, sciolti nella cera,
voglio ancora
il tempo

il gelo del riserbo

voglio l’attesa

voglio prenderti.


*

Arida, la notte precedente,
quella stanza d’albergo.

A venti miglia
Capo Mondego
e l’oceano esplode.

Arida, anche questa notte,
perché si dorme soli

e mai, come si è scritto,

un volare di scuse
un volare di pertugi
un volare di torbe.


*

L’un l’altra
si prestavano…

io sono… e io sono disponibile.

S’interrompevano
e si slanciavano
per…

ma il patto, stupido patto,
muto, era stabilito.

Da soli
in camere vicine

pensare

mano alla parete

piccoli gemiti

richiami

astenìe

quando smania
supera il dividere

così l’attesa…
l’attesa è propizia.


*

Pensare l’altro
senza fine.



Il curriculum di Gian Ruggero Manzoni (narratore, poeta, saggista e artista) è ponderoso e lo potete trovare riassunto qui. È stato fra i prefatori della Coda della galassia. La sua poesia si caratterizza per una forza direi apodittica con venature gnomiche e quadri visivi tracciati con tratti materici di vivace realismo: "Da soli / in camere vicine / pensare / mano alla parete / piccoli gemiti". Fra i poeti finora ospitati in questo spazio mi pare gli sia per certi versi vicino Giuseppe Callegari.

lunedì 29 gennaio 2007

Due inediti (di Luca Ariano)


Tua nonna se n’è andata come Lucarie’ Cupiello
– e tu non lo sapevi, manco c’eri.
Storie d’altri tempi, di lei
che ha fatto all’amore con un uomo solo
per tutta la vita, invece lui…
Ego coniungo vos…
Mogli e buoi dei paesi suoi.
Augusto anche stasera si autocelebra ricordandovi
il suo studio internazionale,
quel progetto ed equazioni risolte alla lavagna
forse per celare il mistero di non scuotersi mai
al gesto d’una donna, al soffio tra i capelli.
Raffiche mitragliano tetti tra grida
di sirene strazianti e non elabori il lutto
con un rutto o un singulto:
inutile cercare di sfogliare margherite d’inverno,
la strada maestra è lastricata di buche
e una madre nell’ansia stupita dei suoi quarant’anni:
“Perché scrivi cose così tristi?”

***

L’Ada, donna d’un altro secolo,
a quasi novant’anni è l’ultima arzdora
che ancora fa la pasta in casa.
Moglie d’un marito dal nome garibaldino
– antica tradizione romagnola,
emigrato per fare le scarpe prima della guerra;
se n’è andato una sera di geloni
con ancora il brodo fumante.
Ammira la vetrina di quel pasticcere
e ritorna bambina: babà, cannoli,
pastiera, sacher e sfogliatelle…
ma la glicemia va tenuta sotto controllo
tra scatole di pillole e ricette.
Il suo vicino pasteggiava a broccoli e carote,
pomodori – ben cotti, insalate, omega tre
e the verde: è sbiancato quando il dottore
gli ha dato pochi mesi per una leucemia fulminante.
Osservi quel sensuale passo di jeans
ma a guardarlo bene potrebbe essere tua figlia
e hai voglia ad aspettare quella telefonata
tra quei primi fiocchi d’un inverno rinsavito.


Pur molto giovane, Luca Ariano è una nostra vecchia conoscenza ed ha già all'attivo diverse pubblicazioni fra le quali ricordiamo Bitume d'intorno (Edizioni del Bradipo, Lugo), e la silloge omonima contenuta nella Coda della galassia. La sua poesia è quasi una sceneggiatura, da minimi quadri sapientemente impostati con le poche parole che servono, sta componendo una galleria direi epica di situazioni, eventi, persanaggi. Buona continuazione!

La sorpresa è sepolta (di Giuseppe Callegari)


Delusione

Lo sciamare quotidiano
vira, improvvisamente,
verso un luogo sconosciuto.

La sorpresa è sepolta
da un orizzonte
inaspettato,
limitato,
non palpabile.

Non c’è segnale
voce
sguardo
che indichi il cammino.

(Dicembre 06)



Ricordi

Oggi
è un groppo fluttuante
che impedisce il dipanarsi della matassa.

Domani
Un’incerta prole
concepita in alberghi a ore
figliata con disperata inconsapevolezza.

Solo i ricordi
alimentano,
con grida
e silenzi,
una impossibile (apparentemente)
speranza.

(Dicembre 06)



Un viso, un corpo, una stanza


Un viso deturpato dalla malattia
rifiuta pillole di pietà
avvolte in carta stagnola
che crepita come un fuoco che si spegne.

Un corpo privato di contenuto
si puntella su di una impossibile speranza
svestita dell’inizio, aguzzo e affusolato,
che nasconde la fine, intensa e penetrante.

Una stanza colma di armonie dissonanti
partorisce fiori rossi
che bucano il buio dell’inverno.

Illuminano e svelano l’arcano.

(gennaio 07)


Bar Birreria Pub

La sera è la solita.
Il festival delle banalità avanza,
attraversa le orecchie con il fragore del silenzio.

Necessità di rovesciare altrove la certezza della precarietà.

“un rosso” “una birra” “un caffè”

Necessità di rovesciare altrove la certezza della precarietà.

“un caffè” “ un rosso” “una birra”

Si ritorna al festival delle banalità.

Tutti passano in quel coacervo di inutili certezze
Arenate in paludi che accolgono il pensiero
di chi ha perso il senso del cammino.

Un dito alzato.
Indica uno spazio
Libero
Grande
Da esplorare

Sguardi persi su una protesi animata
che si spegne in un pugno rassegnato.

(gennaio 07)


La paura mangia l’anima

Calpesto l’amore del sempre e del mai
subdola trappola oliata ed alimentata
da chi riempie il nulla posseduto
con l’insolente umiltà
di sentimenti onnipotenti.

Non c’è carnefice designato
da consenzienti e assenti vittime sacrificali.

L’amore come arazzo steso
che cancella l’intimo e il privato
e deflagra fuori.
Assale il cosmico significato del razzismo,
non acerbo frutto di colori dissenzienti,
ma etichetta incandescente che marchia l’altro.


Quando l’amore (la paura) mangia l’anima,
esplodono meccanismi di sopraffazione.
Implodano logiche di sottomissione
il ventre ferito
è testimone di una natura
irrimediabilmente sconfitta.

Sfioro con gli occhi le macerie
un tocco lieve,
magico
alza il sipario di battiti confusi,
ma sincronici e armoniosi
nascondono, illuminano
il nido svelato
fra i cespugli
fioriti e acuminati,
della paura che mangia l’anima.

(febbraio 07)


Pace

Parole dilatate

Vomitate da feroci belve

Incatenate nell’impossibile campo
della bestemmia dell’oggettività.

(febbraio 07)


Borghesia

Francobolli obliterati di libertà.

Colpevole ipocrisia
di una ostentata indifferenza che non sceglie.

Sfregi mascherati di eguaglianza.

Asettici geroglifici
di una natura analfabeta e prostituita

Sigilli arroganti di fraternità

Filtri ostruiti
di un dio che non condivide.

(febbraio 07)



Anche Giuseppe Callegari con poche parole scelte, quasi abrase dall'anima, ci offre uno sguardo sul mondo forse un po' pirronista eppure non privo di slancio e di forza costruttrice: ci attende pure sempre "uno spazio / Libero / Grande / Da esplorare". Fra le sue pubblicazioni ricordiamo L'amore si sporca le mani e Messa a fuoco manuale.

domenica 28 gennaio 2007

Mi sveglio vesto come sono (di Carla De Angelis)


Mi sveglio vesto come sono
Apro l’armadio del futuro
Affido al cassetto la notte
Sospendo allo specchio
L’affanno delle scale
Le mani stanche, lo sguardo della nostalgia

La certezza di aver sognato
Il sudore dell’anima

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Andavo per funghi camminavo piano
Osservavo il vento penetrare il bosco
……………piano per non svegliare
il sonno sotto le foglie
lasciavo i funghi alla terra
andavo per provare l’ansia
di non ritrovare l’uscita
sentire i battiti impazziti
arrampicarsi sui tronchi


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Il quotidiano mi rincorre
Fatico a lasciar briciole lungo il cammino
(Alcune) le mangiano i passeri
Per allevare figli
Altre si affannano
A trovare un’altra vita
Restano quelle
Che a volgere lo sguardo
Fanno più leggero il futuro

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Esco da me guardo la mia casa

mi stupisco dei suoi muri del colore delle pareti
dei mattoni animati nelle mani del muratore
le birre bevute da volti sudati
bottiglie vuote risate passi stanchi
nel portare carriole di sabbia
racconti di famiglie che aspettano soldi
stanze che prendono forma
un gatto fermo sulla soglia
fingo di non vederlo
mi vuole appartenere
è il primo quadro che appendo

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….spengo le luci
le candele colorate…. quelle profumate
quest’anno
………no
sfuggo i tuoi occhi
costretti ad un crescendo che non voglio
ingannevoli
senza riguardo

per il suo ingenuo viso fino a ieri
senza rughe
perso in pensieri
impossibili ad essere sorpresi
quest’anno serro l’uscio
resta fuori
(Se puoi)


Carla De Angelis ha pubblicato recentemente la raccolta Salutami il mare e il libro dialogato con Stefano Marello (con lei nella foto) Diversità apparenti entrambi premiati al Kriterion 2007. Trovo i suoi versi semplicemente splendidi, anche queste nuove cose ci comunicano con estrema levità una sofferta eppure amorevole e ironica (dunque autentica) saggezza: "Il quotidiano mi rincorre / Fatico a lasciar briciole lungo il cammino". Buona continuazione Carla e speriamo che qualche navigante lasci traccia in questo spazio.
Alex

giovedì 25 gennaio 2007

Kapuscinski, giornalista narratore (di Andrea Parato)

È morto Ryszard Kapuscinski.
Con queste tre parole lo vorrei ricordare: giornalista, reporter e scrittore.
Giornalista, perché ha portato avanti per tutta la vita il mestiere artigianale del raccontare la cronaca del mondo con stile asciutto e puntuale. Giornalista dall’etica schietta e pulita. Nei miei appunti di teoria del giornalismo ho riportato tante volte la sua frase: “il cinico non è adatto a questo mestiere”. Ed era forse l’ultimo a crederci fino in fondo.
Reporter, perché amava vagare e perdersi nelle profondità del mondo per poi farne emergere tesori rari, racconti di vita inattesa. In un legame ideale tra i regni e le periferie dell’ “impero”, chiedeva curioso, toccava, scrutava con occhi mobili e con mente lucida.
Scrittore, perché è riuscito tante volte a riordinare gli appunti, ad assemblare i fogli sparsi, a rimettere in fila voci sino a rimettere assieme quei pezzi di cronaca in storie così composte nella loro drammaticità, così dolci nelle sfumature del ricordo. È riuscito a fare amare la complessità delle terre d’Africa in Ebano, a fare presentire il disfacimento e la grandezza della madre Russia in Imperium persino a me, che di quelle terre non conosco nulla.

L’ho incontrato anni fa mentre concludevo gli studi universitari, in una sfarzosa sala dell’ateneo di Bologna. Lui doveva ricevere un qualche premio letterario. Piccolo uomo, in mezzo a marmi e stucchi, per nulla impressionato. E non tanto perché fosse abituato a stare in mezzo allo sfarzo, quanto per una consolidata abitudine a incuriosirsi di tutto il mondo circostante, senza preconcetti. Mi disse che prima di tutto il buon reporter deve essere consapevole di sé: che dovrà viaggiare, che dovrà sacrificarsi, che dovrà testimoniare. Ma è ancora possibile, nell’epoca delle notizie che viaggiano sul filo e degli inviati che rimangono in hotel? Certo, mi rispose.
Lui che a venticinque anni aveva lasciato la Polonia e aveva letteralmente iniziato a vagabondare per il mondo. E così Africa, Sudamerica, Asia, in un vorticoso susseguirsi di vicende. Quando gli organizzatori di convegni cercavano di contattarlo, la risposta che spesso si sentivano dire era: “È da qualche parte in Patagonia”, “L’ultima volta che lo abbiamo sentito era a Zanzibar. In effetti non abbiamo sue notizie da qualche giorno”, oppure “Lo abbiamo lasciato che stava cercando di superare il confine di un regno in dittatura”.
Nel posto giusto al momento giusto: frutto di una attesa e di una convivenza mimetica nei paesi. E di un fiuto giornalistico, di una sensibilità che gli faceva cogliere, nelle minime occasioni della vita, il Fatto.

Erodoto moderno, un po’ cronista un po’ narratore, lo voglio immaginare così, mentre attraversa l’Africa su un pullman colmo di gente dai vestiti colorati, mentre guarda la steppa da un treno siberiano, mentre trova il filo rosso del fatto anche in stanze vuote, in luoghi sconosciuti. Anche in una piccola sala di Bologna.


Semiotico, esperto del mondo della comunicazione, Andrea Parato ha pubblicato vari articoli e saggi e le sillogi Da luoghi intravisti, Il nostro esilio quotidiano e La terapia del dolore. Altro post dell'autore qui

Vivere dalla foce alla sorgente (di Dino Dozzi)


editoriale del Messaggero Cappuccino n. 3 2006

Il giovane intervistatore chiede al novantenne Mario Luzi un suo consiglio per tutti. E il grande poeta - una delle figure più rappresentative della cultura del Novecento, più volte candidato al Premio Nobel per la Letteratura, morto nel 2005 - risponde: "Pensare al valore della vita. Capisco che per i giovani sia difficile. Per loro l'esserci è quasi una condizione dovuta e permanente… Capire che questo privilegio deve essere pagato con l'amore per la vita… Il poeta invita ad ascoltare la voce del profondo, la parola che è nell'universo. Non ha medicine da porgere. Solo un invito a considerare questa cosa misteriosa che è la vita… andare all'essenziale… amare!"

Dire che Mario Luzi è stato un grande poeta è dire una cosa ovvia. Ricordare che era amico del nostro Agostino Venanzio Reali è rivelare cosa poco nota. Dire che è stato un grande saggio e un grande maestro di umanità è meno ovvio, ma altrettanto vero. La sua speranza era forte e luminosa: "Nonostante nel mondo esista il male, nonostante esista una zona oscura nell'uomo dove il male lavora e si manifesta, il prodigio della vita si presenta continuamente, incessantemente, integro. E la speranza esercita un ruolo essenziale in questo prodigio… Quando, già a vent'anni, scrivevo: 'Amici ci aspetta una barca', intendevo proprio questo: amici, ci aspetta un viaggio, una navigazione alla ricerca di se stessi e delle fonti. Amici dalla barca si vede il mondo / e in lui una verità che procede / intrepida, un sospiro profondo / dalle foci alle sorgenti'."

Un maestro non insegna solo a scrivere, insegna a stare al mondo. Contemplando la vita, gustando la vita. A chi gli fa notare che al mondo esistono anche i dementi, i mostri, gli "errori della natura", risponde che trova sorprendente la gratitudine anche in molti di loro e che "in genere i congiunti che hanno una qualche simile sciagura mi sono sempre sembrati al di sopra del cristiano ordinario. Hanno salito uno scalino e sono pieni di una nuova specie di amore". Giustamente Luzi dice "in genere": in questi giorni viene alla mente quella famiglia che ha tenuto 30 anni segregata la figlia demente perché si vergognava di lei…

Pur innamorato della poesia - che "è esprimere al quadrato quello che l'uomo normalmente percepisce nella sua quotidianità" - il bilancio che fa della sua vita di letterato e di poeta coinvolge altro: "Dopo aver scritto tanto e aver imbrattato tanta carta, una domanda terminale viene da farla: che cosa hai trattenuto di questa immensità che è la vita e che l'uomo poi percepisce nei limiti del suo perimetro vitale, del suo angusto cerebro? … Si sente che quello che abbiamo vissuto e provato è la risonanza di qualcosa di più grande, oltre i limiti della nostra comprensione". E aggiunge: "Sento che tra la vita e la morte non c'è quella barriera invalicabile. No, vita e morte non sono incompatibili."

Questa è la "naturalezza" di Luzi, "da riconquistare continuamente, perché tutto va contro di essa". Una naturalezza che non è solo superamento di qualsiasi pregiudizio sul mondo, ma che implica apertura al mondo e condivisione-solidarietà. Mi è piaciuto questo libretto di Luca Nannipieri (Mario Luzi. Il Maestro e i suoi dialoghi, Fara Editore, Santarcangelo di Romagna 2005), mi ha allargato il cuore. E mi ha allargato cuore e mente anche la lettura della prima enciclica di Benedetto XVI, dedicata all'amore, alla sua centralità tra umano e divino, alla sua forza unificante e trainante la vita e la storia di tutti. Anche dalla foce alla sorgente, con riconoscenza e con naturalezza.

(padre Dino Dozzi è il direttore di MC, via Villa Clelia, 16 – 40026 IMOLA BO)

mercoledì 24 gennaio 2007

Oltre l’ermetismo (di Luigi Metropoli)


Zanzotto appartiene, secondo Mengaldo, «a un filone orfico-sapienziale e attraverso la poesia intende affermare niente di meno che una verità in qualche modo trascendente». [1]
Il nesso tra i primi lavori di Zanzotto e le successive acquisizioni stilistiche e formali è da ricercare nel sostrato ermetico che, stando a Mengaldo, è stato riformulato e «investito della curiosità gnoseologica» [2] del poeta. Il percorso dell’autore solighese non presenta, pertanto, una frattura improvvisa e inaspettata all’altezza di IX Ecloghe, ma si dipana come un continuum, tenuto insieme dall’orfismo mai completamente sopito.
La lettura proposta da Mengaldo sottolinea lo stretto rapporto che intercorre tra il modo di intendere e di fare poesia di Zanzotto e la matrice ermetica delle raccolte successive a Vocativo. Se, da un lato, questa lettura è riduttiva della singolare evoluzione stilistica del poeta veneto, dall’altro ne sottolinea la coerenza.
È innegabile che il cammino di Zanzotto abbia subito una svolta, deviando verso soluzioni «avanguardistiche e informali». [3] Ciononostante il poeta veneto non ha perduto le proprie radici liriche e continua ad attribuire alla poesia il potere di far emergere la verità. Per Zanzotto la poesia reca in sé qualche velata traccia dell’origine, è sempre in stretto contatto con il limite, evoca sempre qualcosa che va ‘al di là’.

La poesia per me continua ad essere globale, totale, e quindi si può dire metafisica, in quanto urta sempre contro il limite. [4]

Questa dichiarazione rimanda, per affinità, a Montale:

Tutta l’arte che non rinunzia alla ragione, ma nasce dal cozzo della ragione con qualcosa che non è ragione, può anche dirsi metafisica. […] (Meglio che di poesia metafisica potrebbe parlarsi – per una parte della poesia moderna – di una poesia che trova in se stessa la sua materia). [5]

L’orfismo di cui parla Mengaldo non va inteso come un adagiarsi sulla parola ‘innamorata’, ma come un tentativo di sondare il margine della realtà fisica per approdare ad una realtà altra. Questa lettura trova conferma nelle parole del poeta solighese, nella sua definizione di poesia «metafisica» come necessità di andare oltre, di valicare il limite. Occorre riportare il seguito di tale affermazione:

La mia [poesia] non accentua il lato metafisico in sé; forse introduce, come spesso avviene, una nota metafisica nella fisicità, un sentimento di «sospensione interrogante». [6]

La «sospensione interrogante» di Zanzotto è anche il rischio, per la poesia, di perdersi nel suo cammino di ricerca, di arenarsi nel labirinto di un mondo mai troppo conosciuto. La poesia è, dunque, un tentativo estremo di ricerca della verità per sentieri ignoti:

questo andar oltre dà sempre nuovo, più profondo senso all’origine e a tutto l’insieme. E ciò con una fiducia, ancora una volta alla Münchhausen in un’operazione priva di qualsiasi garanzia. [7]

Per Zanzotto l’andare oltre coincide con un tornare all’origine, con un prima, pertanto il suo procedere è un andare a ritroso, un recedere. Il prima ha un rapporto privilegiato con la purezza e con la verità e nasconde la ragione del nostro esistere e del nostro essere nel mondo.
La poesia opera con le parole ed è solo tramite esse che il poeta può «preludere a una vera-mente / a una vera-vita» [8]. Zanzotto intraprende questo percorso grazie al linguaggio, ma, soprattutto, lo intraprende al suo interno. Questo procedere all’inverso, in direzione dell’origine, induce il linguaggio stesso a ripercorrere la sua intima struttura per verificare la possibilità di approdare al significato unitario. L’unica condizione, per cui questa possibilità si verifica, è l’esistenza di un legame diretto tra linguaggio ed essere.
La funzione simbolica del linguaggio, dunque, dovrebbe prevedere la rispondenza diretta tra il segno linguistico e il suo referente. Il referente, nel caso specifico, è l’essere o, altrimenti detto, una realtà precedente al principio d’individuazione, indistinta, nella quale non sia ancora avvenuta la separazione che ha determinato la formazione delle cose.




[1] P.V. Mengaldo, Grande stile e lirica moderna. Appunti tipologici, in La tradizione del Novecento. Nuova serie, Vallecchi, Firenze 1987, p. 19.
[2] Id., Il linguaggio della poesia ermetica, in La tradizione del Novecento. Terza serie, Einaudi, Torino 1991, p. 149.
[3] Ibidem.
[4] F. Camon, Il mestiere di poeta, [intervista rilasciata da A. Zanzotto nel 1965], Lerici, Milano 1965; cito da A. Zanzotto, Poesie e prose scelte, Mondadori, Milano 1999, p. 1133.
[5] E. Montale, Dialogo con Montale, in Id., Sulla poesia, Mondadori, Milano 1976, p. 581.
[6] F. Camon, Il mestiere di poeta, p. 1133.
[7] Ivi, p. 1134.
[8] Possibili prefazi o riprese o conclusioni I, in La Beltà, p. 280.

(Luigi Metropoli è un appassionato di poesia e acuto critico letterario, il suo sito – dal zanzottiano nome: Vocativo – è linkato a fianco)

Scrittura e rivelazione (di padre Bernardo)


Lettura e riflessione sul brano del Vangelo di Luca 2, 1-20.

È bello vedere come la solennità del Natale convochi più persone nella Chiesa! Perché di fatto anche questa è Chiesa: ciascuno di noi, in qualche modo, ha ascoltato la voce dello Spirito che ci raccoglie qui in unità. Una comunione misteriosamente rotta con il gesto di disobbedienza dell'uomo e della donna che genera sofferenza nella relazione fra l'umanità e Dio, e che comincia a vedere un allungo di luce la notte di Natale. Noi possiamo intravedere qualcosa del mistero di Dio solo attraverso il volto del Figlio, per mezzo del quale s'incontrano umanità e divinità.

Il testo biblico della nascita di Gesù, uno tra i più celebri testi della storia dell'umanità, ci offre una ragione per cui sperare, che è di scandalo per la fede, come diceva Kierkegaard, perché il re della storia nasce in una situazione di profondo disagio che l'evangelista non dissimula; anzi è interessante notare come Luca nell'esordio insista nel dare dei riscontri storici: «In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò… il censimento di tutta la terra… quando era governatore della Siria Quirino.» (cf Lc 2, 1-2)
Il contrasto è immediato e assai significativo tra Roma, dove l'imperatore firma il decreto, e questa congerie di persone costrette a muoversi per farsi registrare: «Anche Giuseppe… salì in Giudea alla citta di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. Ora… si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio… e lo depose in una mangiatoia… perché non c'era posto per loro nell'albergo.» (cf Lc 2, 4-7)
È questo un modo per dirci che non c'è posto per il Dio dell'eternità che ha tempo per noi, secondo una felice espressione di Bruno Forte, che non ha un luogo dove posare il capo! Il re della storia che poteva suscitare credibilità con tanti mezzi si fa strada con somma umiltà. È importante perciò che nel nostro cuore ci sia una risposta per questa nascita e che la liturgia continui a cantare oggi è nato un Salvatore per noi. Siamo in quel registro del già e non ancora, dove l'incarnazione inaugura quella linea profonda e segreta della storia, manifestata da Maria nel Magnificat, che è qualcosa che sfugge in gran parte alla verifica storica, ma che tuttavia ci rivela che questo è il disegno di Dio per la nostra salvezza.

I Padri della Chiesa non tardarono a dire che questo Bambino ci dona la pace donandoci il proprio corpo, che diventa alimento per noi e quindi la mangiatoia di fatto è un'allusione all'eucarestia. Tutto ciò può sembrare un accomodamento a posteriori e per certi versi lo è, ma ci autorizza la logica con cui l'evangelista ha costruito questi testi, che è una logica anche letteraria ma non nel senso di una scrittura di fiabe! Luca si fa strumento di una ispirazione divina che ci rivela il mistero del Dio che si fa uomo con un linguaggio potentemente umano, e sappiamo che, quando i grandi poeti scrivono, nessuna parola è scelta senza senso: per questo ci sono un'infinità di commenti sulla Divina Commedia ed altri testi della poesia e della letteratura dell'uomo. Analogamente e di più per la Scrittura dove la letterarietà è in funzione della rivelazione di Dio, che trova in questi versetti un altro modo per incarnarsi in mezzo a noi e rendersi riconoscibile in quella dialettica del velarsi e del rivelarsi.

«C'erano in quella regione alcuni pastori… Un angelo del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, ma l'angelo disse loro: "Non temete… oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore… troverete un bambino… che giace in una mangiatoia» (cf Lc 2, 10-12). I pastori sono i discendenti di quei pastori in mezzo ai quali c'era pure Davide quando fu riconosciuto e scelto da Dio come il re; sono questi stessi pastori che vegliano di notte incaricati di riconoscere per primi la messianicità di questo Bambino. Sono scelti come Maria e chiamati per un evento straordinario che ha una caratura spirituale che non deve sfuggire alla nostra sensibilità. Vegliare di notte significa custodire, vigilare, attendere anche quando la luce del sole è spenta; significa traghettare l'esistenza nel buio della notte perché la luce tornerà. Segue un inno di lode cantato dalle schiere angeliche: «Gloria a Dio… e pace in terra…» (cf Lc 2, 13-14), che è la prima chiara attestazione dell'universalità della salvezza degli uomini, mentre i pastori si dirigono verso Betlemme per contemplare un fatto soprannaturale: «Tutti quelli che udirono, si stupirono… delle cose che i pastori dicevano. Maria… serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore…» (cf Lc 20, 14-20). I sentimenti di Maria esprimono una riflessione prolungata, intensa e profonda in un unico atto della mente.


(padre Bernardo è monaco olivetano a S. Miniato di Firenze, lectio.divina@libero.it)

Poesie (di Enrica Musio)


IL GRILLO SBADATO,
HA LASCIATO
SUL PRATO
LA SUA GAMBA
DI VIOLINO.


***

NEVERMORE

Ricordo che vuoi da me,
libravi verso un’aria atona
e dardeggiavi un raggio monotono
dove rintrona la bora
noi due che camminiamo al sogno
coi capelli e i pensieri al vento
commovente
quando volgemmo uno sguardo
la voce di oro viva
dal fresco timbro angelico
diede un sorriso
la risposta discreta
devotamente
la tua mano baciai
risuona un brusio incantevole
il primo sì che esce dalle tue
labbra adorate.

(ad Andrea Parato)

***

SOGNO

Dormo,
ma il cuore
veglia,
guarda in cielo
le stelle,
e la barra
infiorata
dell’acqua
al timone.

***

Un solo squillo,
della tua voce senza
epoca
e tutte le
gioiellerie
di questo crepuscolo
rassegnato in
pantofole
si mettono
a lampeggiare
creando
un giorno
nuovo.

***

IL CREPUSCOLO DELLA SERA

La bella sera,
arriva complice
amica criminale
si chiude lentamente
a passi di lupo
e come in una alcova
l’uomo in una belva
si trasforma
oh cara sera desiderata
dal pensatore ostinato
all’operaio ingobbito
si svegliano malsani
i demoni
come fossero uomini
di affari
raccogliti anima mia
e in questo
momento
grave
cerca di chiudere
un orecchio sordo.

(ad Arthur Rimbaud)


***

Spuma un docile stupore,
un implicito segnale scaglia
un aroma di metro in tinta
affina una dissimile conferma
una sapienza irruente
sparsa fama distolta
da ostili immagini
a suono
prediletta a gioia
accolta rispettosa
osservata
una brama nobile
istanza
di una effimera condotta
un necessario eco
da spontaneo
gesto.

***

GIA C’È

Come trama io adopero le ore,
su nel canto soprano
che a noi arriva alterato
senza chiavi di bemolle
pronti allo slancio
così io sto,
ma la memoria ha un peso grave
le scorie ad ancorare di nuovo
come nello spirito delle dermatiti
ogni abbandono mi rendono penoso.
A ripescare dunque rivado,
nelle righe usate delle pergamene
che mi sembrano miei i suoni
e quando li scrivo non lo sono più,
quando credo di inventarli
perché quanto giace li si trova,
che ne è strumento oltre questo mio io
per eludere un libro aperto
la paura invasiva del silenzio oscuro
(e la ripetizione scivola sulla ragione).
E ricercato come un padre,
saresti un Dio, di ogni figlio
freddissimo e abscontitus,
quando solo morti accogliessi
per questo il salmo afferma nel tuo dire:
dei tuoi santi l’incorruzione
– Tu, il vivente,
lodato dai cadaveri non puoi essere.

(ad Alessandro Ramberti)

martedì 23 gennaio 2007

Il santo non è puro (di Ivan Nicoletto)


31 dicembre 2006, Santa Famiglia/C 1Sam 1,20-28; 1Gv 3,1-2.21-24; Lc 2,41-52

Nel periodo liturgico del natale tutto ci sembra imbevuto di santità.
Santi sono tutti i protagonisti che lo animano: Simeone e Anna, Elisabetta e Zaccaria, Maria e Giuseppe, Giovanni e Gesù…
Noi siamo spesso abituati a pensare che ‘santo’ equivalga ad un essere puro, incontaminato, esente dalle ambivalenze e dalle contraddizioni che invece segnano la nostra esperienza umana… Credo sia un’idea che tradisce del tutto il senso della santità. Il natale celebra invece l’evento dell’immersione di Dio, in Gesù, nella dinamica evolutiva della coscienza umana, tessuta di slanci creativi ma anche di resistenze e di arroccamenti. L’incarnazione avvia un processo di abbattimento dei muri di separazione che noi eleviamo fuori di noi e che introiettiamo dentro di noi: opposizioni fra umano e divino, fra sacro e profano, fra bene e male, fra me e il diverso da me…
La prima realtà che il Dio nascente viene ad abitare è proprio la famiglia, che da Caino e Abele ad oggi rappresenta il luogo dove la massima vicinanza può scatenare tante forme di violenza o di colpevolizzazione, di abuso o di inganno, di intolleranze…
Nell’ambivalenza dei tempi e dell’anima che stiamo vivendo rispetto alla famiglia, sono mischiati segnali dissolutivi e creativi. Da quest’anno, ad esempio, negli Stati Uniti le separazioni per la prima volta hanno superato le unioni matrimoniali, ma dall’altro le legislazioni di molti paesi occidentali hanno approvato o stanno approvando dei patti di unione civile che contemplano la possibilità di convivenza di coppie di ogni tipo, che vanno a diversificare la tipologia dei nuclei familiari così come li abbiamo conosciuti finora…
Quale può essere il messaggio che la festa odierna della santa famiglia rivolge alle società oramai multietniche e multiculturali nelle quali viviamo? Che tipo di famiglia potrebbe essere quella inaugurata da Gesù, quella che lui sta facendo nascere attraverso le nostre esperienze, convivenze, interazioni?
Credo esista una propensione tutta umana di assicurarsi contro la perdita e l’instabilità della vita attraverso la costruzione di tante forme di relazioni esclusive e possessive, che vanno dal nucleo famigliare fino ad includere le appartenenze razziali, politiche, religiose, culturali…
Dalle testimonianze evangeliche, scopriamo con sorpresa che Gesù fuoriesce da tante consuetudini tradizionalmente attribuite alla famiglia. Avvertiamo un salto di qualità inedito rispetto ad ogni ambito chiuso e autosufficiente. Mi pare che l’elemento innovativo più importante e rivoluzionario che egli immette nella coscienza umana sia l’allargamento dei rapporti fino a farli coincidere con l’estensione dell’Amore del Padre suo verso tutte le creature.
Il movimento avviato da Gesù conosce relazioni privilegiate di amore che iniziano da Maria e Giuseppe, si estendono ai discepoli, e a Giovanni, quello prediletto, si allargano all’amicizia con Maria, Marta, Lazzaro… Tuttavia desidera estendere una rete comunionale virtualmente senza confini, come un sole la cui luce va ad illuminare ciascuna creatura… Con una predilezione per coloro che in quel tempo erano esclusi ed emarginati dal rapporto con il divino: donne e bambini, poveri e ammalati, stranieri, miscredenti e impuri, irregolari, assetati di liberazione e di giustizia, evasi dalle prigioni dell’ordine costituito… essi per primi capteranno la vibrazione vitale che irradia da Gesù.
È uno spirito, quello cristico, che disfa le separazioni e che scalza principalmente coloro che si sentono giusti, le persone apposto, perbene, sazie di se stesse… Essi saranno i primi ad opporsi al suo desiderio di offrire felicità e amore là dove ancora non c’è, a contrapporsi all’entrata di Dio in zone non familiari, ad ordire la sua cattura e la sua eliminazione violenta…
L’evangelista Luca ci preannuncia il germe di questa nuova stagione dello spirito nel brano evangelico che abbiamo ascoltato. All’età di dodici anni, nel tempio, rivolto a genitori angosciati che lo hanno cercato ovunque per tre giorni, egli risponde: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo essere nelle cose del Padre mio?” Risposta che rimbalza nell’altra, quando durante una conversazione con i suoi ascoltatori, sua madre e i suoi fratelli lo cercano e lo rivendicano per sé e lui, ancora, a rispondere: “Mia madre e i miei fratelli sono coloro che entrano nell’orbita dell’ascolto e della pratica della Parola di Dio”. Saranno ancora gli angeli, al sepolcro, a dire alle donne che lo cercano: “Chi cercate? Perché cercate l’Aperto in un sepolcro chiuso, il Vivente tra i morti?”
L’apostolo Giovanni, nella seconda lettura, specifica che la relazione vitale di figliolanza fra Gesù e il Padre è lo stesso Spirito d’amore che è stato effuso nei nostri cuori, l’inesauribile Sorgente che genera tutte le sue parole, i suoi gesti di liberazione, i suoi sguardi. Il Padre, che è anche Madre, è la Presenza immanente ai processi creativi in atto nell’evoluzione, in ciascuno di noi, che ci guida verso il compimento del nostro specifico e personale destino.
Nelle scene evangeliche noi scopriamo così che le cose del Padre possono anche non essere le cose imposte da un io di gruppo, di popolo, di chiesa, di partito, di stato, ma dallo Spirito amante e sconfinante che mette in crisi le prospettive codificate dalle prassi e dalle convenzioni umane. È un Padre/Madre che respira in corpi che si aprono all’imprevedibile, si fa strada nelle relazioni che sanno accogliere la vicinanza dell’altro da sé, perfino del nemico, della morte, fino a riconoscerla, ad assumerla…
… Sono prospettive, respiri, pulsazioni stra-ordinari, che ci allargano il cuore, ma sono anche gestazioni ardue, spesso smentite da un vento che soffia all’incontrario, pervaso da fondamentalismi, da pensieri unici e omologanti, da giudizi arroganti, da esclusioni spietate…
Invochiamo su ciascuno e su tutti noi lo Spirito di relazione, lo spirito sorgivo del Padre, che anima Gesù, che ci apre gli uni agli altri, perché possa trovare spazi accoglienti nei nostri corpi, possa renderci molecole dell’Aperto, possa aprirci alla sorpresa di un nuovo sentire, di cieli nuovi e di terre nuove…

(meditazione di Ivan Nicoletto, monaco camaldolese)

su La splendida attesa di Alfonsina Campisano Cancemi


PEGASO EDITORE, CALTAGIRONE - 2005

recensione di Marco Scalabrino

L’affastellamento delle combinazioni lessicali, l’attitudine a strutturare spirali dell’espressione, la sovrapposizione all’infinito delle architetture del pensiero paiono contrassegnare questo nostro tempo. La vis della parola, detta, scritta, vociata, sembra sopravanzarne i significati propri, sacrificarne i valori originari, i sentimenti autentici e vieppiù essa è usa provocare, ferire, scandalizzare; e al contempo, su un fronte solo in apparenza diametralmente opposto, soggiacere alle occorrenze della moderna spiccia comunicazione, piegarsi alla pelosa ripetitività della reclame, svilirsi alla cifra di gergo di chi ne fa disinvolto uso.
Alfonsina Campisano Cancemi (di cui non staremo qui a ripercorrere il nutrito curriculum di pubblicazioni in italiano e in siciliano, le affermazioni quale autore sulle piazze culturali di tutta la penisola, le collaborazioni nella veste di provetto recensore con talune autorevoli riviste del settore letterario) mostra viceversa volersi votare al ristabilimento della parola pura (Donner un sens plus pur aux mots de la tribu, enunciò Stéphane Mallarmé nel sesto verso del sonetto LE TOMBEAU D’EDGAR POE), al riscatto della parola lirica, alla nobilitazione della parola poetica; e favorevolmente ci sorprende per il sigillo di garbo che avvolge la sua opera, e per l’ “avarizia” quantitativa di questa sua ultima silloge – solo dodici componimenti – e la misura stringata di questi – una media inferiore ai quattordici versi.

Ma procediamo con ordine.
L’inusuale formato quadrato, identico a quello dei due precedenti volumi FINU A L’URTIMU CIATU (1998) e TRASPARENZE (2001) entrambi edizioni ILA PALMA – Palermo, e la presenza in questo lavoro come in quelli di immagini fanno pensare ad un’unica sorvegliata regia, ad una precisa scelta.
I dipinti di Giacomo Angiletti, ad accurato complemento del libro e non già a mera suppellettile, a principiare da Adolescenza in copertina e per ben altre sei grandi tavole - un numero considerevole rapportato a quello dei testi -, coprono altrettante facciate del volume. Una felice combinazione tra suggestioni foniche e visive, tra il nero compassato dell’inchiostro e le rotonde tinte pastello dei paesaggi e delle nature morte che risulta seducente, sortisce un effetto armonioso, monta un sound-track a colori alla pellicola della memoria.

Come già in TRASPARENZE, l’antologia di Alfonsina Campisano Cancemi si avvale della brillante prefazione di Alfredo Pasolino. Assai convincente si rivela altresì la nota di Gaetano Quinci che, nei passaggi più significativi, viene riprodotta in quarta di copertina e della quale riportiamo taluni illuminanti stralci che appieno sottoscriviamo: "Alfonsina Campisano Cancemi, alla luce di un’attenta memoria e di una squisita sensibilità femminile, ha rappresentato la dimensione fonica e creativa del proprio vissuto, della propria spiritualità, del proprio essere donna e poeta. Una raccolta familiare nei toni ed elevata nei concetti; un incalzare di fermenti lirici, meditativi ed esaltanti che si ripropongono a ritmo mensile, sotto forma di intimità colloquiale e tematica che sa di confessione, di travaso, di liberazione."

"I modi della poesia sono infiniti, tanti quanti i poeti", ha affermato Ungaretti e sottolineato che "nella sua espressione essa deve portare il segno inconfondibile dell’individualità di chi la esprime". E asserisce Gianmario Lucini: "la Poesia non argomenta, ma allude, evoca, celebra. La poesia che fa eccessivo uso dell’argomentazione e della logica razionale è noiosa e petulante, dice in malo modo ciò che compete alla filosofia."
L’odierna prova di Alfonsina Campisano Cancemi, più risolutamente che in precedenza, pone in atto quei precetti, li coniuga al suo continuum filologico e antropologico, li trasfonde nel suo incessante iter di rinnovamento. E lungi dal mirare alla scoperta di parole nuove (in LA SPLENDIDA ATTESA, difatti, non ve ne sono), dall’interrogare temi inesplorati (e quali sarebbero poi?: la vita la morte l’amore, la guerra la natura gli assunti sociali, politici, spirituali… ), dall’escogitare ammalianti “effetti speciali”, punta a creare, entro quei contenuti per così dire eterni, inusitati lirici accostamenti, a perseguire inedite intensità che forgino singolari timbri fonici, a formulare dinamiche che rispondano all’esigenza di fissare un sentire che nel tempo muta, si converte, si affina. Giacché la Poesia, ci rammenta Lucini, insegue sì "un contenuto, ossia l’essere che si manifesta tramite l’opera d’arte", ma parimenti "i nessi che compongono la natura del segno nella forma del testo".

Classe 1935, figlia della guerra (il commento le appartiene), queste liriche sono scaturite, tutte assieme, dopo la morte della madre, ripensando/rivivendo un amore giovanile. L’accento del periodo incombe su “dopo la morte della madre”. Come se tale scioccante circostanza avesse aperto d’un tratto uno squarcio nella sua dimensione spazio-tempo, e questo star-gate avesse originato un fiotto di ricordi, riguadagnato uno spaccato della sua adolescenza, le avesse restituito l’olografia di sé ragazza (quella della copertina, ci figuriamo). E non per uno stato di regressione, per un repentino transfert emotivo, per un nostalgico re-immergersi nel passato.
Alfonsina Campisano Cancemi, per un processo omologo a quello di Marcel Proust – allorché, nell’assillante sua introspezione de ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO, egli realizzò che "tutti questi materiali dell’opera letteraria erano soltanto la mia vita passata" – costruisce a partire dalla “ricerca” del proprio passato il suo progetto; il quale non si risolve nello sterile riesumare "il ricordo lontano", poiché ciò, ci suggerisce Gianni Nuscis nel suo IL TEMPO INVISIBILE del 2003, "suonerebbe inautentico", "sarebbe visto con sospetto", quanto piuttosto contempla il "risalire la china" fino a ritrovare se stessa, il lucido rigettare "quel tempo" nella mischia, il ripristinarne il file dal cestino della memoria e, scrivendone, il contestualizzarlo, renderlo “presente”, farne occasione d’arte, Poesia.
Le confidenze a pagina 5, nonché alla pagina 17 il dato: "quindici anni", confortano le nostre impressioni. E giusto l’indicativo presente (tranne in DICEMBRE che, nelle more "della splendida attesa", premia l’indicativo futuro: ci sarà, giacerà, si scioglierà ) sono il modo e il tempo egemoni: s’annega, s’infrange, risorge, scivola, fremono, piluccano, canta, muore, dissangua, trionfa, lacera, declina, indulge …
Le parole di cui consiste questo florilegio (Non è con le idee che si fanno i versi: è con le parole, Stéphane Mallarmé) levitano minute, evanescenti, melodiose, e, nondimeno, puntute, essenziali, profonde, come le venature policrome in una lastra di marmo. E connotano, significano, perfezionano una pratica dello scrivere che, nell’assenza della punteggiatura (ad accentuare la liaison tra i componimenti), nel consumato “mestiere” (la costante: "mentre io aspetto / aspetto ancora", posta in chiusura dei testi, che ritorna per undici volte, e che alla fine del dodicesimo canto si spiega nella: "sinfonia / della splendida attesa"), nella penna tenera e sognante e parimenti sicura e concreta, determina una fausta fusione tra il talento e l’animo della Nostra.
C’è da credere dunque, per quanto considerato, che l’essere di questa dozzina di poesie sarebbe stato concepito con un dominio lessico-sintattico, con riferimenti storico-ambientali, con cardini umano-psicologici differenti se scritto in altra epoca. L’Autrice di oggi assomma infatti in sé le facies della persona, della donna, della madre; della credente. E (quella età allora, quella esperienza) quell’amore, che adesso coglie la sua onirica esplicazione, si veste quindi di corpo e di anima, di febbre e di silenzi, di terra e di cielo. E nel compimento del suo ciclo, nel tramite cosmico di sensi e di spirito, nella sempiterna solidarietà tra creatura e Creatore, l’Amore, che all’uomo proviene da Dio, a Lui torna; sicché un giorno "tutte le creature viventi si ritroveranno unite nell’abbraccio di un amore infinito, sotto l’occhio innamorato dello stesso Dio creatore".

Si perde Gennaio abbrividendo
Dondola nel frastuono una lacrima di Pierrot
Marzo s’annega in un volto senza rughe
Freschi giorni d’ambra dilegua Aprile
Dove s’aprono specchi si congeda Maggio
Questo pallido Giugno avrà colore
Luglio dei ricordi brucia la sua febbre
Senza eco conclude Agosto il suo turbine
Settembre tira reti d’autunno
Rotola Ottobre sulla mia pelle
Alla grande rinuncia agonizza Novembre
Si scioglierà la sinfonia dell’attesa.


Dodici liriche da Gennaio a Dicembre.
E in esse circoscritte (a volerlo s’intravedono) le stagioni della vita:
"la fronte irrequieta", "le primule, i mandorli", "i minuzzoli di sogno", a definire la giovinezza;
"il canto del grillo nelle notti di luglio", "l’azzurro spazio, la musica dei cieli", "la campagna profumata dei sorrisi", ad acclamare la maturità;
"la pelle orfana di fiori", "la strada muta di stelle", "l’ultimo approdo", a profilare la senilità.

Nuove poesie (di Carmelo Calabrò)



NELLA PANCIA

Nella pancia, ti sento nella pancia
Spingere con dolore nel diaframma
Che brucia e irradia fino alla gola
L’immagine di te che sfugge la mano
Nella mente in mille frammenti rotti
Il caleidoscopio contiene le movenze
I pensieri gli sguardi le abitudini
Le parole i silenzi, tutto contiene di te
È un flusso ininterrotto di memoria
Strappata al passato e disperatamente
Irragionevolmente rivolta al futuro



NON CHIEDERE

Non chiedere del tempo
Né in quale spazio
Lascia che l’organo più fragile
Batta libero come un pensiero
Nella sua pura dimensione
Segui solo lungo l’abside marino
La piccola sirena oltre le vele bianche
Con le tue calme pinne
E il tuo cuore buono e gli occhi
Che guardano lontano


IL VULCANO

il vulcano emana afa di lava scura
sulla roccia il piede soffre, digrigna
ma la fronte sudata si rivolge altrove
dove gli occhi scorgono l'abbaglio
del mare che acceca azzurro
e la salsedine giunge col vento
a spogliare i sensi, denudare i corpi
e nei tuoi occhi scintillano primordi
ferina la mia saliva ti vuole ora
subito sul suolo trafitto dal sole



MADDALENA

Ci sono i mercanti nel tempio
I mercanti con le facce di sale
Hanno monete di rame scuro
Monete col tuo viso stampato
Le mostreranno ai tuoi occhi
Come colombe bianche di mare
Per sporcare la tua veste dura
Per mostrare la tua carne impura
È solo un incubo Maddalena
Solo un incubo d’inverno
Corri al faro adesso corri
Alla luce gialla sull’onda lunga
Vedrai la mia faccia triste
Sentirai le mie mani fragili
No, rimani nel letto fermo
Sul cuscino aspetta l’ora
Tornerò da te, sarò con te
Dopo aver pagato i mercanti
Dopo aver ucciso i mercanti


DIFFIDARE

Diffidare delle altezze alate
Perché le ali si spezzano
E dall’occhio esce la lacrima
E dalle vene il sangue
Camminare rasente ai muri
Come me piccolo topo bianco
E lasciare la giungla ai felini
Dallo scatto violento e il collo rotto
Dall’amor fatui all’amor mortis
Il passo è breve e inconsapevole la via



IL VENTO

Il vento di levante
Pulirà i pensieri?
Darà all’anima
Rinnovato candore?
Vorrei un lino bianco
Al posto del cuore
E una barchetta azzurra
Immobile tra cielo
E mare



LE MIE NOSTALGIE

Le mie nostalgie
Sono terrazze sul mare



LA GRAZIA

La grazia è di seta
Di velo leggero
Che soffia e mi parla
Di lei

Dal tempo distante
La sento cadere
Sugli occhi e le mani
Per me

E vorrei capirne il senso riscoprirne (trattenerne) la realtà
Ma la grazie sfugge e vola via

La grazia di sera
Svanisce leggera
E l’aria si ferma
Per lei

Nel tempo lontano
Là dove finisce
Il giorno e la notte
Per me


A MARCELLA

E gli occhi abbiamo perso
Nella fuliggine, nel buio
In una galleria, nel pozzo
Come secchio grave scendiamo
E gli occhi perdono luce
Occhi velati, occlusi, stanchi
Eppure dal treno vedo il mare
Quante parole sul mare
Chiaro, scuro, calmo, rabbioso
D’estate, d’inverno, sempre
Per la noia, la malinconia
L’euforia sensuale, il peccato
O, come adesso, solo per gli occhi
Dalle rotaie ancora tersi
Luminosi, puliti, lontani
Verso orizzonte, oltre il mare
Ma il treno ha fischiato



IL PASSAGGIO

Forse il passaggio è segnato, stanco
Forse spossata la fibra dei pensieri
Ma non vedere il mare è colpa, grave
Perché il cielo non sempre è rosso
Sfumato di foschia calda di sensi
E la pelle tira al richiamo del ventre
Mentre cammini lento e pensi piano
Che il destino dei giorni è sempre
Quello di finire, senza rimedio mai



LEDA E IL CIGNO

In infinite forme muterò
Come l’acqua che scivola
E compone l’effimero e l’eterno
Con le sembianze di cigno poi
Verrò piano a sfiorarti, piano
Con le ali spezzate dal dolore
Non hai avuto pietà dell’uomo
L’avrai per l’animale che muore
Lo so che è un inganno Leda
Ma da sempre mi illudo
Come un bambino capriccioso
E solo, sempre solo

Vorrei trovare forme che non so
L’universo nell’atomo
Due anime in un corpo
O due corpi in un’anima?
Forse la forma senza forma
Un pensiero, ecco, un pensiero
Che contiene il tutto e il nulla
Leda non ti farò scolpire
Mentre mi accarezzi triste
Nessuna mano avara ci fermerà
Nessuna stanza chiusa
Nessun tempo né luogo


FUNERALE

Una bambina spaurita, stanca e bellissima
Nella navata soffocante, colma di brusio
Fuori il sole cocente, implacabile, morto
Tra le sincere parole del ricordo le lacrime
Per chi ho conosciuto solo nelle parole
Della bambina troppo intelligente, troppo
Per vivere nella volgarità del mondo
Ma non molto lontano c’è il mare
Lo guardo tornando a casa, in macchina
Tra i rumori dei clacson e le montagne
Sento l’odore del mare vicino, vicino
E rivedo la bambina aprire il sorriso
Sopraccigli alzarsi e andare via


FOGLIE

Ho raccolto le mie foglie
E le ho portate in casa
Stese sul letto, sono tristi
Non dormirò stanotte


LA MIA RABBIA

Stringo nel pugno
Il rosario di parole
Che non voglio dirti
Eppure lo scaglierei
Sul pavimento tetro
Gelido della tua mente
Tutti i grani impazziti
Aggredirebbero allora duri
Il tuo silenzio di bara
Fino a morire inutilmente


L’INUTILITÀ

So l’inutilità di un sorriso
E che le parole non servono
Nei momenti in cui tutto fa rabbia
Forse anche il silenzio, il solo che so

lunedì 22 gennaio 2007

Poesia e comunicazione (di Franca Mancinelli)


È il tempo, lo sappiamo, a dare consistenza alla poesia, a decidere il suo destino. I versi sono respiri in parole; proprio come si impara ad andare su due ruote o a galleggiare sul dorso, comunicare in poesia apre una possibilità altra, più ampia, di esperienza. Diventare poeti è conoscersi attraverso i vari strati di pelle, da quello più esposto e resistente a quello interno, come una filigrana del sangue; seguire come maestri i gatti che hanno sette vite, le tartarughe che per madre hanno il guscio d’uovo rotto e sono subito in mare, gli anfibi e tutti gli animali che migrano. Perché a restare impresso nel tempo non è nient’altro che la quantità di vita: questo fardello è il discrimine tra chi si è servito ed è stato usato dalla poesia per comunicare e chi invece ha tenuto a bada il vuoto con catene di suoni e di immagini, chi si è distratto, si è divertito. Non voglio dire che la poesia non sia fatta di gioia, tutt’altro. Ma il tipo di gioia delle sue fibre è, per intendersi, quella dell’ultima scena di Breveharth, di una frase che riporto così come ricordo: «e combatterono come poeti guerrieri, combatterono come veri scozzesi, e si guadagnarono la libertà». La fine di un libro o di un verso dovrebbe essere in questa corsa esultante e gridata, verso una libertà raggiunta, prima di tutto riguardo a se stessi.
La solitudine e l’isolamento in cui hanno vissuto grandi voci poetiche (Leopardi, Pessoa, Dickinson, per citarne alcuni) è cosa nota a tutti, così come l’autonomia della poesia rispetto all’immediato presente, e la sua caparbia da mulo, quando si trova inascoltata. Non è il credito concesso dai media a determinarne la salute; è vero il contrario, ossia che l’evoluzione di una società può essere misurata attraverso l’ascolto che dà ai suoi poeti, come afferma Brodskij. D’altronde può darsi il caso di una società sensibile alla poesia ma povera o priva di poeti (penso ad esempio agli anni dell’Arcadia, della poesia nelle Accademie). La poesia è una rosa del deserto, come quel fiore di pietra non si sa a chi appartenga, da chi sia stata fatta: c’è sempre, dentro ogni verso, la presenza di un altro (una parte di sé, l’amato, la polis, un defunto) a cui si rivolgono le parole e nel quale le parole si necessitano. È soltanto questo “pubblico” interiore e dipendente dalla nostra facoltà immaginativa, come nel gioco solitario di un bambino, a decidere il destino di un poeta. «Ragione pratica, questa di un pubblico, che mi pare da supporsi quasi concime alla radice di ogni vigorosa vegetazione artistica», scrive Pavese ne Il mestiere di poeta. Eppure non aveva presente, probabilmente, il riscontro anonimo dei media, perché proprio nel ’50, all’apice della sua carriera di scrittore (il “mestiere” è cosa ben diversa), lamentava la mancanza del “sangue” della vita, e di lì a poco se ne sarebbe andato. Insomma, occuparsi del pubblico non come risposta al bisogno, anche legittimo, di rispecchiamento e di conforto, ma per una semplice ragione di sussistenza. E per il resto non lasciarsi distrarre da nient’altro che non sia la vita.

È proprio in domeniche come questa (di Stefano Bianchi)

Rondini?

Ci sono ancora rondini su questi cieli
le ho viste, non ci credi?
Ieri
c’eri
dove sciupavi gli occhi?

Non l’han persa la strada
allora.

C’è ancora il tempo giusto di partire?
Dicono che no, che solo partire
conta.

Camminiamo
una strada di ciechi
segnata da chi regge le sorti
senza un dubbio,
ne manca il tempo,
da che tutto quanto è

soldi.

E in tutto questo andare…
... rondini.

Non l’han persa la strada
allora.


****

dalla raccolta Le mie scarpe sono sporche di sabbia anche d'inverno


Giornata n° 7


È proprio in domeniche come questa
quando l’ansimo del lavoro s’allontana
e un sole freddo e novembrino
d’un tratto al risveglio – ed eran giorni! –
fa capolino
sulle case sgocciolanti della festa
che son lini e panni ad asciugare.

È proprio in domeniche come questa
quando i ragazzi che rincorrono il pallone
nei prati del paese,
le melodie e le parole belle non bastano più.

È proprio in domeniche come questa
quando le sbornie della notte prima,
i cari compagni
rari
e gli occhi belli della femmina
cara
che ho scoperto vicina stamattina
sono chiusi nel sonno della festa.

È proprio in domeniche come questa
mentre due compagni
della strada bella che s’è percorsa
salgono sull’auto per Milano
senza il tempo
di un saluto
nella furia del weekend che va a morire.

È proprio in domeniche come questa
che la tua assenza mi viene a trovare
e un’altra volta – quando l’ultima? –
ritorna accanto a me
mi cammina al fianco
e mi prende la mano
la sinistra
ovviamente
come sempre.


Due vecchi

Camminano.
La testa trema lei del male che la porta
la schiena lui non leva
dagli anni che ha in cartella
assieme ai libri e le merende delle dieci.

Camminano.
E il male che li porta
è questo tumore d'esser nati
che tutti ci accompagna.

Camminano due vecchi

i volti son sereni
e si tengono la mano.


Quando ammetterai che

Il gioco più bello non ti serve più
se non hai con chi giocarlo.

Le ore più serene, serene non son più
se non hai con chi passarle.

La cena più buona non ti sazia
se non hai a chi offrirne.

Le parole più belle sono sorde
se una volta una non le dici a chi può ascoltarle.

Il vestito più elegante non ti abbellisce affatto
se nessuno te l’ha detto.

I soldi e la casa muoiono con te
se non hai a chi lasciarli.

Il viaggio più bello ti annoia
senza chi guardi fuori il finestrino
le montagne che scappano lontano.

Aver ragione è stupido
se non hai chi ti dà torto.

Quel che sei non è
se non riflette gli occhi di chi guarda.

Quando lo ammetterai…

Sta’ allegro amico
è solo la vita che ricomincia
i tuoi sogni che iniziano ad avverarsi.


Vederti la sera

Il solo vederti la sera
è quanto rimane di giorni
di vento e d’aria fresca
non so poi se felici
di più
trascorsi ad aspettare un futuro
che all’improvviso – chi l’avrebbe creduto?
– è tutto qui.

Il solo vederti la sera
è la piccola gioia di cui vivo adesso
così grande da colmare i giorni
di verità
non dico di un senso
che non si può ma della mano che tiene la mia
e la porta in giro con sé
incurante – quanto sa – delle ingrate parole
che non so trattenere
e dello sguardo triste
che mi porto appresso da sempre
come l’ombra della mia serenità.


Spille

Mi mancano perfino le spille
pure quella che sfilasti dalla coda dei capelli
raccolti col gesto più banale
che non so dimenticare
a chiudere la giacca difettosa
e la mia valigia piena
di quei pochi giorni
belli
di vedersi ogni mattina.


L'usato sogno

A volte la sera
mi si spalancano gli occhi sul cuscino della notte
e mi scuotono come da un sogno – la vita?
D'un tratto mi chiedo "Perché non sei qui adesso?"
poi però mi addormento
ancora una volta
e ancora una volta
ti dimentico.

Il mattino mi sveglia,
il lavoro e le altre cose mi chiamano
di corsa coi compagni
dell'usato sogno
che da sempre ci imprigiona.


Novembre – secolo 21

Già stelle di natale
grandi
pendono dal cielo della città
non ancora illuminate, ma son qua.
Novembre ci ha da poco regalato il suo novello
vino
le castagne adornano le tavole dei ricchi e della
povera gente.
È già l’ora triste del commercio del figlio
dell’uomo?
Dei negozi e delle luci per gli allocchi
dell’invidia o la bestemmia di chi non entra
nel paese dei balocchi?
Denaro decide il tuo giorno – figlio dell’uomo –
apre le porte agli uni e le sbarra agli altri
decide l’uomo giusto dall’ingiusto.
Non certo tu figlio dell’uomo – se mai esisti –
ed io che aspettavo ignaro e infreddolito di San
Martino un raggio,
regalo da niente che quasi da sempre mi
vergogno a desiderare tanto,
d’un tratto m’accorgo che è natale – dicono
– auguri e buone feste –
dicono a tutti noi
le stelle di natale.


Alcune delle poesie qui sopra ed altre inedite sono state pubblicate nelle antologie tematiche Il desiderio, Sogno, Il Ricordo, Nella notte di Natale. Racconti e poesie sotto l'albero (presentata alla fiera Più libri più liberi 2007) edite da Perrone Editore, Roma, tra il 2007 e il 2009 e nella raccolta Poeti romagnoli d'oggi e Federico Fellini, Società Editrice «Il Ponte Vecchio», 2009.



*****


(altre poesie dalla prima raccolta La bottiglia)

VIII

Tieni come il più caro tesoro
La verginità dei tuoi sogni
Un giorno la perderai
E da quel triste momento
Non soffrirai più.


Piove

Piove
di gocce leggere
fresche di vita al caldo della sera
acqua, acqua
e io dormo sogni lontani
e ascolto fuori la vita che scorre
come un solletico sulla mia pelle
e io dormo la pace
delle sere d'estate
dormo la pace
d'esser bambini
e quell'eterna vacanza
di essere veri
acqua, acqua
e io dormo al suo ritmo costante
veloce
per una musica che tarda a venire
o forse chissà
è già nelle cose
acqua, acqua …
… arriva qualcuno
una luce
una voce
e non sento la pioggia
più


III

A volte basta un raggio di sole
A volte no.


Nato nel 1972 a Rimini, Stefano Bianchi ha pubblicato le raccolta La bottiglia (Edizioni Pendragon, 2005), Le mie scarpe son sporche di sabbia anche d'inverno e Sputami a mare – Le voci (Fara Editore, 2007 e 2010), quest'ultima segnalata al Premio internazionale Città di Marineo 2011. Ha presentato le sue poesie in vari contesti pubblici, tra cui la radio e la televisione. Alcune poesie sono in rete sul blog farapoesia e sul sito della Fara Editore. Altre sono presenti nelle antologie Il desiderio, Sogno, Il Ricordo, Nella notte di Natale – Racconti e poesie sotto l’albero edite da Perrone Editore, Roma, tra il 2007 e il 2009, e nella raccolta Poeti romagnoli d’oggi e Federico Fellini, Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, Cesena, 2009.